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Corriere della Sera 14-1-2008 IL MERCATO
DEL LAVORO Le scelte contro l'apartheid di Pietro Ichino Il regime di vero e proprio
apartheid che condanna tanti giovani bravissimi, soprattutto
ma non soltanto nelle amministrazioni pubbliche, a penare per molti
anni prima di riuscire a conquistare un posto stabile è l'altra faccia
del regime di inamovibilità di cui oggi beneficiano i lavoratori «di
ruolo ». Più questi sono inamovibili, più è difficile,
talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e
protetto per quelli che stanno ancora fuori della «cittadella». È
quello che gli economisti chiamano «mercato del lavoro duale». Di fronte al quale si può proporre l'abolizione di tutte
le forme di lavoro flessibile e low cost, in particolare le abusatissime
collaborazioni continuative autonome, per costringere le imprese a garantire
a tutti i nuovi assunti, con un modello unico di contratto di lavoro,
l'inamovibilità di cui oggi gode soltanto metà della
forza-lavoro italiana. È, sostanzialmente, la proposta della Cgil, condivisa dalla sinistra radicale. È il
ritorno al diritto degli Anni 70 auspicato dal sociologo del lavoro Luciano Gallino nel suo ultimo libro «contro la
flessibilità ». Ed è un po' quanto il
governo sta tentando di fare nel settore pubblico con le norme della
Finanziaria che prevedono la stabilizzazione dei precari attuali e danno un
giro di vite contro nuovi contratti a termine e collaborazioni «atipiche» in
questo settore. Ma quando pure fossero resi
inamovibili tutti gli attuali precari e si potesse assumere solo personale di
fatto inamovibile, che cosa ne sarebbe delle future leve di giovani? Ci siamo
dimenticati che nella seconda metà degli Anni 70, quando c'era solo l'alternativa secca tra il lavoro ultraprotetto e la
disoccupazione o il lavoro nero, furono proprio Cgil,
Cisl e Uil, per bocca dei
Trentin, dei Crea e dei Benvenuto, a chiedere
l'istituzione del contratto di formazione e lavoro (cioè di un
contratto che oggi verrebbe qualificato come «precario») per facilitare
l'accesso al lavoro regolare dei giovani? Nel settore privato, invece, il ministro
del lavoro Damiano e il presidente della Commissione Lavoro
della Camera Tiziano Treu dichiarano di voler
seguire una linea d'azione diametralmente opposta. Su flessibilità e
precarietà «non servono altre leggi», ha sostenuto Treu
sul Corriere del 2 gennaio: occorre soltanto «modulare meglio le tutele dei
vari tipi di lavoro... Per il resto propongo una
moratoria legislativa ». In altre parole: non si cambia una virgola del
vecchio diritto del lavoro, salvo estendere qualche brandello di tutela ai
cosiddetti «lavoratori atipici ». È l'idea, risalente alla fine degli
Anni 90, dello «Statuto dei lavori»; ed è la stessa, a ben vedere, cui
si rifà anche il programma del Popolo della Libertà, esposto
dall'ex sottosegretario al lavoro Maurizio Sacconi sul Corriere del 31
dicembre. Se nell'assise
di febbraio sulla politica del lavoro il Pd
farà propria questa linea, ciò significherà di fatto -
al di là degli slogan - che il nuovo partito di Veltroni
rinuncia a combattere il dualismo feroce del nostro mercato del lavoro: esso
si batterà soltanto per spostare qualche precario tra i protetti e per
dare qualche modesto contentino ai molti condannati a restar fuori. Se si
vuole davvero combattere efficacemente l'apartheid, e al tempo stesso non si vuole
che il mercato del lavoro torni a essere
inaccessibile alle nuove leve come era divenuto alla fine degli anni '70, la
strada è una sola. Occorre, sì, un tipo unico di contratto per
tutti i lavoratori dipendenti; ma disciplinato in modo che siano garantite la
necessaria fluidità nella fase di accesso al
lavoro dei giovani e una ragionevole flessibilità nella fase centrale
della vita lavorativa, secondo i migliori standard internazionali; e che
tutti ne portino il peso in ugual misura. La riforma potrebbe, per esempio,
consistere in questo: per tutte le nuove assunzioni che avverranno d'ora in
poi si sostituisce l'attuale «giungla dei contratti» con un solo contratto a tempo indeterminato, che prevede un periodo di
prova di sei mesi oppure otto, come ora in Francia - con un forte sgravio
contributivo sotto i 26 anni. Dopo il periodo di prova, l'articolo 18 dello
Statuto si applica soltanto per il controllo dei licenziamenti disciplinari e
contro quelli discriminatori o di rappresaglia. Per i licenziamenti dettati da
esigenze aziendali è invece soltanto il costo del provvedimento a
proteggere il lavoratore e a penalizzare l'impresa che ne faccia
abuso: chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente
diritto a un congruo indennizzo, crescente con l'anzianità di servizio
in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della
vita lavorativa; e ha diritto a un'assicurazione contro la disoccupazione
disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a
carico dell'impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti.
Certo, una scelta di questo genere comporta il
problema di infrangere quello che un altro sociologo del lavoro molto vicino
alla Cgil, Aris Accornero,
ha chiamato «l'ultimo tabù»: l'articolo 18, nella cui difesa a
oltranza la sinistra è parsa negli anni passati volersi bruciare i
ponti alle spalle. Ed è facilmente prevedibile il fuoco di sbarramento
che tornerà a essere scatenato. Ma il Pd, se deciderà di
imboccare questa strada, potrà avvalersi di un argomento fortissimo:
gli basterà ricordare la disperante inconcludenza di tutto quanto la
sinistra è andata proponendo e praticando da dieci anni in qua nella
sua lotta contro il lavoro precario. Se si rifiuta la strategia della
progressiva redistribuzione delle tutele, ci si
condanna all'alternativa che ha paralizzato la
politica del lavoro della sinistra in questo ultimo decennio: o il ritorno
indietro al diritto del lavoro degli anni '70, che significa condannare le
nuove leve a una difficoltà enorme per entrare nel tessuto produttivo
regolare; oppure i pannicelli caldi dello «Statuto dei lavori», cioè la rinuncia a combattere il dualismo del
mercato. La realtà è che la scelta più incisiva ed
efficace rispetto all'obiettivo, quindi più «di sinistra», è
proprio quella che passa per la riforma dell'articolo 18. 14 gennaio 2008 |