Processo alla scuola Il
nostro sistema da vent'anni continua a peggiorare. E i nostri studenti sono
sempre più ignoranti. Le colpe della politica, degli insegnanti e
delle famiglie
di Roberta Carlini
Matematica:
sex. Sulle pagelle degli studenti italiani meno bravi si legge ancora il 'sex' inventato nel secolo scorso per evitare che
qualcuno trasformasse la i in t e proseguisse contraffacendo un bel 'sette'.
Solo che adesso le pagelle sono scritte al computer e poi stampate, per cui una correzione con la biro sarebbe impossibile.
Eppure, è rimasto il 'sex'. Per Domenico Starnone, scrittore ed ex insegnante, quella del 'sex' è una metafora potentissima
della nostra scuola: della scuola invecchiata che non vuole cambiare, che non
si arrende neanche all'evidenza. E che ci consegna, lo dicono i numeri
italiani e i confronti internazionali, un sostanziale fallimento educativo.
Nonostante tre riforme in dieci anni, nonostante i grandi proclami della
politica, nonostante la spasmodica e spesso isterica
attenzione delle famiglie, nonostante le agitazioni dei suoi 835 mila
insegnanti. O forse proprio a causa loro: della politica, degli insegnanti,
delle famiglie. Protagonisti e imputati nel processo alla scuola del 'sex'.
Fallimento
in cifre
"Nel Mezzogiorno italiano un quindicenne su cinque è povero di
conoscenze". L'allarme è risuonato fortissimo, qualche mese fa,
non nell'aula del Parlamento, non in un comizio, non in un'assemblea, e ad
ascoltarlo non c'erano studenti né professori né politici,
ma compunti banchieri e uomini d'affari, convenuti in Banca d'Italia a
sentire le 'Considerazioni' del governatore Mario Draghi. Ennesima bizzarria
dell'Italia, ennesima supplenza della sua Banca
centrale? Fatto sta che i dati denunciati da Bankitalia collocano la nostra
scuola al venticinquesimo posto nell'Ocse.
Quando sono stati pubblicati hanno suscitato discussioni e commenti perfino
in Germania, paese nel quale gli studenti mostravano competenze inferiori
alla media, ma superiori a quelle degli italiani,
mentre da noi sono passati quasi inosservati. A quelle evidenze poi se ne
sono aggiunte altre, ma non si può dire che intorno alla scuola sia
nato quel clima da emergenza nazionale che potrebbe forse salvarla.
Dove nasce la crisi? Col suo sguardo lungo e disincantato, Starnone colloca l'inizio della fine negli anni '80: fu
allora che "mentre negli altri paesi si scopriva il business
dell'istruzione, da noi la scuola perse interesse agli occhi della politica e
della società". Un clima immortalato sin nel titolo dal suo 'Ex cathedra', libro-icona di una generazione
di insegnanti che avevano sognato di rivoluzionare
la scuola. Anche Marco Rossi Doria, 'maestro di strada' da trent'anni e fondatore del progetto Chance, da qualche
mese consulente del ministero dell'Istruzione, fu parte di quella 'meglio gioventù' di insegnanti e intellettuali. Cita i
dati sulla dispersione, legge le statistiche e sbotta: "Altro che scuola
di massa. Se uno su tre prende solo sufficiente alla licenza media e uno su
cinque esce da scuola senza diploma né qualifica, siamo di fronte a un
fallimento formativo di massa".
Dieci
anni di riforme
Eppure negli ultimi dieci anni la politica le mani nella scuola le ha messe,
eccome. Rossi Doria non è sospettabile di
simpatie morattiane quando dice alla sinistra: "Smettiamola di imputare
tutti i mali della scuola a Letizia Moratti,
è una follia pensare di cambiare ogni volta la scuola col cambio di
colore dei governi". E di mani di colore ne sono state date tante, negli
ultimi dieci anni: le regole sull'obbligo scolastico sono cambiate tre volte,
sono stati aboliti e spostati esami, riformati i cicli, fatte e disfatte
commissioni e resi autonomi i quasi 60 mila istituti della Repubblica. Senza
con questo migliorare la scuola italiana: che resta 'senz'arte
ma di parte', come ha sostenuto Luigi Berlinguer all'inizio dell'estate in un
articolo sul 'manifesto' in cui denunciava la
carenza della cultura scientifica, del metodo sperimentale e della musica nel
nostro sistema educativo. Attirandosi lettere infuriate: "Tu
dov'eri?", è stata la domanda prevalente, soprattutto da parte
degli insegnanti. Berlinguer era al governo, dal
'96 al '98, prima che la rivolta del mondo della scuola inducesse il
centrosinistra a mandarlo via.
Con lui
sparì la proposta, impallinata dagli insegnanti, di introdurre criteri
di valutazione del lavoro dei docenti. Restò
la novità principale: l'autonomia scolastica, con tutto il suo portato
di sponsor, progetti, Pof (piani di offerta
formativa delle singole scuole).
Cosa hanno fatto le 57.557 scuole d'Italia finalmente autonome dal
centralismo romano? Basta aprire un sito Internet di un istituto o
recarsi a una riunione preparatoria alle iscrizioni per capirlo: un marketing
di offerte e progetti di attività aggiuntive, rare novità sugli
insegnamenti tradizionali. "L'autonomia è diventata
intrattenimento formativo", dice Starnone:
"Non ha portato soldi e ha introdotto l'incubo del Pof,
burocratizzando ancora di più il lavoro degli insegnanti". Sicché
le nostre scuole si sono trasformate in progettifici,
senza per questo avere più risorse: i fondi pubblici, a dispetto della
sbandierata autonomia, sono rimasti fino all'anno
scorso tutti vincolati agli specifici capitoli di bilancio - questo per i
cancellini questo per i laboratori - mentre i famosi sponsor si sono visti
poco. Assai spesso si chiedono soldi alle famiglie per fare corsi aggiuntivi,
mentre i programmi tradizionali restano immutati e i laboratori deserti.
Così l'autonomia, che esiste in molti dei sistemi scolastici al top
delle classifiche mondiali, in Italia è diventata uno dei problemi,
per tanti il problema principale. È successo
"perché è stata attuata male, da un corpo docente che non l'ha
digerita, e poi vanificata dalla Moratti",
sostiene Berlinguer; mentre gran parte del corpo
docente, ben rappresentata da Paola Mastrocola,
autrice del libro 'La scuola spiegata al mio cane',
sogna di de-berlinguerizzare la scuola, e vagheggia
un ritorno al passato, con tanto latino. E programmi tradizionali dettati da
Roma.
A proposito di programmi. Nel turbinio delle
riforme ci si è dimenticati dell'essenziale: cosa e come si insegna,
dove e perché nascono i 'poveri di conoscenze'. Perché
la scuola italiana fallisce nell'educare al 'problem solving'? Perché
dopo elementari decenti abbiamo il tracollo delle medie? Perché quando si
parla di riforme ci si concentra sempre sui licei, mentre più della
metà degli studenti frequenta tecnici e professionali? E perché una
scuola apparentemente uguale per tutti a Sud tracolla? Mauro Palma,
coordinatore dell'area educativa dell'Enciclopedia Treccani
e co-autore di uno dei più diffusi manuali di
matematica dei licei sperimentali, ha un buon punto di osservazione
sull'insegnamento delle materie scientifiche. "Fatte salve le
sperimentazioni, nei licei siamo ancora fermi ai programmi dettati nel 1944.
Quanto alle commissioni per i nuovi programmi, per anni si è andati
avanti con criteri parlamentari: per mediare tra le varie posizioni,
mettevano dentro un po' di tutto", racconta.
Il passaggio dai programmi alle linee-guida, omaggio all'autonomia
scolastica, non ha migliorato le cose. Palma condanna quanto fatto e
quanto non fatto sull'insegnamento della matematica: "Bisogna chiedersi
perché i bambini, che cominciano a imparare proprio dai numeri, a un certo
punto se ne distaccano. E perché la materia più insegnata nella scuola
italiana è anche quella in cui andiamo peggio". Secondo la sua
diagnosi, il luogo in cui qualcosa si rompe è la scuola media,
"quando si perde il riferimento problematico"; molto pesa anche il
contesto culturale generale, "per cui una
persona colta deve sapere il latino, ma può tranquillamente sbagliare
una percentuale senza vergognarsene".
Gli insegnanti
Stanchi di Pof e progettifici,
malpagati, sempre meno gratificati. Gli insegnanti
italiani non se la passano bene. Ce lo dicono
persino i loro matrimoni, sostiene il sociologo Antonio Schizzerotto,
che nel tipo di nozze di maestre e prof ha rintracciato un declino della
desiderabilità sociale della professione. Ma siamo sicuri che siano
senza peccato, nella crisi della scuola? Com'è fatta e come si muove
la classe insegnante? I dati generali ci dicono che è più
anziana della media dei lavoratori (età media 49 anni, nei prossimi
sei anni ne andranno in pensione oltre 200 mila) e
per i tre quarti fatta da donne.
Sono al 60 per
cento laureati, lavorano in media 15 ore a settimana meno degli altri. Il
numero di precari è enorme: 124 mila su 835 mila. Per un giovane
che si avvia all'insegnamento, la probabilità di avere un contratto a
termine è 25 volte superiore che in qualsiasi
altro settore. È quanto sostiene un lavoro della Banca d'Italia, che
sottolinea: in questo caso la flessibilità non aumenta l'efficienza,
ma la abbatte. Lo stesso studio dà un indizio decisivo per chi voglia scoprire cosa non va nella scuola: la giostra
annuale degli insegnanti. Un dato per tutti: un docente su cinque cambia
scuola da un anno all'altro. Una girandola che non è
dovuta solo ai precari: le richieste di trasferimento dei prof di
ruolo verso la scuola preferita riguardano un terzo del turn-over, 50 mila
all'anno. I criteri? Tutti burocratici e anagrafici, niente a che vedere col
merito né con i bisogni delle scuole. Così, si assiste ogni anno a
esodi continui: prevalgono i movimenti verso Sud e all'interno del Sud; quanto ai tipi di scuola, c'è una fuga da
professionali e medie. Dunque, la mappa dei trasferimenti ricalca quella
delle zone nere del sistema scolastico: medie,
professionali e Mezzogiorno. Non è certo un caso.
Può reggere un sistema nel quale ciascuna scuola è autonoma e
diversa dall'altra, ma i docenti sono tutti identici, un sistema in cui un
professore bravo non ha alcun incentivo ad andare dove c'è più
bisogno di lui, cioè una scuola difficile? Rossi Doria,
che nei quartieri a rischio di Napoli ci è andato per scelta, dice che
no, non può funzionare. Per aumentare l'eguaglianza, dice, dobbiamo
accettare le differenze: così come fanno in Francia, dove gli
insegnanti che vanno nelle Zone di educazione prioritaria (le Zep) hanno incentivi economici e di punteggio. "Con
l'egualitarismo standardizzato finisci per fare una scuola di classe, dove
vanno bene solo i licei". Insomma, bisognerebbe costruire un
meccanismo, o almeno dare degli incentivi, perché i migliori vadano nelle
scuole peggiori: ma quali sono 'i migliori'?
Ritorna l'argomento tabù, quello della valutazione: quello su cui,
anni luce fa, esplosero Gilda e Cobas, contro i
primi timidi tentativi in tal senso. Negli staff tecnici del ministero sono
allo studio metodi per valutare l'andamento delle classi, modo indiretto per
valutare l'operato dei professori. I quali, dice Rossi Doria,
prima o poi qualche cambiamento dovranno accettarlo: "Si considerano
dipendenti pubblici, ma sono professionisti del sapere, devono abbandonare
una visione rivendicativa, capire che è cambiata la scuola e la
società, sono cambiate le famiglie".
La famiglia
Intorno alla scuola invecchiata senza crescere, alla scuola
del sex in pagella, è cambiato tutto, a partire da studenti e
famiglie. "La divisione degli studenti non passa semplicemente tra figli
di poveri e figli di ricchi", constata Starnone: "A scuola arriva anche un ceto
svantaggiato culturalmente, che però dal punto di vista materiale ha
tutto. E allo stesso tempo i figli del ceto medio colto, quelli che una volta
gratificavano gli insegnanti, sono esposti come tutti a violenza, alcol,
droga. La violenza a scuola c'è sempre stata, persino in 'Cuore' Garrone, che era uno
buono, andava a scuola col coltello: solo che se prima c'era una rissa tra
due, il terzo interveniva per separarli, adesso si ferma per filmarli". Ma
se la scuola è impreparata a tutto ciò, non è che le
famiglie l'aiutino a migliorare. Sborsano sempre più soldi, dai libri
ai corsi aggiuntivi ai materiali, e sono più presenti di prima; ma
spesso arrivano come clienti a guardare la vetrina della scuola e quando
qualcosa non va, protestano violentemente o vanno
dal giudice. "Vale nella scuola quello che vale
fuori: chi batte i pugni sul tavolo vince", dice amaro Starnone. "Le famiglie spesso delegano, non
costruiscono più il super Io, ma poi se la scuola impone delle regole
severe, molti si infuriano", commenta Rossi Doria.
La famiglia-cliente non mette sotto processo pubblico la scuola, si limita a
difendere il proprio discendente, a suon di pugni o di ricorsi legali.
C'è
poi un altro effetto-famiglia, ed è quello antico: nonostante tutti i
cambiamenti, resiste il fenomeno per cui il
background familiare ha un peso decisivo negli esiti scolastici. Nei paesi
nei quali la scuola è migliore, diventano meno decisivi il reddito o
l'istruzione di papà e mamma: anche qui, numeri e studi sul fenomeno
mettono l'Italia in posizione svantaggiata. L'economista Daniele Checchi ha scandagliato la relazione tra i sistemi
scolastici e peso dei background familiari, tra scuola e promozione sociale: vien fuori che, se negli anni tutti hanno avuto qualche
opportunità in più, non è cambiata la mappa delle diseguaglianze. Lo si vede anche
nelle macro-differenze, quelle tra Nord e Sud: il 5 per cento dei genitori di
quindicenni del Sud ha al massimo la licenza elementare, il 32 per cento si
ferma a quella media. Nel Nord Est, le stesse percentuali scendono all'1,6 e
al 19,8 per cento. Insomma, la famiglia e il territorio continuano
a fare la differenza nella scuola pubblica italiana. Nel bene e nel male.
Scheda
Privato e pure bocciato
'Più soldi alle private'. In passerella a Rimini, il ministro Giuseppe
Fioroni ha annunciato ai ciellini festanti (ma un
po' scettici) il suo favore all'aumento degli stanziamenti per le scuole
private. Che, dall'introduzione della parità scolastica
(centrosinistra) ai buoni scuola regionali
(centrodestra) non sono mai state dimenticate, senza però mai
decollare davvero. Nell'anno scolastico 2005-2006 gli iscritti alle scuole
superiori paritarie erano 79.200 (1.904 in meno rispetto all'anno
precedente): il 4 per cento del totale, concentrati a Nord.
In parte sono scuole a pieno titolo, in parte sono quei diplomifici
che hanno dato pessimo spettacolo agli ultimi esami di maturità,
spedendo ragazzi che avevano pagato fior di quattrini a sostenere gli esami
di Stato da privatisti anche laddove, in base a regole note da mesi e mesi,
non potevano sostenerli perché c'era un tetto numerico.
Quanto al rendimento, i dati 'Pisa' dell'Ocse
dicono che in Italia la scuola privata non è affatto d'eccellenza.
Anzi: le competenze in matematica di un quindicenne in un istituto privato
sono, nella media, pari a quelle del suo collega nella scuola pubblica
(cioè basse). Altrove, specie nei contesti anglosassoni, si evidenzia
invece un divario netto, a favore della scuola privata: ma solo a causa di una autoselezione basata sul
reddito. Depurati dall'effetto-background (cioè dal peso del contesto
familiare e sociale), ecco che anche i bei risultati delle scuole private
inglesi non brillano più tanto. Quanto all'Italia, depurati
dall'effetto-background, i risultati della scuola privata crollano, e quella pubblica sale in vantaggio (sempre nei test ai
quindicenni) di 27 punti.
Scheda
Il quindicenne? È un bel problem
Le pagelle del
fallimento ce le danno gli organismi internazionali
e sono quelli dell'indagine 'Pisa' dell'Ocse. Sono
i voti dati ai quindicenni italiani dopo test specifici sulle competenze in
lettura, matematica, scienze e problem solving: la capacità di risolvere i problemi,
il ramo più secco del nostro sapere. Ma i numeri del fallimento li
abbiamo anche in casa, e ci dicono che il disastro si concentra nel
Mezzogiorno e nella scuola media.
I dispersi Sono i giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno lasciato la
scuola senza un diploma superiore né una qualifica professionale. Hanno solo
la licenza di terza media. L'obiettivo europeo è portarli entro il 2010 sotto quota 10 per cento. In Europa sono intorno
al 15, in Italia il 20,6. Vale a dire: un giovane su cinque è
uscito da scuola senza un titolo utile, né sta facendo formazione in alcun
modo. La Sicilia ha il record negativo, con il 30,4 per cento di giovani fuori da ogni formazione, pur avendo il record degli enti
di formazione professionale: 2.700 (contro i 600 della Lombardia).
Le medie Alla fine delle elementari, i bambini in ritardo sul regolare
corso di studi sono il 4,2 per cento. Alla fine del terzo anno delle medie la
percentuale dei ritardi è salita all'11. E ben il 37,3 ottiene la
licenza di terza media per un soffio, con il voto 'sufficiente'. Nella stessa
direzione vanno le indagini internazionali sulle competenze dei ragazzi: una
comparazione dei dati Iea e Ocse,
contenuta in una ricerca fatta degli economisti Piero Cipollone
e Paolo Sestito (Ufficio studi di Bankitalia),
mostra che alle elementari i bambini italiani ne sanno quanto gli altri,
mentre dalle medie si evidenzia un forte calo, soprattutto in matematica
e scienze. Il non fatto delle medie si svela alla fine del primo anno delle superiori: un iscritto su cinque lascia e il 35 per
cento è promosso con almeno un debito formativo.
Le conoscenze I punteggi conseguiti dai quindicenni italiani ci
collocano al venticinquesimo posto nell'Ocse. Sulla
base di tali dati, la ricerca di Cipollone e Sestito ha tracciato una mappa dei 'poveri in conoscenze': studenti che pur sapendo leggere non sono
capaci di utilizzare la lettura per apprendere cose nuove, ragazzi che pur
sapendo far di conto non sanno fare il cambio di una
moneta. La quota di quindicenni 'poveri di conoscenze'
nel Nord non supera il 5 per cento, nel Centro è sull'8 e nel Sud va
dal 14 al 22. Insomma, a Nord siamo 'bravi come gli altri',
per citare il titolo di uno studio curato da Luciano Abburrà
che mette a confronto Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana con altre regioni
Ue.
Le medie superiori In parallelo alle differenze Nord-Sud, corrono
quelle tra istituti. Tutti i dati della ricerca migliorano nei licei,
peggiorano negli istituti tecnici e soprattutto nei professionali. Quella
dei professionali è un'area critica anche nel Nord, è qui
che si concentrano le competenze più basse. Ma è qui che si
concentra anche la maggior parte degli studenti: nei licei, anche dopo il
recente boom, va un terzo dei ragazzi, il 32,5 per cento. Più della
metà si divide tra tecnici e professionali.
La spesa La spesa pubblica per istruzione e
formazione, in Italia, è scesa dal 4,75 al 4,66 per cento del Pil in dieci anni. A tirarla giù, nei confronti
internazionali, è soprattutto l'università: nella scuola
primaria e secondaria la spesa pubblica per studente (pari nel 2004 a 6.136
euro) è superiore alla media europea. Tale spesa è all'85 per cento statale. La parte affidata agli enti locali
fa la differenza: si va dai 1.536 euro per studente del Trentino Alto Adige
ai 537 della Puglia.
R. C.
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