HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli Documento d’interesse Inserito il 26-7-2007 |
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La Repubblica 26-7-2007 Gli Usa e il disastro Iraq TIMOTHY GARTON ASH Traduzione di Emilia Benghi. L'Iraq
è finito. L'Iraq non è ancora cominciato. Due conclusioni
tratte dal dibattito sull'Iraq che domina i media in
America surclassando pressoché ogni altro tema estero. L'Iraq è finito
nel momento in cui l'opinione pubblica americana ha deciso che il grosso
delle truppe Usa dovrebbe lasciare il paese. In un sondaggio Gallup dei primi di questo mese il 71 per cento degli
intervistati si è dichiarato favorevole al "ritiro di tutte le
truppe Usa dall'Iraq entro il primo aprile del prossimo anno, fatta
eccezione per un numero limitato di militari da impiegare in operazioni anti terrorismo". L'analista politico della Cnn Bill Schneider
dall'alto della sua esperienza osserva che negli ultimi anni della guerra del
Vietnam l'atteggiamento fondamentale dell'opinione pubblica americana poteva
essere così sintetizzato: "o vincere o
andarsene". Schneider sostiene che per l'Iraq
è la stessa cosa. A dispetto degli appelli sempre più disperati
del presidente Bush la maggioranza degli americani ormai è giunta alla
conclusione che l'America non sta vincendo. Quindi meglio andarsene.
L'America è una democrazia e i rappresentanti eletti seguono le
indicazioni del popolo. Indipendentemente dal risultato dell'ultima mano del
gioco di posizione in corso al Congresso, compresa
una maratona sul campo del Senato durata tutta la notte tra martedì e
mercoledì in cui i democratici hanno tentato di battere
l'ostruzionismo repubblicano, nessuno a Washington ha dubbi sul fatto che
ormai il vento soffia in questa direzione. Ufficiosamente esiste ancora una
netta divisione tra gli schieramenti, ma politici
repubblicani di spicco stanno già uscendo dai ranghi per avanzare
proposte autonome circa una riduzione programmata delle truppe, accanto a piani
per la spartizione dell'Iraq tra sunniti, sciiti e curdi.
Bush si dice deciso a concedere al generale a capo delle forze americane in
Iraq, David Petraeus, esattamente la
quantità di truppe che richiederà quando farà nuovamente rapporto a settembre e la
Casa Bianca potrebbe per ora tener testa al Congresso controllato dai
democratici. I principali concorrenti repubblicani alla candidatura alla
presidenza mantengono la linea dura, ma il più esplicito sostenitore
della necessità di restare in Iraq per vincere, John
McCain, ha registrato un repentino calo di
consensi. Anche se il prossimo presidente sarà un
falco repubblicano, a Washington tutti i pronostici attuali saranno
scombussolati se non si affretterà quanto meno a ridurre il numero
delle truppe Usa in Iraq. Dopo tutto è
questo che vogliono gli americani, lo hanno detto chiaramente. E, per inciso,
è quello che vuole il 72 per cento dei militari americani in servizio
in Iraq stando ad un'indagine Zogby condotta
all'inizio dello scorso anno. A dire il vero i ragazzi avevano espresso
l'intenzione di tornare a casa nel corso del 2006. Gli americani esprimono un
giudizio notevolmente duro su altri aspetti del disastro iracheno. In un
sondaggio per Newsweek il 40 per cento degli
intervistati ha attribuito la responsabilità della situazione attuale
in Iraq alla Casa Bianca e un altro 13 per cento al Congresso. Il 54 per
cento degli intervistati in un sondaggio per la Cnn
ha dichiarato che l'intervento Usa in Iraq non ha una giustificazione
morale. In un sondaggio per la Cbs, il 51 per cento
ha avallato il giudizio, condiviso dalla maggioranza degli esperti, che il
coinvolgimento Usa in Iraq crea un maggior numero di terroristi ostili
agli Stati Uniti invece che ridurne la quantità. Se gli americani in
passato sono stati ciechi, ora ci vedono. Nonostante la fede profusa, questa
è una nazione che si basa sulla realtà dei fatti. Quindi l'Iraq
è finito. Ma l'Iraq non è ancora cominciato. Non ancora
cominciato sotto il profilo delle conseguenze per l'Iraq stesso, il medio
oriente, la politica estera statunitense e la reputazione degli Usa
nel mondo. La conseguenza più probabile di un rapido ritiro Usa,
per come stanno oggi le cose, sarà un ulteriore bagno di sangue,
associato ad un ancor più cospicuo esodo di profughi e all'effettivo
smembramento del paese. Sono già circa 2 milioni gli iracheni fuggiti
oltre confine e più di 2 milioni hanno dovuto abbandonare le loro case
e trasferirsi altrove nel paese. Ora uno studio approfondito della Brookings Institution giunge alla
dolorosa conclusione che la spartizione cosiddetta "morbida" del
paese, che comporterà il trasferimento pacifico, volontario, di un
numero di iracheni stimato tra i due e i cinque milioni in tre regioni
distinte, curda, sunnita
e sciita, sotto la stretta supervisione delle forze armate Usa,
sarebbe il male minore. Il male minore partendo dal presupposto che tutto vada secondo i piani e che l'opinione pubblica americana
sia pronta a consentire la permanenza delle truppe Usa in numero
sufficiente ad espletare quell'ingrato compito, ipotesi entrambe poco
plausibili. E' più probabile che sia un male maggiore. In un articolo
per la rivista online Open Democracy, il mediorientalista Fred Halliday indica tra le ripercussioni a livello regionale,
oltre all'effettiva distruzione dello stato iracheno, la ripresa
dell'islamismo militante e l'aumento del fascino esercitato a livello internazionale
dal marchio al-Qaeda, lo scoppio per la prima volta
nella storia moderna di una guerra intestina tra sunniti e sciiti, "una
tendenza che si riverbererà in altri stati a composizione religiosa
mista", l'allontanamento della maggioranza delle aree politiche turche
dall'occidente stimolando il nazionalismo autoritario in loco, il
rafforzamento dell'Iran affamato di nucleare ed una nuova rivalità
regionale, tra la Repubblica Islamica dell'Iran e i suoi alleati (tra cui
Siria, Hezbollah e Hamas)
da una parte e Arabia Saudita, Egitto e Giordania dall'altra. Per gli stessi
Stati Uniti il mondo oggi, in conseguenza della guerra in Iraq, è
diventato più pericoloso ed ostile. Alla fine del 2002, quella che viene talvolta definita la Centrale di al-Qaeda
in Afghanistan era stata in pratica distrutta e in Iraq non c'era traccia di al-Qaeda. Nel 2007, al-Qaeda è presente in Iraq, parte della vecchia al-Qaeda torna ad insinuarsi in Afghanistan e gruppuscoli
emuli di al-Qaeda si diffondono altrove, in
particolare in Europa. Il piano di Osama bin Laden era di portare gli Usa
a una reazione eccessiva e ad un'espansione eccessiva.
Invadendo l'Iraq il presidente Bush è caduto in pieno nella sua
trappola. Secondo le stime più recenti dell'intelligence nazionale Usa
pubblicate all'inizio di questa settimana, al-Qaeda
in Iraq rappresenta oggi una delle più significative minacce alla
sicurezza del territorio nazionale americano. L'America probabilmente non ha
ancora aperto completamente gli occhi sulla spaventosa realtà: dopo un
lungo periodo in cui il motto delle sue forze armate è stato 'no ad
altri Vietnam' sta affrontando un nuovo Vietnam. Ci
sono molte importanti differenze, è chiaro, ma il risultato
fondamentale è simile: la massima potenza militare mondiale non riesce
a realizzare i suoi obiettivi strategici e finisce politicamente sconfitta da
un avversario economicamente e tecnologicamente inferiore. Anche se non
vedremo a Baghdad scene di elicotteri che evacuano gli americani dal tetto
dell'ambasciata ci saranno sicuramente foto totemiche di umiliazione
nazionale degli americani in lotta per tirar fuori dall'Iraq
le truppe e tutti i mezzi pesanti che vi hanno riversato, forse stavolta
scattate col telefonino e diffuse su internet. Abu Ghraib e Guantanamo hanno danneggiato terribilmente la
reputazione di umanità dell'America. Questa sconfitta convincerà più persone nel mondo che
l'America non è neppure poi così potente. E Osama
bin Laden, ancora vivo,
rivendicherà l'ennesima vittoria sui deboli occidentali, pavidi di
fronte alla morte. Nella storia spesso sono le conseguenze involontarie a
pesare di più. Non sappiamo ancora quali saranno nel lungo periodo le
conseguenze involontarie dell'Iraq. Forse non tutto il male vien per nuocere. Ma a quanto l'occhio umano consente di
vedere le probabili conseguenze dell'Iraq vanno dal male al peggio. Scrivo di
affari internazionali da più di un quarto di secolo
ma non riesco a ricordare un disastro più totale ed evitabile
compiuto dall'uomo. |