HOME    PRIVILEGIA NE IRROGANTO   di Mauro Novelli    Documenti d’interesse   Inserito il 9-12-2006

 


 

CORRELAZIONI AL PRESENTE DOCUMENTO

    LA REPUBBLICA (1-12-06) Sempre più d'oro i manager italiani. In tre anni +80% i compensi degli….

 

 


 

Da Europa

 

Poteri forti, anzi vecchi

 

di MATTEO RICCI

A ondate successive irrompe nel dibattito politico la problematica delle nomine nelle aziende a totale capitale pubblico o in quelle, già sul mercato, ma per le quali è rilevante la partecipazione pubblica tanto da determinarne la governance. Non vogliamo intervenire sui pro e contro di un sistema basato sul principio dello spoils system, bensì vorremmo portare un contributo sulle procedure e sui criteri oggi prevalenti nel nostro paese per individuare concretamente il candidato ideale, ovviamente considerando che si voglia operare nell’esclusivo interesse del paese e del governo.
Non abbiamo elementi oggettivi per sintetizzare, come ha fatto di recente, con grande efficacia, Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredito (principale gruppo bancario italiano), quando ha parlato di un sistema di “cooptazione collusiva”. Al tempo stesso, però, corre l’obbligo di segnalare la forte “anomalia” della classe dirigente italiana, che dovremmo piuttosto definire, tentando una sintesi, “gerontocrazia perenne”. Mi rendo conto che la definizione sia molto meno efficace di quella proposta dall’amministratore delegato di Unicredito, ma almeno ha il vantaggio di essere assolutamente inconfutabile.
A livello europeo, e forse con la sola eccezione del Giappone anche a livello mondiale, tra i paesi leader dal punto di vista economico l’Italia è quella che ha la classe dirigente più anziana. Solo negli ultimi cinque anni l’età media della classe dirigente italiana è cresciuta di più di due anni arrivando al traguardo non molto invidiabile di 48,5 anni. Anche le aziende private non sono da meno e stanno ritardando più possibile il ricambio generazionale. La consistente presenza dei rampolli degli imprenditori italiani nelle varie associazioni datoriali è una riprova che l’azienda è ancora nelle mani dei genitori.
Il dato dell’anzianità deve far riflettere, soprattutto in un paese come il nostro in cui il 25,6 per cento della popolazione ha più di 60 anni; dopo il Giappone (26,3) è la percentuale in assoluto più alta del mondo. Il rallentamento demografico sta spostando verso l’alto anche l’età mediana che è arrivata in Italia a 42,3 anni. L’età mediana rappresenta quella età per cui abbiamo lo stesso numero di persone in vita sia in età superiore che in età inferiore alla età mediana stessa.
Ebbene l’età media della classe dirigente è di quasi sette anni superiore all’età mediana. Mi sembra francamente troppo se lo scopo era quello di evitare il rischio di non garantire un profilo attivo in linea con le più elevate speranze di vita attuali.
In un recente seminario organizzato da Glocus veniva presentata una interessante correlazione tra merito ed età. Suddividendo per classi di età i 5.500 nominativi presenti nell’annuario “who’s who” italiano si otteneva che il 30 per cento dei nominativi apparteneva alla classe di età 61-70 anni e il 23 a quella oltre i 70 anni. Complessivamente da sole queste due classi valgono il 53 per cento (nel 1998 erano il 46 dei nominativi).
Questo dato è ancora più significativo se si pensa che solo il 5 per cento dei nominativi presenti nell’annuario risulta avere meno di 40 anni e solo il 14 appartiene alla classe di età 41-50 anni. Il modello di riferimento che si è affermato nel settore pubblico è quindi quello che predilige l’esperienza, magari anche come e con chi la si è fatta (modello manager Iri) più che la conoscenza.
Si sta vivendo una fase in cui il valore più apprezzato è quello della maturità e dell’esperienza.
Ma c’è un rovescio della medaglia che evidentemente non preoccupa nessuno. Quando si attribuisce troppo prestigio all’età, quando si considera l’esperienza più importante della fantasia e della innovazione si crea un ambiente sedentario, formale, cristallizzato che risulta soffocante per i giovani. Da una certa età in poi è come se il dirigente vivesse permanentemente in situazioni già vissute. A questo va associata una scarsa propensione al rischio e all’innovazione. La difficoltà più grande nello stimolare una cultura creativa è trovare il modo per incoraggiare la molteplicità dei punti di vista. Senza innovazione siamo condannati oltre che alla noia de alla monotonia, alla decadenza e al declino. Per favorire l’innovazione bisogna creare un ambiente di lavoro e una organizzazione nuova, che stimoli la collaborazione, valorizzi nuove piattaforme tecnologiche abilitanti per le nuove idee, favorisca la diversità di pensiero ed incoraggi i diversi punti di vista. Le idee nuove, l’innovazione non hanno niente a che vedere con la pratica e l’addestramento. Dobbiamo preoccuparci di correggere questa impostazione molto presto: oggi l’Italia è la settima nazione del mondo per Pil, ma se guardiamo alla indice di competitività, non siamo neanche nelle prime quarantacinque posizioni (global competitiveness index), e non siamo tra i primi venticinque paesi nell’indice innovazione. Appare chiaro a tutti che c’è bisogno di nuove idee, di un vero ricambio generazionale.
Basta guardare a quello che avvenuto nel settore bancario e i risultati raggiunti in questi ultimi tempi sono stati ottenuti anche grazie ad una nuova classe dirigente più giovane e motivata. Serve in sintesi una netta discontinuità con il presente. Il problema quindi non è, o meglio non è solo quello della politica che individua rose di candidati. Il problema è che i nomi sono sempre gli stessi ormai da troppi anni. Presi purtroppo dalle stesse vecchie agende.