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IRROGANTO
di Mauro
Novelli Documenti d’interesse Inserito il 10-12-2006
Tassa al 20%, salvi i vecchi capital gain
Mettete più
informatica nelle Pmi
L’analisi Sui mercati
il dividendo di Bankitalia
Trasparenza, miraggio
bancario
C on la nuova Finanziaria
la tassazione su azioni, fondi e titoli di Stato verrà
innalzata. Il mio patrimonio è investito in fondi monetari ed
obbligazionari. Che effetto avrà la variazione dell’aliquota sul valore
delle quote? Può essere conveniente vendere qualche
giorno prima dell’aumento della tassazione e ricomprare gli stessi fondi
dopo l’aumento in modo da portare a casa i guadagni realizzati? U na strategia simile potrebbe, al limite, avere senso con le
azioni, anche se la riforma dovrebbe prevedere un
paracadute per le vecchie plusvalenze. In passato è stato così,
ma non si sa mai con questo Fisco che della retroattività sembra aver
fatto una sua bandiera. E’ lecito, però, aspettarsi, che la nuova
aliquota del 20% si applichi solo ed esclusivamente ai
capital gain futuri, cioè a quelli realizzati (o maturati) dal giorno di
entrata in vigore della riforma in poi. Le plusvalenze già conseguite
resteranno assoggettate alla vecchia aliquota del 12,5%. Vendere o non vendere
i titoli con forti guadagni dovrebbe essere fiscalmente irrilevante. Si possono
cedere per essere sicuri di pagare il 12,5% ed evitare
possibili scherzetti del Fisco. Comunque, non c’è fretta, perché l’aumento
dell’aliquota dovrebbe partire da luglio 2007.
Per i fondi comuni una simile operazione non ha alcun senso. Questo perché,
attualmente, il singolo investitore non viene tassato
personalmente. Ad essere tassato è il patrimonio del fondo. Il criterio
impositivo è, infatti, quello della tassazione del maturato e non del
realizzato. Il sottoscrittore che chiede il rimborso delle quote del fondo, a
un valore superiore a quello di acquisto, a differenza di quanto avviene con le
azioni, non paga direttamente il 12,5%. L’imposta è stata calcolata, e
versata annualmente, dalla società di gestione in base alla variazione
del patrimonio tra inizio e fine anno. Il valore delle quote pubblicato sui
giornali già tiene conto di questa trattenuta tributaria.
Più volte Assogestioni, l’associazione che
raggruppa le sgr, ha chiesto al Fisco di equiparare
la tassazione dei fondi italiani a quella dei fondi
esteri. Chi li possiede, infatti, paga il 12,5% all’atto del rimborso sulla
differenza tra prezzo finale e valore iniziale. In pratica i fondi esteri sono
tassati come le azioni.
Finora il Fisco non si è mosso. Anzi, è molto probabile che la
tassazione del maturato, in vigore solo per i fondi, venga
estesa anche a chi compra azioni e Btp.
Marco Ferrari - via email
Mettete più informatica nelle Pmi
È la ricetta per un vero rilancio dopo i primi timidi segnali di ripresa
dell’economia
I l
Censis, nel suo rapporto di quest'anno, coglie
già segnali di ripresa, più dovuta alle esportazioni che alla
domanda interna. Poiché all'estero l'economia si è già mossa,
sarebbe preoccupante che noi non saltassimo sul treno in corsa. D'altra parte
il Censis è maestro nel cogliere i segnali
deboli e quindi per il momento non c'è da farsi troppe illusioni, anche
se si ha la sensazione che il clima sia cambiato. A Milano ad esempio sembra
arrivata una nuova stagione: la Scala riapre in grande stile e ripartono le
metropolitane. Ma adesso si tratta di trasformare un segnale debole in qualcosa
di più solido e allora si affacciano varie ricette, che invariabilmente
partono dalle Pmi, considerate la croce e delizia
dell'economia italiana. Un esempio rilevante di ricetta viene da Key4Biz, il
portale dell'Ict italiano, che ha riunito i migliori
cervelli dell'informatica italiana per redigere un «dossier» denominato «Italia Digitale 2010». Punto di partenza la situazione
italiana nel quadro europeo, fornita nei giorni scorsi dall'update
di Eito, l'Osservatorio europeo dell'informatica, che
annuncia una crescita del 3.8% nel 2006, contro un modesto 1.7% italiano.
L'indice è puntato sulle Pmi, che non
investono in informatica, come risulta da varie analisi. Il team di Key4Biz
propone l'istituzione di una cabina di regia che cerchi di sintonizzare le
varie azioni innovative, la cui guida sia affidata a un Ministero o a
un'Agenzia dotata di strumenti e mezzi finanziari adeguati.
Per la verità la proposta non è nuova: non doveva servire a
questo l'istituzione, da parte del precedente governo, di un Ministero
dell'Innovazione affidato a Lucio Stanca? Tre anni fa Anie
e Anfov avevano chiesto a Stanca una decisa
accelerazione degli investimenti della pubblica amministrazione, che al
contrario ha frenato per la cronica mancanza di
risorse. Pensiamo che il nuovo governo avrà più mezzi, quindi
più ascolto del precedente?
Si ha la sensazione che i nodi dello sviluppo italiano stiano più a
monte degli strumenti di politica industriale: è il Pil
che non cresce, è il debito pubblico che lo frena, è la
competitività che ristagna avendo sulla groppa tutte
le inefficienze del sistema-Italia. Guardiamo alle ricette proposte dagli
imprenditori lombardi agli Stati generali di Confindustria Lombardia lo scorso
27 novembre: pongono una questione settentrionale, fatta di infrastrutture
carenti (
A ncora
una volta l'esempio viene dalla Banca d'Italia. Mentre per risanare i conti
pubblici la Finanziaria sceglie di privilegiare la strada delle entrate e non
il taglio delle spese correnti, la Banca centrale indica la direzione corretta.
Quella di privilegiare la ricerca dell'efficienza e dell'incremento di
produttività. La missione dell'istituto con l'avvento dell'euro è
profondamente cambiata, ma non è certo qui che vanno ricercati i
fannulloni che, ahimè, non mancano nel pubblico impiego. Pur tuttavia la
Banca ha annunciato un piano di ristrutturazione che porterà nell'arco
di alcuni anni alla chiusura di oltre settanta filiali rispetto all'attuale
centinaio, seguendo il solco delle altre banche centrali. Si potrà
obiettare che, rispetto agli attuali 8.000 dipendenti, la Bundesbank
e la Banque de France ne
hanno ancora 13.000. È però vero che queste ultime partivano da
numeri ben superiori e che solo negli ultimi dodici mesi hanno ridotto il
numero di dipendenti del 15% e dell'8%. Se poi confrontiamo il
numero dipendenti della Banca di Spagna, 2.700 persone, vediamo che
spazio per recuperi di efficienza ve n'è senz'altro.
Ma tra le differenze da considerare rispetto agli altri Istituti centrali non
ultima vi è la destinazione dei maggiori utili che deriveranno dal
piano. Normalmente i dividendi vengono incassati dal
Tesoro e quindi destinabili a incrementare, per esempio, le risorse disponibili
per gli ammortizzatori sociali. In Italia, almeno teoricamente, andrebbero
invece alle attuali banche azioniste.
Ma la maggiore redditività non dovrà andare a beneficio degli
azionisti «figurativi» bensì dello Stato. E qui ritorna il problema
della proprietà della banca. Questo teorico conflitto d'interesse viene reso dalla fusione di Intesa con San Paolo per certi
versi eclatante: il gruppo controlla ormai infatti il 44% dell'istituto di
emissione e con il solo alleato Generali supera il 50%. Sembra ormai
indifferibile il tempo di sciogliere definitivamente questo nodo. Anche perché
il piano Saccomanni può probabilmente
agevolarlo. Come? Con il piano si libereranno immobili generalmente di
grandissimo pregio ubicati in zone centrali delle città capoluogo. E dal
patrimonio immobiliare potrebbero derivare mezzi per liquidare le banche
azioniste (scorporo, dividendo straordinario?) senza incidere sul debito
pubblico. Per quanto riguarda poi le risorse professionali che si libereranno
bisogna saper cogliere la sfida: si tratta di persone che, per competenze
accumulate e per «cultura aziendale», sarebbero assai preziose per migliorare
qualitativamente la classe dirigente e i gradi intermedi, specie a livello
locale.
Certo sarebbe opportuno non disperdere le competenze accumulate. Ma questo non
può avvenire attribuendo alla banca compiti impropri: sarebbe invece
opportuno utilizzare le loro grandi qualità anche in nuovi ambiti, sia
nel privato che nelle amministrazioni centrali e locali che di questi profili
ha un gran bisogno. Insomma un problema che può diventare
un'opportunità. Del resto del rinnovato slancio dato alla banca centrale
dai suoi nuovi leader si sono già accorti i mercati, ad esempio
premiando anche per questo i titoli quotati delle banche che essa supervisiona
e ha reso più contendibili. Non è un caso: per il mercato
finanziario la reputazione è tutto.
(Università Bocconi)
CARLO MARIA PINARDI
Trasparenza,
miraggio bancario
Concorrenza difficile Fino
a 550 euro per spostare azioni e obbligazioni «fisiche» Si paga ancora il
trasferimento dei titoli su carta. E i fondi online non costano zero
L a signorina dell’agenzia
di Milano fa la quarta telefonata. «Direzione? Una circolare interna del 10
agosto, sì... Ma dov’è scritto che il
giro titoli non si paga? Ho qui un cliente che mi chiede un documento
ufficiale, dove lo trovo?». Da nessuna parte. Il Sanpaolo Imi ha abolito le commissioni di
trasferimento titoli, in coerenza con la linea pro-concorrenza del decreto
Bersani, del governatore Mario Draghi e dell’Antitrust. Ma sui fogli
informativi dei conti correnti non c’è scritto. Neanche una riga che
dica: «esente». La spiegazione ufficiale è che, semplicemente, la riga
che dava questi costi (25,82 euro per i titoli italiani, 51,65 esteri) è
stata tolta. In effetti, rivela il confronto dei fogli prima
e dopo agosto, è così. E l’istituto ribadisce: «Non facciamo
pagare». Ma se non è scritto da nessuna parte, si può pensare che
non sia vero. Un difetto di comunicazione, insomma. Che ha portato un lettore
di Roma a scriverci: «Non è vero che il Sanpaolo
ha abolito queste spese».
A scorrere i fogli informativi di Contutto, il nuovo
conto dell’istituto fuso con Intesa, si scopre però che i costi per il
trasferimento ad altra banca di azioni e obbligazioni non sono del tutto cancellati. Rimangono in vigore per i «titoli
fisici»: su carta. La spesa è, per ogni codice-titolo, il 3 per mille
del controvalore: minimo 51,65 euro, massimo 258,23. Ma le altre banche che
hanno cancellato i costi di trasferimento titoli, cioè Unicredit, Mps, Bnl e Banca Sella, hanno eliminato anche quelli sui
cartacei. Il Sanpaolo Imi no. Insomma una
«portabilità» a metà.
I titoli cartacei, dice il Monte Titoli, sono
pochissimi ormai: «Nel 2005, 350 specie, ognuno dei quali con 50 fogli».
Insomma, circa 17.500 titoli, un’inezia: precedenti la dematerializzazione del
’99. Ma proprio perciò non si capisce perché molte banche facciano
ancora pagare questa commissione. Dall’analisi dei costi di nove istituti di credito (vedi tabella), emerge che solo i quattro citati l’hanno
abolita. La esigono ancora invece, oltre al Sanpaolo,
Intesa (10 euro per i titoli fisici italiani e 15 per gli stranieri), Banca di
Roma (da
A proposito di Banca Intesa, un altro lettore di Corsico,
è indignato perché la sua filiale gli ha chiesto 45 euro per spostare un
bond Fiat su altro conto. L’istituto risponde che «i 45 euro erano il costo
massimo, non quello da applicare a questo cliente. Ha chiesto un’informazione
di fretta: se si fosse fermato, avrebbe scoperto che le spese sono inferiori».
Quello sui costi di trasferimento titoli non è però l’unico caso
di trasparenza a metà. C’è anche quello dei fondi online: in
particolare, le spese da sostenere per sottoscriverli. Nell’articolo di
settimana scorsa (pagina 27) si diceva, su indicazione della società con
informazioni controllate dal sito pubblico, che chi acquista fondi online con Iw Bank (Bpu) non paga spese di
sottoscrizione. E’ vero che acquistare fondi con i broker online non costa
niente, ma bisogna sobbarcarsi gli «oneri di banca corrispondente» previsto dal
regolamento dei fondi. È la remunerazione dovuta dalle società di
gestione alle «banche corrispondenti» (sei in Italia), che hanno in deposito i
fondi e si occupano della loro gestione amministrativa: per esempio, smistano
gli ordini. Questo costo è definito dalla banca corrispondente con
ognuna delle sgr: varia, quindi. Non va in tasca
all’istituto che vende i fondi, è vero, ma c’è. Basterebbe
segnalarlo. Chi acquista o vende fondi JP Morgan con Iw Bank, per esempio, paga lo 0,15% (da
Anche Fundstore, che dichiara «costi di
sottoscrizione zero», ce l’ha, e anche Online sim.
L’unica che dichiara questa spesa come compresa nei costi di sottoscrizione (9
euro/9 dollari) è però Fineco.
ALESSANDRA PUATO