La Stampa del 18-12-2007
"Il Vietnam non è mai
finito"
Di Maurizio Molinari
Guerriglieri anticomunisti assoldati dagli Usa combattono ancora in Laos. Da 40 anni
Per quattordici anni hanno combattuto nella giungla
del Laos una guerra segreta agli ordini della Cia
contro i vietcong comunisti ma
dopo la sconfitta l’America li ha abbandonati e da allora vivono da profughi
sulle montagne, braccati dai militari di Vientiane.
E’ questa la storia di centinaia di Hmong, gli
indigeni che vennero reclutati dalla Cia nel 1961 per compiere incursioni in Laos contro il
sentiero di Ho Chi Minh che collegava il Vietnam
del Nord ai vietcong che operavano nel Vietnam del
Sud.
L’intelligence americana li pagava, addestrava, riforniva e li guidava in
operazioni notturne contro i vietcong delle quali
il Congresso di Washington non seppe mai nulla perché ufficialmente in Laos
non vi erano militari americani e dunque tutte le operazioni erano «coperte».
Per «Mr Tony», come gli Hmong
chiamavano allora Tony Poe, capo delle operazioni Cia
nell’area morto nel 2003, la tribù indigena
laotiana era la carta che serviva per mettere sotto pressione le retrovie dei
vietcong: se il sentiero Ho Chi Minh
evadeva i controlli americani attraversando il Laos, erano gli Hmong a provvedere grazie a blitz notturni messi a segno
da posti di osservazione scelti dalla Cia.
Tutto finì nel 1975, quando la caduta di Saigon pose fine alla
presenza militare Usa in Indocina e la Cia abbandonò in fretta anche il Laos, dove la
rivolta di Pathet Lao portò al rovesciamento
del generale filo-occidentale Vang Pao. Con il mondo che gli crollava addosso, molti Hmong fuggirono verso i Paesi dell’Occidente che considerevano amici e oggi oltre 270 mila di loro vivono negli Stati Uniti e altri 15 mila in Francia. Altri
80 mila superarono invece il confine con la vicina Thailandia,
che ancora li tiene in miserabili campi profughi. Ma
il grosso della popolazione, quasi mezzo milione di anime,
restò in Laos e fra questi anche centinaia di ex combattenti della Cia che ancora si considerano «soldati americani».
Fra i pochi occidentali che sono riusciti a
incontrarli c’è il repoter Thomas Fuller, del «New York Times», che dopo una
lunga marcia sui monti è arrivato in un villaggio, accolto dalle grida
di chi chiedeva di «essere portato in salvo in America». Questi «soldati
americani» hanno tutti superato la soglia dei 50 anni, ricordano a memoria i
nomi in codice di siti e agenti Usa, indossano
divise laotiane abbandonate da soldati dopo alcuni scontri del 1999, sono
armati di kalashnikov e spostano il campo ogni
settimana nel timore di essere trovati dai militari di Vientiane
che gli danno la caccia considerandoli «spie».
Le sparatorie sono frequenti e ad essere uccisi sono soprattutto i
famigliari: donne, anziani e bambini che hanno più difficoltà a
muoversi lungo i sentieri della giungla sui monti che si affacciano sul fiume
Mekong. A occuparsi di
loro è Amnesty International,
che accusa il governo del Laos di violenze contro i civili, mentre secondo il
Dipartimento di Stato la strategia di Vientiane
è di «affamare gli ultimi combattenti Hmong».
Per il ministero degli Esteri del Laos invece il problema non esiste: con il
Paese teatro di un boom di turisti occidentali che portano quantità
crescenti di valuta pregiata ciò che prevale è l’intenzione di
degradare il caso dei Hmong alla categoria di «banditi
delle foreste». La Cia non si sente responsabile
più di tanto perché, come ha dichiarato al «New
York Times» l’ex agente Colin
Thompson, che servì in Laos dal 1963 al
1966, «furono loro a decidere di difendersi dai comunisti, noi gli facemmo
avere solo gli strumenti per farlo». E il generale Vang Pao è stato
arrestato nel giugno scorso in California perché accusato di «complottare
contro il governo comunista del Laos», proprio come la Cia
lo aveva addestrato a fare quarant’anni fa.
Le tribù Hmong seguono le contraddizioni
della storia americana attraverso le trasmissioni radio, sperano che Vang Pao venga
miracolosamente assolto e non si capacitano ancora della visita fatta dal
presidente George W. Bush in un Vietnam che considerano ancora nemico mortale,
ma nonostante tutto continuano a vedere negli Stati Uniti la loro unica
possibile fonte di salvezza.
Sognano di ricevere aiuti e visti per poter emigrare negli Stati Uniti, dove
tutti hanno qualche parente, mentre non ne vogliono sentire di finire nei
campi rifugiati della Thailandia. «Se l’America non
ci vuole allora sarebbe bene che gettasse su di noi una grande
bomba per ucciderci tutti», ha detto un combattente Hmong
al reporter del «New York Times»
confermando che il bivio per il suo popolo delle montagne resta quello di quarant’anni fa: o l’America o la morte.
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