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Il Corriere della
Sera (8-4-2009) Il terremoto in Abruzzo. Eroi e vecchi camion, le due Italie. Fantastica dedizione e piccoli egoismi, i
contrasti (storici) di un Paese in emergenza di Gian Antonio
Stella Il caposquadra dei pompieri Marco
Cavagna ci ha lasciato la
pelle, nel tentativo di salvare quella degli altri. Era partito coi colleghi
da Bergamo per L'Aquila all'alba. La sera era già al lavoro tra le
rovine della città fantasma. Una fitta e si è accasciato.
C’è da sperare che almeno l’ambulanza fosse in ordine. Perché,
insieme con tanti eroi ricchi di coraggio e generosità come lui, i
vigili del fuoco arrivati da tutto il Paese sono stati costretti a portare in
Abruzzo anche vecchi camion scassati. Bestioni appesantiti da venti anni di servizio o
ancora di più. Che a volte, dopo un
rantolo del motore, si sono fermati in autostrada e, come
certi muli di una volta, non han voluto saperne di ripartire. Eccole qui, le
due facce dello Stato sul fronte di quella che Guido Bertolaso ha chiamato
«la tragedia del millennio». Due facce complementari, come tante volte
accade. Da una parte l’Italia dei vetusti «Fiat Om 90», «AF Combi» o «APS Eurofire»
in servizio dai tempi lontani in cui il centravanti della nazionale era
Paolino Rossi, carrette di lamiera che dopo essere state lasciate «dieci
anni nei capannoni » (parole di un comunicato ufficiale del sindacato di
base Rdb-Cub) sono finite «fuori uso per problemi
di ribaltamento e rotture ai supporti del serbatoio dell’acqua» e
abbandonate lungo il percorso. Dall’altra l’Italia che nel giro di poche ore, in condizioni di assoluta emergenza, riesce a
portare a L’Aquila un camion di computer nuovi di zecca, subito allacciati da
una squadretta di sistemisti per allestire una centrale
operativa d’avanguardia. E non puoi arrabbiarti con la prima Italia
senza guardare con ammirazione quell’altra. Non
puoi sentirti orgoglioso di come sgobbano i
carabinieri e i poliziotti, le guardie di finanza e i forestali e tutti gli
altri senza ribollire d’insofferenza a guardare la mattina, tra le macerie di
Onna, la delusione dei volontari della Protezione
civile del Friuli, che sono venuti giù coi loro cani e le loro tende e
le loro attrezzature e stanno lì impotenti nelle loro divise nuove di
zecca che non riescono a sporcare: «Sono già le dieci, siamo qua da
ieri sera e nessuno ci ha ancora detto come possiamo renderci utili. Che modo
è?». È l’Italia. La «nostra» Italia. Piccoli egoismi e fantastica dedizione, efficienza
e sciatteria, ripiegamenti individualisti e straordinario altruismo di uomini
e donne accorsi da tutte le contrade a dare una
mano. Nonostante le paure per uno sciame sismico
che pare non finire mai. I cani, nel centro del capoluogo, sono nervosi. Sembrano sentirli prima,
loro, gli scrolloni della terra. Gli esperti dicono che è così
da sempre. Che secondo Diodoro Siculo, pochi
giorni prima che un sisma annientasse la città greca di Elice, nel
Peloponneso, nel Il gran Sasso, lassù in alto, domina severo.
L’impresario edile Bruno Canali, ai
margini di quella Onna in cui le ruspe scavano solchi
tra le montagne di macerie per ricostruire il tracciato delle vecchie
strade, mostra il suo villino: «Non c’è una crepa ». Spiega che l’ha
costruita seguendo «tutti i criteri antisismici». A pochi metri, le altre
case si sono sgretolate. Da lui non è caduto un soprammobile. Come fai
a non arrabbiarti, a guardare le fotografie della biblioteca della scuola
elementare crollata a Goriano Sicoli
o, peggio ancora, dell’ospedale (l’ospedale!) dell’Aquila? Sono anni che si
sa come si dovrebbe costruire, nelle aree a rischio. Non sono serviti a
niente la durissima lezione del terremoto ad Avezzano né gli avvertimenti
degli esperti che da decenni ricordano come le zone più esposte siano
quella a cavallo dello Stretto di Messina, la Sila in Calabria, il
Forlivese, la Garfagnana e la Marsica
né il disastro di qualche anno fa in cui morirono i piccoli di san Giuliano.
A niente. «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là
ventimila case di sei-sette piani», disse furente
Jean-Jacques Rousseau a proposito del catastrofico
terremoto di Lisbona del 1755. L’uomo non può sfidare impunemente la
natura: questo voleva dire. Non può contare, spensieratamente, solo sulla buona sorte. Eppure così è sempre
stato, da noi. E decine di migliaia di persone hanno continuato ad
ammucchiarsi disordinatamente intorno al Vesuvio nonostante siano passati
solo pochi decenni dall’ultima eruzione del 1944 quando la gente pazza di
paura prese a girare con la statua di San Gennaro perché fermasse la lava
già bloccata quarant’anni prima dal santo a un passo da Trecase. E migliaia di sindaci
e assessori e vigili urbani hanno chiuso gli occhi per anni sul modo in cui,
anche nelle zone più pericolose, venivano tirati su spesso con
cemento scadente e piloni gracili i condomini e le scuole e gli edifici
pubblici. Per non dire di chi aveva le responsabilità più
gravi. «Mai più», aveva giurato Silvio Berlusconi nel novembre del
2002, dopo la tragedia di san Giuliano di Puglia. Sono passati più di
sei anni, da allora. Ma, come accusava ieri mattina
Il Sole 24 ore, il varo delle nuove regole si è via via impantanato di ritocco in ritocco, di rinvio in
rinvio, di proroga in proroga. Colpa della destra, colpa della sinistra. Basti
ricordare che fu solo la Corte Costituzionale, tre anni fa, tra i lamenti e
gli strilli dei costruttori («Siamo molto preoccupati
per il rischio di paralisi nei cantieri, si potrebbe bloccare l’edilizia!») a
bloccare una legge troppo permissiva della Regione Toscana spiegando che
no, «in zona sismica, non si possono iniziare i lavori senza la preventiva
autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico». Ed è sbalorditivo, oggi, tornare indietro
soltanto di qualche giorno. E
trovare la conferma che mai, prima dell’apocalisse di lunedì notte,
erano state nominate parole come sisma o terremoti nella proposta edilizia
del governo alle Regioni del giugno scorso, mai nella prima bozza di un mese del «piano casa», mai nell’intesa del 31 marzo. Mai. Oggi
Claudio Scajola detta alle agenzie che il piano casa «dovrà essere
utile anche per le protezioni antisismiche» e il nuovo documento dato alle
Regioni, ritoccato l’altro ieri in tutta fretta, ha un «articolo 2» nuovo nuovo. Dove si spiega,
sotto il titolo «misure urgenti in materia antisismica» che «gli interventi
di ampliamento nonché di demolizione e ricostruzione di immobili e gli
interventi che comunque riguardino parti strutturali di edifici, non possono
essere assentiti né realizzati e per i medesimi non
può essere previsto né concesso alcun premio urbanistico sotto alcuna
forma ed in particolare come aumento di cubatura, ove non sia documentalmente provato il rispetto della vigente normativa
antisismica». Evviva. Ci sono voluti i lutti di Onna e la distruzione dell’Aquila e quelle file di bare allineate, però, per
cambiare il testo originale dato alle Regioni solo una
settimana fa. Dove l’articolo 6, precipitosamente soppresso dopo il
cataclisma abruzzese, era intitolato «Semplificazioni in materia
antisismica». Meglio tardi che mai. Purché fra una settimana, un mese, un
anno, non torni tutto come prima. C’è un Galiani
che forse Berlusconi non conosce. Si chiamava Ferdinando e non Adriano,
aveva una «elle» sola, vestiva l’abito da abate ed era un dotto economista.
Disse: «Molte volte le calamità distruggono le nazioni senza risorgimento, ma talvolta sono principio di risorgimento
e di riordinamento di esse. Tutto dipende da come si ristorano». Sarà il caso di ricordarlo. Gian Antonio Stella |