18/2/2007 (8:46) - INTERVISTA
Noam Chomsky, l'intellettuale più scomodo della sinistra Usa
accusa: questi politici sono di plastica
MAURIZIO MOLINARI
NEW YORK
Barack Obama assomiglia ad uno spot pubblicitario, Hillary Clinton non va
incontro a ciò che gli americani chiedono sull’Iraq, John Edwards
propone una riforma sanitaria in tempi troppo lunghi ed i repubblicani
seguono George W. Bush nel promuovere politiche contrarie all’orientamento
della maggioranza degli elettori. È severo il giudizio di Noam Chomsky
sull’inizio della campagna elettorale per la Casa Bianca 2008. Il linguista
del Massachusetts Institute of Technology, voce provocatoria della sinistra
liberal dai tempi della guerra del Vietnam ed autore del libro «Hegemony or
Survival» innalzato dal presidente Hugo Chavez sul podio dell’Onu, affida
alle pagine de «La Stampa» uno sfogo contro l’arte della politica
nell’America del XXI secolo, esprimendo la speranza che «una volta ancora il
popolo si batterà con successo, rendendo più democratica questa
nazione».
Quali sono i valori in palio nella corsa alla Casa Bianca?
«Sarebbe bello rispondere a questa domanda se il mondo fosse diverso. Nel
nostro mondo le elezioni evadono gli argomenti cruciali, importanti».
Faccia un esempio...
«Nel 2004 la maggioranza degli elettori non conosceva la posizione dei
candidati su questioni-chiave. Non perché si tratta di elettori disattenti ma
in quanto il sistema elettorale emargina gli argomenti».
Questo vale anche per la campagna appena iniziata?
«Se leggiamo cosa dicono e scrivono i consulenti elettorali dei candidati in
campo è evidente che fanno i pubblicitari: tentano di vendere un
prodotto. Il prodotto è il presidente. E lo vendono come fa la
pubblicità, proprio come avviene per altri prodotti tipo le auto:
niente informazioni ma immagini ed illusioni per indurti ad acquistare. Fra
l’altro è l’opposto di quello che dovrebbe essere un mercato:
consumatori informati che compiono scelte razionali nei loro interessi. Chi
fa campagna elettorale vuole invece che gli elettori siano non-informati e
facciano scelte irrazionali sulla base di illusioni. È drammaticamente
vero negli Stati Uniti ma anche in altre democrazie industriali, a cominciare
dall’Europa. La dimostrazione più evidente di quanto dico è il
fenomeno Barack Obama».
Anche il giovane senatore afroamericano dell’Illinois è prodotto
pubblicitario?
«In maniera esemplare. Attorno a lui c’è grande emozione, viene
descritto come un grande candidato, una grande speranza. E lui cosa dice?
"Dobbiamo avere speranza", "Superiamo il cinismo",
"Trasformiamo l’America", "Svegliamo l’America" e
così via. Sembra Reagan. Tentare di capire cosa vuole fare è
davvero difficile. Ho ascoltato 20 minuti di programma su Obama alla Radio
Npr, una emittente liberal ed intellettuale, e non ha detto nulla in merito
ai programmi».
Che cosa manca ai candidati?
«Tutti dicono di avere fede ed amare i bambini ma non spiegano con quali
provvedimenti vogliono realizzare ciò che la gente chiede con
chiarezza quando risponde alle domande dei sondaggi: riforma della
sanità pubblica, ritiro dall’Iraq, diritti dei lavoratori,
integrazione economica».
In realtà John Edwards ha esposto un programma molto concreto per
battere la povertà, spendendo 15 miliardi di dollari l’anno. Non le
pare?
«Edwards è l’unico candidato che finora ha espresso dei contenuti.
Non solo sulla lotta alla povertà ma soprattutto sull’assistenza
sanitaria. Abbiamo la sanità più carente del mondo
industrializzato ed è la causa di un tasso di mortalità
infantile ai livelli della Malaysia».
Anche Hillary Clinton batte su questo tasto...
«L’unico è Edwards ma è interessante il fatto che la sua
proposta non vada nella direzione chiesta dalla maggioranza dei cittadini,
ovvero l’assistenza sanitaria universale, perché vuole semplicemente
estendere l’attuale sistema di benefici. Edwards vuole arrivare nel lungo
termine a quanto la gente chiede di avere subito. È un ulteriore
dimostrazione di come la democrazia in America non funzioni. Nessuno propone
ciò che la gente vuole. Clinton? Quando dieci anni fa propose la
riforma si trattava di un sistema che salvava le assicurazioni private
rimanendo dunque inefficiente».
Con l’afroamericano Obama, la donna Hillary e il mormone Romney queste
elezioni si presentano come il volto di un’America dalle molte
identità. Quale sarà l’impatto? «Scarso, perché sono
candidati con identità diverse ma che condividono un approccio simile
ai programmi. Prendiamo un altro tema centrale per gli americani, quello
più importante nella politica estera: il ritiro dall’Iraq. Nessuno dei
candidati in campo dice che vuole ritirare tutte le truppe. Se Bush ed i
repubblicani vanno nella direzione opposta agli americani sostenendo l’invio
di rinforzi, l’alternativa Baker-Hamilton è molto debole su cosa fare,
Barack Obama è assai vago sul ritiro e gli altri democratici latitano.
Prendiamo un altro tema, l’Iran: due terzi degli americani vogliono una
soluzione solo diplomatica. Chi fra i candidati lo sostiene? Nel marzo 2004
Zapatero fu eletto in Spagna chiedendo di porre le truppe spagnole sotto
comando Onu ma anche in America lo pensava la maggioranza degli americani
solo che nessun leader lo sostenne». Perché a suo avviso i leader politici,
repubblicani o democratici, non prestano attenzione alle richieste degli
elettori? «Perché entrambi i partiti sono situati molto a destra
dell’opinione pubblica. La classe politica è impossibilitata ad
affrontare le richieste della base perché non le condivide. Vuole un altro
esempio? Ricerche di opinione condotte in maniera scientifica, molto
accurata, attestano che la maggioranza degli americani ritiene che il governo
dovrebbe rinunciare al diritto di veto all’Onu, accettare il Tribunale penale
internazionale e seguire gli orientamenti politici della maggioranza
dell’Assemblea Generale. Quale leader politico lo sostiene? E ancora: due
terzi degli americani da 30 anni sono a favore della ripresa dei rapporti
diplomatici con Cuba ma è un’ipotesi della quale neanche si osa
discutere».
Insomma, la democrazia in America non funziona...
«È disegnata per non funzionare. Consente ai politici di governare
grazie ai loro elettorati e agli opinon-makers di guidare il dibattito, al
fine di conservare i capitali privati».
Quale la via d’uscita?
«La democrazia può migliorare se riuscirà a ripristinare
l’efficacia delle elezioni, degenerate fino a diventare campagne pubblicitarie.
Le battaglie per i diritti delle donne, delle minoranze, dei sindacati, della
libertà di parola sono riuscite in passato a migliorare l’America ma
al prezzo di grandi battaglie e sacrifici. La classe politica odia la
democrazia, in America come in Europa, vuole solo governare e lo strumento
per farlo è la definizione dell’interesse nazionale».
Insomma non si aspetta molto dal voto del 2008...
«È presto per dirlo. Sono ottimista sulla possibilità che la
gente impegnandosi possa riuscire a trasformare l’America in una democrazia
più solida, disinnescando il sistema di autoconservazione delle
elites».
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