HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli Documento d’interesse Inserito
il 4-9-2007 |
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La Repubblica 4-9-2007 La Battaglia Finale si combatte in America Vittorio Zucconi WASHINGTON La ben coreografata apparizione di George Bush in
Iraq, e la sua promessa di ritirare truppe nel prossimo (ma sempre
indefinito) futuro, sono il segnale che la battaglia finale per l'Iraq
è cominciata e che non si combatte a Bagdad, ma nel luogo dove si sa
dal primo giorno che sarebbe stata vinta o perduta, cioè a Washington.
L'ultima fase di una guerra che deciderà chi prenderà il potere
negli Stati Uniti dopo 8 anni di Bush, fra repubblicani e democratici, si
richiama agli ultimi momenti di quel Vietnam che lo stesso Bush ha ricordato. Si riassume nella celebre formula creata da Kissinger per Nixon:
"Proclama vittoria e vattene". Ma trentacinque anni or sono, Washington
fingeva almeno di negoziare la ritirata con i Nord Vietnamiti. Oggi, Washington
deve negoziare con se stessa. Tutto quello che il Presidente ha detto e la
sceneggiata dell'Air Force One che atterra non a Bagdad, troppo insicura, ma
in una remota base aerea americana nella provincia di al-Anbar, sono
fotogrammi a uso pubblico di un film per il consumo dell'opinione americana e
internazionale. Ora che la chimera di un Iraq democratico, laico,
funzionante, perno filo occidentale nel cuore del mondo arabo, ha lasciato il
posto alle realtà di una guerra civile a bassa intensità e di
un governo settario, il pragmatismo americano riprende il sopravvento sulla
intossicazione ideologica scatenata dallo shock dell'11 settembre. Se le cose
non vanno come si vorrebbe andassero, anche questa amministrazione, purgata
ormai di tutti gli architetti dell'impresa irachena, confeziona la
realtà nella migliore scatola possibile e la etichetta
"vittoria". Bush, che in Iraq era già stato due volte, la
prima, memorabile, per servire il tacchino ai soldati sotto una tenda nel
giorno del Ringraziamento, non ha visto e non ha fatto nulla in quella base
che non avrebbe potuto dire e fare stando a Washington, da dove
comunica in teleconferenza quotidiana con il comandante sul campo, Petraeus e
con l'ambasciatore Crocker. Se ci è andato, sulla rotta di un viaggio
ufficiale in Australia, è per avere munizioni da usare nella battaglia
che fra una settimana, a partire da lunedì prossimo, si
combatterà tra il Congresso e la Casa Bianca. Quel giorno, Petraeus
dovrà presentarsi a rapporto davanti al parlamento e illustrare quali
progressi abbia ottenuto quella "surge", quella mini escalation,
che ha portato il numero di soldati americani uccisi a 3 mila 739, di feriti
gravi a 28 mila 308 e di iracheni morti a centinaia di migliaia, non
più ufficialmente censiti. Su quella relazione, che il generale
cercherà di foderare nei termini più ambigui e sibillini
possibili, l'opposizione democratica e la minoranza repubblicana riottosa,
decideranno se dare l'ultima spallata all'avventura irachena o se concedere
ancora spago alla Presidenza. Bush, con la comparsata in Iraq, e Petraeus,
con la propria credibilità di stimatissimo generale, sperano di
convincere la nazione che la luce alla fine del tunnel è finalmente
visibile. Se ce la faranno, l'obbiettivo strategico della Casa Bianca, che
è disinnescare elettoralmente la bomba Iraq e passarla al successore,
sarà stato raggiunto. In gioco non è il futuro del premier
shiita al-Maliki, è il futuro del partito repubblicano, che va salvato
da un'annunciata devastazione elettorale nel 2008 che lo riporti agli anni
della irrilevanza, gli anni del dopo Nixon, prima della rinascita con Reagan.
L'annuncio dell'inizio del ritiro segherebbe le gambe sotto le sedie dei
candidati democratici che lo invocano, un fatto che spiega l'abile cautela
della Clinton nell'esporsi in una richiesta troppo esplicita di "via
dall'Iraq". La ritirata delle prime truppe americane, l'ultima forza
combattente in Iraq ora che la "fiction" della "Coalizione dei
Volonterosi" è finita con il ritiro anche dei britannici da
Bassora, non è ormai neppure una scelta. E' una necessità
logistica, imposta dalla mancanza di effettivi in un esercito volontario non
concepito per lunghe campagne di occupazione e di guerriglia. Dovrà
comunque avvenire entro la primavera prossima, dice il Pentagono, e
richiederà mesi, perché smantellare una forza di 150 mila soldati
autosufficienti e riforniti di tutto, dal ketchup alle munizioni, dai
medicinali ai cd di rap, non è cosa di pochi giorni. Forze americane
resteranno in Iraq per anni, se non per decenni. Dunque Bush, nel cinismo che
soltanto una superpotenza può permettersi, tenta di cambiare i
parametri della cosiddetta "vittoria", accetta non la
democratizzazione, ma la frammentazione dell'Iraq in clan e tribù,
armati dagli stessi occupanti purché stiano in equilibrio tra loro e non
usino più i volontari suicidi venuti da fuori. E si prepara a vendere
la fine dell'impresa come una grande disfatta di al-Qaeda, un nemico
indefinibile, spettrale e amorfo che può essere sepolto o resuscitato,
secondo convenienza politica. L'America, democratica o repubblicana che sia,
detesta la parola sconfitta e pretende comunque e sempre una vittoria.
Potrebbe rassegnarsi ad accettare anche questa nuova finzione, quando Bush
annuncerà che in Iraq "abbiamo vinto", e potete fidarvi,
parola di presidente. |