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Documento d’interesse   Inserito il 30-1-2009


 

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Il Corriere della Sera   30 gennaio 2009

 

Corte dei conti

E i controllori del governo finirono sotto controllo.

Per il ddl dell’esecutivo, solo 4 eletti nel «Csm» dei giudici contabili: persa la maggioranza.

Di Gian Antonio Stella

 

«Mi ricorderò di te alle prossime elezioni! » sibila il solito prepotente al bravo sceriffo in ogni film di cowboy. Così era il Far West. Anche nella legge italiana, però, sta per essere infilato un tarlo simile. Che rischia di divorare l’autonomia della Corte dei conti fino al punto che il governo (il controllato) si sceglierà di fatto il controllore, cioè chi deve esaminare come sono spesi i soldi pubblici. Il tarlo, come tutti gli insetti che si rispettino, non è facile da scovare. Proprio come il dirottamento ad «amici» di un mucchio di soldi per lavori stradali marchigiani venne infilato anni fa in un decreto sulle «arance invendute in Sicilia», anche questo tarlo è stato nascosto dove poteva passare inosservato.

 

Nel disegno di legge 847 noto come «Brunetta»: «Delega al governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico». L’ideale, nella scia della popolarità del ministro in guerra coi fannulloni, per collocare un boccone che, come tutti i bocconi avvelenati, è inodore e insapore. È l’articolo 9, dedicato al Consiglio di Presidenza della Corte dei conti. Il Csm, diciamo così, dei giudici contabili. Che costituzionalmente consente anche a questa magistratura, come a quella ordinaria e a quella amministrativa, di decidere da sé della propria vita, al riparo da interferenze politiche. Un principio ovvio e sacrosanto: chi comanda non può volta per volta scegliersi il controllore. Dice dunque quell’articolo, inserito da Carlo Vizzini (che come presidente della commissione Affari costituzionali del Senato ha di fatto agito per il governo), che quel Consiglio di Presidenza, composto oggi da 13 magistrati contabili (i vertici della Corte dei conti più dieci eletti dai circa 450 colleghi) più due esperti nominati dalla Camera e due dal Senato (totale: 17) non va più bene.

 

D’ora in avanti dovranno essere 11, con un taglio dei giudici eletti da 10 a 4 e le «new entry» del segretario generale della Corte e del capo di gabinetto, che in certi casi possono pure votare. Somma finale: i rappresentanti scelti dei colleghi precipiterebbero da 10 su 17 (larga maggioranza) a 4 su 13 (netta minoranza). Ma non basta. La perdita di potere del «Consiglio», sempre più esposto agli spifferi politici, sarebbe aggravata da una grandinata di poteri in più concessi al presidente. Come quello di stabilire l’«indirizzo politico-istituzionale ». Vale a dire: puntiamo di più su questi o quegli altri reati, concentriamoci di più su questi o quegli altri sprechi. Quindi meno su questo e quello. Peggio: il presidente «provvede» o «revoca» come gli pare «gli incarichi extraistituzionali, con o senza collocamento in posizione di fuori ruolo o aspettativa». Traduzione: diventa il padrone assoluto della distribuzione ai suoi sottoposti («tu sì, tu no») dei soldi extra e delle carriere parallele.

 

Cosa vuol dire? Moltissimo: il capo di gabinetto di un ministro cumula insieme lo stipendio nuovo (senza più il tetto di 289 mila euro inserito da Prodi e abolito da Berlusconi) con quello vecchio di magistrato «parcheggiato» altrove. E un solo «arbitrato» (quella specie di giustizia parallela, più veloce, su alcuni contratti pubblici) può regalare a un giudice guadagni di centinaia di migliaia di euro. Il che significa che il nuovo presidente, dicendo solo «tu sì, tu no», può cambiare letteralmente la vita dei suoi «dipendenti». Diventando il Dominus assoluto. Senza più il minimo controllo, scusate il bisticcio, dell’organo di autocontrollo, ormai esonerato. Poteri pieni. Totali. Un progetto pericoloso, attacca l’opposizione. Il controllo, denuncia Felice Casson, «verrebbe a essere asservito e subordinato ai governi centrali e locali ».

Il coordinamento dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, in una lettera mandata ieri a Napolitano, denuncia «un gravissimo vulnus ai quei fondamentali principi costituzionali che sono stati alla base della istituzione stessa degli organi di autogoverno». E l’Associazione nazionale dei magistrati contabili è arrivata a ipotizzare all’unanimità l’espulsione dello stesso presidente, Tullio Lazzaro. C’è chi dirà: allarmi esagerati. E giurerà che si tratta di «ritocchi» organizzativi che renderanno «efficiente» un organo che costa cinque volte più dello spagnolo Tribunal de cuentas. Che non limiteranno affatto le denunce sulla malagestione dei pubblici denari come gli sprechi della sanità in Sicilia, le troppe consulenze «conferite intuitu personae » (cioè a capriccio), i soldi buttati dalle regioni, dalle municipalizzate, dai comuni o perfino dalla Croce Rossa.

 

Sarà. Ma nel progetto c’è scritto proprio così: il presidente della Corte dei conti diventa «organo di governo dell’istituto» e il Consiglio di presidenza viene degradato a «organo di amministrazione del personale». Nero su bianco. E lo sapete quando è stato inserito, il «ritocco» che stravolgerebbe senza passaggi costituzionali l’autogoverno dei giudici contabili? Poco dopo che il procuratore generale aveva denunciato il surreale tentativo di introdurre nell’accordo sulla nuova Alitalia un codicillo che prevedeva «l’esonero preventivo e generalizzato» per i nuovi soci «da responsabilità astrattamente esteso fino a coprire eventuali comportamenti dolosi, con effetti retroattivi». Cioè l’assoluzione concordata prima ancora che fosse commesso l’eventuale peccato. Pensa un po’ che coincidenza...