HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli Documento d’interesse Inserito
il 19-3-2007 |
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Il Corriere della Sera 17-3-2007 Quei liberisti anti-liberalizzazioni Gian Antonio Stella Forse non sono «finti liberali
figli di Ceausescu», come sbottò un giorno Giuliano Urbani esasperato
per quegli amici berlusconiani che «di liberale non hanno niente», ma gli
ostruzionisti che battagliano alla Camera contro il decreto Bersani faranno
sbarrare gli occhi non solo ai «Chicago boys» e agli ultràs del libero
mercato. Dove mai si sono visti dei sedicenti «liberisti » scatenati contro
le liberalizzazioni? Le conosciamo tutte, le obiezioni. C’è chi dice
che «sono troppo poche» e chi obietta che «ci vuole ben altro!» e chi
sottolinea che «manca la volontà di colpire i grandi interessi» e chi
discetta sulla «carenza di gradualità»... E via così, potremmo
andare avanti ore. Di più: diamo per legittime tutte le osservazioni
su tutti i punti: dalla giornata libera dei barbieri alla benzina solo nei
distributori, dai tagli alle ricariche dei cellulari all’estinzione
anticipata dei mutui. Mail tema resta: ammesso il pieno diritto di ciascuno
di essere contrario alle rotture di vecchi equilibri corporativi, possono
esserlo dei liberisti? Perché questo dicono di essere, da anni, a destra.
Silvio Berlusconi lo disse perfino tre mesi prima di entrare in politica,
proponendo di «privatizzare la Rai» e liquidando i sorrisetti perplessi
così: «Io sono liberista, quindi non credo che occasioni contingenti
possano farmi cambiare atteggiamento. Io sono favorevole al "meno
Stato e più privato", sempre e dovunque. È vero,
aumenterebbe la concorrenza ai network Fininvest. Ma io amo la concorrenza.
Ci vivo come un bambino nel liquido amniotico».Da allora, non ha fatto altro
che ripeterlo. Nel discorso della «discesa in campo» invocando
«un’amministrazione pubblica liberale in politica e liberista in economia».
Contro gli alleati: «Forza Italia è un partito assolutamente
liberista. Ma molte difficoltà ci sono state nella Cdl con altri
partiti...». Alla vigilia delle ultime politiche: «Gli elettori devono
scegliere tra liberismo e comunismo, liberismo e statalismo». Fino all’ultima
intervista alla Padania: «L’alleanza con la Lega è naturale, abbiamo
programmi simili e un elettorato che parla lo stesso linguaggio. Siamo
liberisti e nemici dello statalismo». Certo, dentro partiti come l’Udc c’è
sempre stata un’anima liberale come quella di Bruno Tabacci e un’altra
più cauta come quella di Pier Ferdinando Casini. Il quale, prima di
svoltare e definire ieri «infantilismo politico» l’ostruzionismo destrorso e
benedire l’idea di Linda Lanzillotta di metter mano al sistema dei servizi
pubblici locali come «ineludibile», mandava a dire al Cavaliere che «non
sarebbe giusto dar fiato solo alle trombe del liberismo se
contemporaneamente, nello stesso concerto, non si sentisse con la stessa
intensità il suono dei violini della solidarietà». Per anni, però, a parte
eccezioni come Gianni Alemanno (promotore di una «cultura comunitaria» che
«si fa carico delle questioni sociali, difende l’ambiente, si oppone al
liberismo»), è sembrata una corsa a chi era il liberale più liberale
di tutti. Maurizio Gasparri, per difendere quella riforma televisiva che
secondo il camerata Francesco Storace non solo non aveva scritta «ma manco
letta», diceva ridendo che «di liberali in Italia conosco Antonio Martino e
me stesso. Anche se io sono in prova» e sentenziava che «il governo
Berlusconi è basato sui capisaldi del presidenzialismo, del
federalismo, del liberismo». Giuliano Urbani, coerentemente
con i giudizi dati sui compagni di viaggio («Stiamo giocando al gioco dei
liberali senza avere liberali») teorizzava da ministro dei Beni culturali la
privatizzazione perfino dei musei: «Lo Stato è inadeguato. Pensiamo
solo alle migliaia di opere che giacciono negli scantinati e alle risorse
insufficienti. I privati ci daranno risorse e più occupazione».
Marcello Pera, non ancora ratzingerato, se la prendeva con le
perplessità del cardinale Carlo Maria Martini sulle deviazioni del
liberismo definendole un «assurdo concettuale perché non si possono accostare
ambiti così distanti come i modelli di comportamento sessuale e il
tasso di maggiore o minore liberismo nelle politiche economiche dei governi
». E Umberto Bossi? Non solo
affermava che la Lega Nord è «una forza federalista e liberista» ma
che in nome di questi principi, nei suoi anni bollenti, arrivò ad
attaccare il cattolicesimo, «quella setta bassa del cristianesimo» che aveva
«sempre fatto politica sulle spalle del Nord» e che aveva «paura della
vittoria delle idee laiche che nella parte celtica del Paese ha dato vita a
una grande classe dirigente imprenditoriale, mentre nell’altra parte del
Paese sono cresciuti l’antiliberalismo, l’assistenzialismo...». Per non dire
di Antonio Martino, che dall’alto della presidenza della MontPelerin Society
(un club iperliberista fondato nel 1947), si definiva «liberale in politica,
liberista in economia e libertario » e marchiava la Thatcher come «una
statalista moderata» e si lagnava che il tasso di liberismo in Forza Italia
fosse in caduta libera «sia nella capacità propositiva sia nel
personale politico, ormai sono con noi troppi ex dc, che notoriamente col
liberismo non hanno mai avuto a che spartire». Addio, partito liberale di
massa: «A me più che di massa pare un partito di Carrara», rise un
giorno Alfredo Biondi, «nel senso del marmo: è un partito
marmorizzato». Quanto all’ostruzionismo e alle sue contraddizioni, valgano
per tutte le parole dette qualche tempo fa: «L’opposizione, vedete anche voi,
è quello che è. Non guarda agli interessi del Paese». Erano
parole, contro il filiburstering della sinistra che pure era molto più
debole in aula, di Silvio Berlusconi. |