LA STAMPA del 4/11/2006
Le riforme sempre rinviate.
Il paese della lentezza
di Luca Ricolfi
DI lumache, ormai, non se ne trovano facilmente, o forse non abbiamo il tempo
di cercarle, nei prati dopo la pioggia, e ancor meno la pazienza di prepararle,
e meno che mai l’arte di cucinarle. Però il problema della lumaca (in
piemontese: lumassa) rimane, e anzi secondo me è il problema fondamentale dell’Italia. Ci sono
tante cose che, più o meno confusamente, sappiamo che prima o poi
dovremo fare. Per esempio, la mia generazione (quella del ’68) sa perfettamente
che l’età della pensione andrà alzata, e l’importo delle pensioni
ridotto, a meno di voler scaricare sui nostri figli e nipoti le conseguenze dei
nostri privilegi. Altrettanto bene sappiamo che non si potrà andare
avanti in eterno senza veri controlli di qualità nella scuola,
nell’università, nella sanità. Che difficilmente potremo
continuare a fare a meno di un moderno sistema di ammortizzatori sociali, capace
di aiutare chi ha davvero bisogno. Che prima o poi dovremo trovare il modo di
premiare un po’ di più il merito e la responsabilità individuale.
Che le tasse, la burocrazia e l’evasione fiscale soffocano la crescita. E che
difficilmente l’Europa civile ci consentirà in eterno di avere quattro
regioni in mano alla criminalità organizzata.
Tutte queste cose le sappiamo, e sappiamo che dobbiamo
agire. Sappiamo anche, all’ingrosso, che cosa si dovrebbe fare. Chiedete a Fassino, a Rutelli, a Bersani, a
Mario Monti, al governatore della Banca d’Italia, agli economisti indipendenti,
ai liberali di destra e di sinistra e più o meno vi diranno tutti le stesse cose: liberalizzare, promuovere il merito,
tagliare gli sprechi, ridurre l’evasione, abbassare le tasse, riformare il welfare. In una parola: scongelare il sistema.
Ma è qui che interviene la lumassa,
cioè il fattore lentezza. C’è chi pensa che abbiamo ancora tempo,
abbastanza tempo, e quindi si preoccupa soprattutto di tenere la barca a galla
(risanamento), sperando che poi - concertando, negoziando, «aprendo tavoli» -
la barca vada da qualche parte senza affondare
(riforme). C’è invece chi pensa che di lumassa
si muore, perché l’Italia, che è in declino da un decennio, non
può permettersi di procedere sulla strada delle riforme con la lentezza
delle due ultime legislature, quella di Prodi (1996-2001) e quella di
Berlusconi (2001- 2006). Se non si interviene con decisione sui conti pubblici,
saremo sempre più vulnerabili ai rialzi dei tassi di interesse. Se
anziché ridurre le spese improduttive si aumentano le tasse si rischia di
frenare la crescita. Se non si alleggerisce il carico fiscale degli onesti
(cittadini e imprese) si alimenta l’economia sommersa e si dà spazio a
quella criminale. Se non si riforma il welfare, a
pagare saranno soprattutto i giovani e i veri poveri. Chi vede le cose in
questo modo non teme solo il ritorno di Berlusconi, che nella scorsa
legislatura ha fatto ben poco per accelerare lo scongelamento del sistema, ma
teme altrettanto la lumassa riformista, l’esasperante
lentezza di Prodi e della dirigenza dell’Unione. Sono passati quasi 20 anni
dalla caduta del muro di Berlino, 15 dal crollo della prima Repubblica, 11 da quando è cominciata la costruzione del Partito
Democratico, eppure siamo ancora in mezzo al guado, spesso con gli stessi
tormenti, le stesse liturgie, gli stessi tic, la stessa mentalità. La
maledizione della sinistra in Italia non è semplicemente di avere alcune
idee sbagliate (ossia presumibilmente dannose per il Paese), ma è il tempo
infinito che impiega a liberarsene. Pietro Ichino
ricordava recentemente che molte delle cose che la sinistra oggi considera
benefiche - ad esempio il part-time delle donne o le assunzioni nominative -
sono state a lungo considerate tabù, e hanno attirato sui
loro sostenitori odio, rancore, accuse di tradimento, minacce e in
qualche caso persino azioni violente. Non ho troppi dubbi sul fatto che la
storia si ripeterà: le cose che oggi a sinistra appaiono scandalose, o
premature, o troppo radicali, appariranno perfettamente normali fra dieci,
quindici o venti anni, proprio come alla fine sono diventati normali il
televisore a colori e il part-time delle donne, due cose che non piacevano per
niente al vecchio Pci. Quel che non appare
altrettanto sicuro è che, in assenza di shock esterni capaci di
scuoterci e di costringerci - come nel 1992, dopo la svalutazione - ad
affrontare finalmente i nostri problemi, l’Italia possa permettersi altri anni
di discussioni, maturazioni, travagli, mediazioni, riflessioni, ricomposizioni.
Ciò che va fatto, prima o poi lo faremo per forza. Ma agire oggi,
domani, o dopodomani non è la stessa cosa. Perché più lasciamo
passare il tempo, più il conto è destinato a farsi salato.
E’ questo che temono i riformisti più impazienti. E’ questo che nelle
ultime settimane ha mosso iniziative come il «tavolo dei volenterosi», o la
Conferenza di Glocus organizzata da Linda Lanzillotta e Antonio Polito. Volenterosi, liberali,
riformisti radicali temono che il tempo del Paese scorra rapido, troppo rapido per i tempi della politica così com’è
oggi. Ed è rispetto a questo loro (giustificato) timore che un po’ tutti
quanti - governo, maggioranza, opposizione, sindacati - appaiono
incredibilmente sordi.