Paradisi
fiscali.
Da Il
Corriere Economia (20-7-2009)
INDICE
- Le tasse sulle società
/2 La tesoreria di diversi gruppi italiani è in Lussemburgo. Il Paese
è uscito dalla lista di proscrizione compilata dall’Ocse. 1. La mappa delle
zone franche. 1. Dalle Cayman
al Delaware. Le piazze del fisco facile ormai sono sotto tiro. 1
- Le tasse sulle
società/1 Dopo il varo degli sgravi, l’attenzione si sposta sulle
attività estere. 1
La stretta sui paradisi
fiscali 1. La lunga
battaglia condotta contro le aree con facilitazioni d’imposta Barilla e
Armani, hanno già riportato a casa le controllate olandesi 1
- L’intervista Il vice
presidente di Confindustria: «Occupiamoci di come attrarre investimenti». 1
«Ma ora servono regole comuni
in tutta Europa». 1. Moltrasio:
«Giusto colpire chi evade. Per le imprese c’è un problema di
armonizzazione del carico tributario». 1
Le tasse sulle
società/1 Dopo il varo degli sgravi, l’attenzione si sposta sulle
attività estere
Passi avanti considerati anche
importanti sono stati fatti la scorsa settimana. Gli sgravi per le piccole
imprese, le detrazioni Ires sugli aumenti di capitale, gli investimenti
agevolati fiscalmente, la moratoria sui debiti, lo scudo fiscale.
Provvedimenti che hanno incassato la soddisfazione di Confindustria. Uno dei
capitoli più delicati della manovra di governo è rappresentato
dalla «stretta» sui paradisi fiscali. Confindustria, come spiega
nell’intervista pubblicata nella pagina accanto il vicepresidente Andrea
Moltrasio, considera sacrosanta la campagna intrapresa dall’esecutivo contro
l’evasione fiscale, anche se avverte che bisogna stare attenti a non
compromettere aziende che hanno necessità reali di avere
organizzazioni all’estero.
I rientri
L’equilibrio è difficile. Se si guarda quello che è accaduto
negli ultimi anni si vede come, in realtà, il fenomeno più
recente sia quello dei rimpatri: società italiane che hanno riportato
nel nostro Paese proprie controllanti o controllate collocate in altri Stati,
Olanda e Lussemburgo in primo luogo. Le operazioni si vedono soprattutto adesso
perché la loro strutturazione richiede tempo per essere messa in pratica. Si
sono mosse in questa direzione, per restare agli ultimi casi, gruppi come
Armani (ha fuso prima la società olandese e poi quella svizzera nella
spa italiana) e come Barilla (nei giorni scorsi Barilla Iniziative ha
incorporato l’olandese Relou, portando il 100% della società operativa
in capo alla stessa Barilla Iniziative). È probabile che anche un nome
come Prada finisca per accorciare la catena di controllo una volta che, quotata
la società operativa (articolo a pagina 7), avrà risolto i suoi
problemi di indebitamento a livello di controllante.
Le spinte al rientro hanno origini diverse. Le prime decisioni trovano la
loro motivazione nelle norme che nel 2003 hanno allineato l’Italia agli altri
Paesi sulla tassazione delle plusvalenze derivanti da cessioni operate dalle
holding. La vera svolta si è avuta però nel 2006, quando la
Bersani bis, governo Prodi, ha invertito «l’onere della prova»: le
società estere che fanno capo a soggetti italiani si presumono
italiane a meno che non sia dimostrato il contrario, e cioè che
abbiano una vera e propria struttura organizzativa locale. Un caso che ha
colpito, creando diverso timore, è stato quello di Dolce &
Gabbana, i due stilisti multati pesantemente dal fisco per avere conferito i
marchi a una holding lussemburghese di cui addebitavano le royalties alle
società produttrici italiane. L’anno scorso la lussemburghese dei due
stilisti è ritornata in Italia.
Le delocalizzazioni
Da qualche settimana i provvedimenti sui paradisi fiscali hanno rilanciato il
problema del rapporto tra tassazione e attività estera. Ma da un altro
punto di vista. Le norme contenute nel decreto legge varato il primo luglio,
il cosiddetto decreto anti-crisi, aprono scenari che preoccupano gran parte
degli imprenditori perché rischiano di minare - dicono - le strategie di
delocalizzazione produttiva. «L’evasione fiscale va combattuta duramente e la
lotta ai paradisi fiscali è una guerra che dobbiamo vincere - dice Santo
Versace, deputato del Pdl e azionista al 30% della casa di moda Versace - Ma
il decreto nella sua formulazione originaria può finire per colpire
imprese che hanno stabilimenti realmente produttivi all’estero. Pensiamo a
nomi come Bulgari, Zegna, Luxottica, Geox... Purtroppo in Italia ancora non
abbiamo capito cosa significa l’internazionalizzazione: le merci vanno
prodotte là dove ci sono le competenze giuste o dove è
necessario produrre per non perdere la sfida con i nostri competitor».
Due nodi
I punti che hanno creato oggetto di discussione sono quelli che si vedono nel
grafico, la previsione del mercato di riferimento e l’individuazione di
paradisi fiscali anche in Europa. Ma su questi punti la posizione del governo
non cambia. Gli emendamenti tesi a eliminare la norma del «mercato di sbocco»
- ha detto infatti il Tesoro - hanno ricevuto parere negativo ma il ministero
ha fatto presente che qualora si ravvisino i presupposti di
effettività sostanziale dell’attività esercitata «è
possibile interpretare estensivamente il concetto di mercato di sbocco,
stante il riferimento normativo al territorio (oltre che allo Stato) di
insediamento dell’impresa».
Anche sul tema dell’estensione all’Europa non sono previste modifiche in
quanto «la disposizione può essere disapplicata mediate interpello
finalizzato a dimostrare che l’insediamento all’estero non rappresenta una
costruzione artificiosa a conseguire un indebito vantaggio». Entrando in
vigore nuovi requisiti, le società che già hanno ottenuto
deroghe dovranno ripresentare richiesta all’amministrazione finanziaria.
«L’Italia ha già un sistema adeguato di lotta ai paradisi fiscali,
è tra i Paesi più rigorosi - dice Guglielmo Maisto, professore
di diritto tributario alla Cattolica di Piacenza, alla guida della Maisto e
Associati - Bisogna stare attenti a essere i primi a colpire anche
attività vere e sinergiche al resto del gruppo». «La norma cerca
sì di raccordarsi con la giurisprudenza comunitaria, che non
giustifica costruzioni artificiose con intenti abusivi - dice Stefania
Bairatti, esperta di diritto comunitario - ma, da un lato, dimentica che la
Corte di giustizia ha ammesso la concorrenza tra ordinamenti in numerosi
casi, non solo in materia societaria ma anche fiscale e, dall'altro lato,
impone un aggravio procedurale, l'interpello, che non è richiesto a
società residenti in Italia. Da qui la possibile discriminazione».
Le tasse sulle società /2 La tesoreria
di diversi gruppi italiani è in Lussemburgo. Il Paese è uscito dalla
lista di proscrizione compilata dall’Ocse
Dalle Cayman al Delaware. Le piazze del fisco
facile ormai sono sotto tiro
I l Delaware non è uno Stato
degli Stati Uniti? E nel Delaware non sono domiciliate decine di migliaia di
finanziarie a proprietà straniera attratte da una legislazione fiscale
particolarmente favorevole? Gibilterra, Jersey e Guernsey non sono
«dipendenze della Corona britannica» e contestualmente tra le mete preferite
di chi nasconde patrimoni? Le famigerate British Virgin Islands, non sono,
appunto, British? E Madeira non è territorio portoghese? Le Bahamas
insieme a Bermuda non sono una sorta di sponda finanziaria degli Usa,
tollerata e quasi protetta? Hong Kong e Singapore non sono un rifugio dei capitali
«comunisti» cinesi? A Cayman, prototipo dell’anonimato e simbolo delle
peggiori nefandezze della finanza criminale, non hanno società e
filiali i più blasonati gruppi bancari del mondo, italiani compresi? E
se hanno filiali lì è per fare raccolta con i pescatori
dell’isola? E sempre a Cayman non sono domiciliati quasi tutti i grandi hedge
fund, quelli che hanno come investitori Stati, fondazioni, fondi pensione,
enti, chiese eccetera? San Marino, pur nella sua autonomia di Repubblica
indipendente, non è un’anomalia finanziaria e bancaria nel cuore della
Romagna e dell’Italia? Perché Montecarlo è la residenza ideale di chi
ha un reddito da favola ma vive altrove (piloti, ciclisti, calciatori,
finanzieri, assicuratori)? Come mai in Lussemburgo ci sono più holding
che abitanti, gli italiani in giacca e cravatta sono migliaia (e non fanno
pizze) e chi parla russo ha il posto assicurato in banche e fiduciarie? E la
civilissima Svizzera con la sua «prolunga» Liechtenstein (i collaudati schemi
prevedono fondazione nel principato di Hans-Adam II e conto bancario in un
istituto rossocrociato), non sono icone del segreto bancario e della
riservatezza e proprio per questo naturale approdo dell’evasione fiscale, se
non peggio?
Sono, ovviamente, tutte domande retoriche. E altrettanto ovviamente
c’è una bella differenza tra chi offre poche o zero tasse (purché
attragga lavoro e produzione e non solo caselle postali di comodo) ma
rispetta e applica le regole sull’antiriciclaggio e sulla trasparenza e chi
invece vive e prospera sull’assenza di regole, di collaborazione
internazionale, offrendo di fatto copertura alla criminalità e agli
evasori.
Detto questo non si può non cogliere un’ipocrisia di fondo: alcune
delle cosiddette piazze off-shore sono parte integrante di un sistema
politico di riferimento che magari è lo stesso che tuona contro i
paradisi. Insomma, è come se il fisco «ufficiale» e intransigente
fosse la moglie e il paradiso fiscale l’amante, ufficiosa e tollerata.
Ma per non fare di tutta l’erba un fascio, per non confondere chi rispetta le
norme da chi invece cerca di dribblarle, un’idea potrebbe essere quella di
porre ufficialmente una domanda a chi, imprenditore, finanziere, ha
attività o patrimoni nei paradisi fiscali. Perché lei signor X che è
italiano (francese, spagnolo) ha la proprietà della sua azienda alle
Isole Vergini (Lussemburgo, San Marino, Cayman)?
Poi la risposta potrebbe diventare pubblica nel bilancio. E per cominciare si
potrebbe partire da chi si quota in Borsa o da chi al listino c’è
già.
Perché le autorità di vigilanza non chiedono conto delle strutture
proprietarie che transitano o approdano nei paradisi fiscali? E perché non
invitano i gruppi a spiegare il motivo per cui la tale controllata ha sede a
Bermuda o in Lussemburgo o a Madeira, in modo che la trasparenza tolga spazio
ai dubbi? Del resto la gran parte delle multinazionali quotate ha filiali in
vari paradisi fiscali. In Francia, per esempio, è stato stimato che le
principali imprese del Cac 40 possiedono quasi 1.500 filiali off-shore. In
Italia, secondo calcoli recenti, oltre il 50% delle aziende di Piazza Affari
e il 25% dei gruppi bancari possiedono una partecipata in un paradiso
fiscale.
Il Lussemburgo, il più gettonato (e ormai fuori dalle liste di
proscrizione dell’Ocse anche grazie all’opera del primo ministro Jean-Claude
Juncker), generalmente è sede della tesoreria dei gruppi o è
sponda per le emissioni obbligazionarie o è subholding di
partecipazioni estere. Mediaset Investment, controllata da Mediaset,
raccoglie infatti una serie di partecipazioni estere (ma non solo) del gruppo
(e Trefinance fa lo stesso per Fininvest). Storicamente il Granducato
Lussemburgo è un Paese ad alta densità di interessi italiani.
Colossi a controllo statale come Eni, Enel, Finmeccanica hanno molte
attività e partecipazioni sparse tra Lussemburgo (tutte), Jersey,
Mauritius (Finmeccanica), Bermuda, Bahamas, Singapore, Bermuda, Isole del
Canale (Eni), Panama, Cayman (Enel), ognuna sicuramente con la sua logica
industriale e commerciale, spesso poi sono un residuo di acquisizioni. Stesse
tracce di partecipazioni off-shore anche in molti grandi gruppi privati.
Perché proprio lì? Un risposta può essere utile a chi decide di
investire.
Se qualche anno fa fosse arrivata a Collecchio la seguente formale domanda:
«Caro Calisto ci dici che cos’è la Bonlat? Il bilancio indica la sede
a Cayman, perché? Ma (soprattutto) ci spieghi dove e come sono investiti i 4
miliardi di liquidità (falsa, ndr) che dichiara di avere?», forse il
crac della Parmalat dei ragionieri si sarebbe fermato qualche miliardo prima.
L’intervista Il vice presidente di
Confindustria: «Occupiamoci di come attrarre investimenti»
Moltrasio: «Giusto colpire chi evade. Per le
imprese c’è un problema di armonizzazione del carico tributario»
I paradisi anti-tasse: «Una vergogna.
Ma attenzione a non sparare nel mucchio: la vera questione è
un’armonizzazione almeno europea del carico fiscale». Lo scudo varato per
favorire il rientro dei capitali: «Ci sta, tanto più in un momento
così difficile per le entrate dello Stato. Ma attenzione a non
dimenticarci, magari aggirandolo, del problema di base: come attrarre
investimenti in questo Paese». Le agevolazioni sugli utili reimpiegati, la
cosiddetta Tremonti-ter: «L’abbiamo chiesta noi, ci è sempre sembrata
un provvedimento positivo. Ma attenzione a pensare che sia "la"
soluzione. Gli altri hanno iniziato prima dell’Italia, e con
interventi-stimolo. Il nostro è più, diciamo così, un
pacchetto-fiducia». Per il quale Andrea Moltrasio, da imprenditore prima
ancora che da vicepresidente di Confindustria (ha una delle deleghe
più «pesanti»: l’Europa), naturalmente ringrazia. Alle «condizioni
date», come definisce il quadro dei conti pubblici, l’insieme delle misure
firmate Giulio Tremonti e destinate all’universo-aziende incassa comunque una
promozione. Non però il dieci e lode: «Valutazione positiva sì,
entusiasta no». Mai contenti, ingegnere?
«Siamo perfettamente consapevoli di quali siano le difficoltà, i
problemi, le esigenze che il ministro dell’Economia deve far quadrare.
Però restiamo in una situazione straordinaria. Ora è anche il
governo, che pochi mesi fa con un suo esponente aveva definito "da
corvi" le stime di Confindustria, a parlare di un calo del 5,2% per il
Prodotto interno lordo 2009. Ed è vero che oggi qualche piccolo
segnale di ripresa si intravvede. Ma rimane il fatto che stiamo perdendo il
20-25% della nostra produzione industriale, e che alcuni settori hanno
toccato picchi anche più bassi. Per cui mettiamola così: tutto
quello che si sta facendo rientra nelle condizioni necessarie, ma non
sufficienti».
Nemmeno la Tremonti-ter? La detassazione degli utili reinvestiti non è
come la chiedevate?
«Ripeto: capiamo i problemi del governo e apprezziamo gli sforzi. C’è
un punto, però. Quello che servirebbe, oggi, sono interventi in grado
di far riprendere la domanda. Interventi che stimolino l’economia, come
stanno facendo altri Paesi. Anche la Tremonti-ter, invece, sembra puntare più
sulla fiducia che sullo stimolo: dura solo un anno, fino al 30 giugno 2010, e
gli effetti sui bilanci si vedranno solo dal prossimo esercizio».
Il presupposto è che per allora l’emergenza sia passata e la ripresa
avviata. O no?
«Ma non possiamo puntare tutto sulla fiducia. La ripresa va innescata o,
quando la domanda si riprenderà, noi non saremo in grado di
agganciarla. Ci sarà una ragione se gli Usa hanno varato un pacchetto
di stimoli all’economia del 5,6% sul Pil per il 2008-2010, se il Giappone è
al 4,7%, la Spagna al 3,9, la Germania al 3,2%».
L’Italia?
«Zero. Cui si arriva come media tra il -0,3% di misure fiscali e il +0,3% di
misure di spesa».
Dove bisognerebbe agire?
«Guardo ancora agli Usa. Nei provvedimenti di stimolo non hanno buttato
quattrini a casaccio, hanno privilegiato tre settori che avranno, poi, un
effetto-cascata: efficienza energetica, informatizzazione della
sanità, miglioramento della banda larga. Il tutto ha un costo, certo.
Ma risponde a una visione di lungo periodo».
Noi possiamo permettercelo?
«Dobbiamo: è adesso, in piena crisi, che ci si può
riposizionare per ripartire. Dopo sarà tardi».
Lei la Tremonti-ter come l’avrebbe voluta?
«Forse, per l’effetto-fiducia, sarebbe stato opportuno allargarla
maggiormente a più beni d’investimento e lasciar fuori i capannoni: ce
ne sono già troppi».
Scudo fiscale e stretta sui paradisi: approva?
«L’ho detto: i "paradisi" sono una vergogna e l’evasione, in Italia
o fuori, oltre che immorale è anche un fattore di concorrenza sleale.
Ma, ribadito questo, dobbiamo stare attenti. Ci sono aziende che hanno vere
necessità di vere organizzazioni all’estero. Poi: un conto sono le
Cayman, un conto la Gran Bretagna. E allora c’è, intanto, un problema
di armonizzazione del carico fiscale in Europa. Dopodiché bisognerebbe
chiedersi perché i capitali vanno all’estero o, specularmente, non vengono
qui».
Il vecchio nodo della competitività del Paese. Che non riguarda solo
il fisco.
«Esattamente. Ma tagliarlo, quel nodo, non è più rinviabile».
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