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Il Corriere della
Sera 27-11-2007 LA FATICA DEL LAVORARE BENE Il
merito e il salario di Pietro Ichino Il presidente di Confindustria,
Montezemolo, ha rilanciato con forza, in questi
giorni, la parola d’ordine della meritocrazia; e il segretario della Cisl, Bonanni, gli ha risposto
positivamente: «Il nostro obiettivo è lavorare meglio e di più,
per produrre e guadagnare di più». Su questo tema,
invece, la Cgil resta abbottonata. Questa
sua riluttanza non risponde a ragioni tattiche contingenti: ha radici
profonde nella cultura della sinistra. E niente
affatto disprezzabili. A sinistra l’idea dominante è che la
produttività non sia un attributo del lavoratore, bensì
dell’organizzazione aziendale in cui egli è inserito. «Prendi un
ingegnere bravissimo e mettilo a spaccare le pietre: otterrai probabilmente
un lavoratore molto meno produttivo di uno
spaccapietre analfabeta». Se, poi, nessuno domanda pietre, entrambi stanno fermi e la produttività di entrambi è
zero. Nel dibattito di tutto lo scorso anno sui nullafacenti del settore
pubblico, questo è stato immancabilmente il concetto che veniva contrapposto all’idea di commisurare le
retribuzioni anche ai meriti individuali: «Il risultato penosamente basso di
molti uffici — si è detto da sinistra — ma anche il difetto di impegno di molti impiegati dipendono dal pessimo
livello di organizzazione e strumentazione ». C’è del vero in questo argomento;
ma a sinistra si cade spesso nell’errore di fermarsi qui. È l’errore
che il grande Jacovitti rappresentò con l’indimenticabile
vignetta dove una mucca dall’aria torpida e pigra diceva: «Sono una mucca per
colpa della società». La realtà è che la
produttività del lavoro dipende da entrambe le variabili: sia
dall’organizzazione, e talvolta da circostanze esterne incontrollabili, sia
dalla competenza e dall’impegno del singolo addetto. E
conta anche il suo impegno nel cercare l’azienda dove il proprio lavoro
può essere meglio valorizzato. Commisurare interamente la retribuzione al risultato
significa, certo, scaricare sul lavoratore tutto il rischio di un esito
negativo che può non dipendere da suo demerito. Ma
garantire una retribuzione del tutto stabile e indifferente al risultato
significa cadere nell’eccesso opposto: così viene meno l’incentivo
alla fatica del far bene il proprio lavoro e del muoversi alla ricerca del
lavoro più utile, per gli altri e per se stessi. Questa
stabilità e indifferenza della retribuzione è la regola oggi di
fatto imperante in tutto il settore pubblico, ma troppo largamente applicata
anche in quello privato, per effetto di contratti collettivi che lasciano uno
spazio del tutto insufficiente al premio legato al risultato. E questo è uno dei motivi —insieme, certo, a
tanti altri difetti strutturali e imprenditoriali — della bassa
produttività media del lavoro nel nostro Paese. Per uno stipendio
magari basso, che però matura qualsiasi cosa accada,
ci sono sempre i lavoratori che si impegnano a fondo, se non altro per
rispetto verso se stessi, e si ribellano alle situazioni di
improduttività; ma ce ne sono sempre anche altri che se la prendono
comoda, fino al limite del non far nulla. Un’iniezione di meritocrazia nei
contratti collettivi e individuali fa certamente bene anche a questi ultimi. 27 novembre 2007 |