HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli Documento d’interesse Inserito il 2-6-2007 |
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L’Espresso Del 7-6-2007 n° 22 Anno 53 ECONOMIA
SCANDALI FINANZIARI / L'INCHIESTA DI PESCARA Banche
d'affari e di truffe Lehman Brothers, Goldman Sachs e Jp Morgan,
tre fra le principali banche d'affari mondiali, costrette a piegarsi davanti
alla porta della Procura di Pescara. Di Primo
Di Nicola Bussano per restituire il
maltolto e rinunciare a oltre 600 milioni di euro di crediti maturati con
l'erario dopo anni di raggiri. Una gigantesca truffa ai danni dello Stato
consumata con i pacchetti azionari di investitori di ogni angolo del globo: europei, americani, asiatici, australiani. Per
riuscire a spillare denaro è stato sufficiente chiedere il rimborso
del credito d'imposta sui dividendi delle società italiane, facendo
credere all'amministrazione finanziaria di averne diritto. Per incassare
c'era solo da aspettare; tanto nessuno controllava. In questo modo, secondo i
documenti degli inquirenti che 'L'espresso' ha potuto visionare, le banche americane e una lunga
serie di altri istituti di credito erano riusciti a mettere le mani su una
torta miliardaria. Un giochetto andato avanti per anni, fino a quando la
magistratura non ha affondato il bisturi nel
bubbone. E allora per le protagoniste dello scandalo sono cominciati i guai.
Passando al setaccio oltre 40 mila richieste di
rimborso del credito d'imposta sui dividendi per gli anni 1999-2003, il
procuratore di Pescara, Nicola Trifuoggi, e i suoi
sostituti Giampiero Di Florio (esperto di reati finanziari) e Giuseppe Bellelli, hanno portato alla luce le dimensioni colossali
del raggiro: complessivamente, ben 4 miliardi 300 milioni di euro, quasi una
manovra finanziaria. E soprattutto, le responsabilità dei vari
protagonisti. La scoperta della truffa sui rimborsi, nome in codice 'easy credit', risale al 2005 quando,
dopo una indagine sulle richieste inoltrate da società inglesi, il
Gruppo repressioni frodi della Guardia di finanza di Roma ha trasmesso un
rapporto alla Procura di Pescara, competente per territorio visto che nella
città abruzzese ha sede il centro operativo dell'Agenzia delle entrate
che si occupa di queste pratiche. Secondo la nostra legislazione il diritto
al credito d'imposta sui dividendi spetta unicamente alle società e
agli enti residenti in Italia. Alcune convenzioni bilaterali contro le doppie
imposizioni fiscali, come quelle stipulate dall'Italia con la Gran Bretagna e
la Francia (hanno funzionato dal 1992 al 2003),
prevedono tuttavia l'estensione di questo diritto anche ai residenti
nell'altro Stato contraente. Cosa hanno fatto le tre banche d'affari per
mettere le mani sui rimborsi miliardari italiani? Si sono fatte 'prestare'
temporaneamente da ogni angolo del mondo, da fondi di investimento e istituti
di credito delle più svariate nazionalità, pacchetti azionari
in maniera che, al momento dello stacco del dividendo delle società
italiane, queste azioni risultassero di
proprietà delle loro filiali inglesi Lehman Brothers International Europe, Goldman Sachs International e Jp Morgan Securities
Limited, tutte e tre con sede a Londra e
perciò titolate a chiedere il rimborso. Una volta
incassato il dividendo e maturato il credito, tempo qualche settimana,
i titoli azionari venivano restituiti agli effettivi proprietari. Un caso tra
i tanti. Il 23 marzo 2001, Banca Intesa riceve dalla Deutsche Bank di Londra
l'ordine di prelevare 3 milioni di azioni Eni da un proprio conto per girarle
a quello della Lehman Brothers
International acceso presso la Citibank di Milano.
Il 5 maggio, puntualmente, le azioni entrano sul conto milanese della Lehman. Il 18 giugno avviene lo stacco del dividendo Eni
e meno di un mese dopo, maturato il diritto al rimborso, le azioni fanno il
percorso inverso rientrando sul conto londinese della Deutsche Bank. In quei
giorni di operazioni di questo tipo ne sono state fatte a migliaia, creando
un traffico così intenso da fare quasi scoppiare i portafogli-titoli
delle tre banche d'affari. Lehman Brothers international Europe,
per esempio, rispetto a una giacenza media nell'intero arco del 2001 di 5
milioni 400 mila azioni Eni, nel mese di giugno vedeva il numero dei titoli
petroliferi registrati sul proprio conto milanese superare i 155 milioni. Una
grande performance, ma non la sola. Anche Goldman Sachs e Jp Morgan
sono state attivissime. La prima, rispetto a una giacenza media annuale di meno
di 50 mila titoli Eni, sempre nel giugno 2001 arrivava a possederne 355
milioni. Un record di cui la Guardia di Finanza ha messo a nudo tutte le
irregolarità, facendo emergere anche le responsabilità di tutte
le altre istituzioni che hanno utilizzato le convenzioni bilaterali sui
crediti di imposta sui dividendi firmate
dall'Italia. La lista degli accusati alla fine potrebbe essere molto lunga:
si parla di un totale di circa 4.500 soggetti finanziari che potrebbero
finire presto nel registro degli indagati. Tra di
essi spiccano i nomi di colossi come Merrill Lynch, Nomura International, Citigroup Global Markets Limited e la svizzera Ubs, le
cui richieste di rimborso hanno rivelato già imperdonabili pecche agli
occhi degli investigatori. Ma sul banco degli imputati ci sono per il momento
soprattutto le case madri e le filiali europee di Lehman,
Goldman e Jp Morgan, molto note e attive da tanto tempo sul nostro
mercato finanziario, avendo per esempio curato alcune delle privatizzazioni
fatte negli ultimi dieci anni (Comit e Credito
commerciale), per non parlare del ruolo svolto in grandi fusioni societarie
(Sai-Fondiaria), nel collocamento di società in Borsa e in quelle dei
nostri titoli di Stato sul mercato internazionale. Insieme le tre banche
avevano richiesto al fisco 709 milioni di euro di rimborsi, oltre 600 dei
quali non dovuti. Una vera e propria stangata per l'erario, scongiurata solo
grazie all'intervento della magistratura. Davanti ai pm
pescaresi, infatti, sperando di limitare i danni, Lehman
Brothers, Goldman Sachs e Jp Morgan
hanno accettato alla fine un accordo che prevede la loro rinuncia ai 600
milioni di rimborsi non spettanti e la restituzione di 52 milioni già
incassati (i soli in tanti anni a causa dei cronici e stavolta provvidenziali
ritardi del fisco). "Abbiamo transato; la
faccenda è chiusa", commentano a Goldman
Sachs. "Siamo soddisfatti", dice invece Lehman Brothers: "Abbiamo
cooperato con gli inquirenti; la vicenda si sta chiudendo
amichevolmente". Ottimismo giustificato? Non proprio, visto che,
nonostante la transazione, le accuse a loro carico restano e sono
pesantissime: si va dalla truffa ai danni dello Stato (tentata e consumata)
alla responsabilità penale e amministrativa per non avere adottato
misure adeguate per evitare che dirigenti e dipendenti commettessero i reati.
Un aspetto molto delicato della vicenda, visto che il comportamento da
'furbetti'di Goldman Sachs
International di Londra è andato avanti anche negli anni in cui
vicepresidente e managing director (amministratore
delegato) della società era Mario Draghi, dal dicembre del 2005
governatore della Banca d'Italia. Dalla documentazione acquisita, annotano infatti le Fiamme Gialle in uno dei loro rapporti,
è emerso con chiarezza che l'origine e la destinazione finale dei
pacchetti azionari movimentati dalle tre filiali europee delle banche
d'affari in prossimità dello stacco dei dividendi "sono in
realtà riconducibili a investitori residenti in paesi diversi con i
quali non risulta stipulata alcuna convenzione che preveda il rimborso del
credito di imposta sui dividendi distribuiti da società italiane
quotate in Borsa". A chi appartiene per esempio il conto della Deutsche
Bank di Londra dal quale Lehman Brothers
prende in prestito il pacchetto di azioni Eni nel giugno del 2001? Al fondo Franklin Mutual Series di
Short Hills, New Jersey. Un investitore americano: e dunque non titolato a
chiedere il rimborso del credito d'imposta. Come non ne avevano diritto gli
altri soggetti finanziari dai quali Lehman, Goldman e Jp Morgan hanno preso in prestito quasi
tutti gli altri pacchetti azionari. Conclusione amara della Guardia di
Finanza: si può "ragionevolmente ipotizzare che le maggiori
istituzioni finanziarie estere abbiano costituito un vero e proprio cartello
finalizzato ad effettuare in Italia operazioni di 'lavaggio dei dividendi'". Un'operazione truffaldina che non si
limita alla Gran Bretagna. Se da Londra sono infatti
partite richieste sospette di rimborso per 2 miliardi e 200 milioni di euro,
anche dalla Francia (l'altro paese con il quale l'Italia ha stipulato un
trattato per i crediti d'imposta sui dividendi) sono arrivate istanze per 2
miliardi di euro, molte delle quali inoltrate da Bnp
Paribas e Crédit Lyonnais.
Tutte regolari? Macché: la comparazione dei dati fatta dagli inquirenti
"ha evidenziato un quadro complessivo analogo" e tale da far
ritenere "con ragionevole certezza che le frodi inizialmente ipotizzate ad opera di soggetti inglesi siano state perpetrate con le
stesse modalità anche da soggetti francesi". Davanti all'enorme
numero delle pratiche di rimborso da esaminare per ricostruire la truffa e
individuare le responsabilità, Guardia di Finanza e magistrati hanno
dovuto accantonare il contenzioso francese per concentrarsi sulle pratiche di
rimborso provenienti dalla Gran Bretagna e inoltrate da Lehman
Brothers, Goldman Sachs e Jp Morgan.
Lo hanno fatto passando al setaccio la documentazione relativa ai soli titoli
Eni e Telecom (i più appetiti e movimentati dagli investitori). Una
scelta che ha consentito alla procura di Pescara di recuperare i circa 600
milioni indicati negli accordi, un tesoretto che secondo gli inquirenti
potrebbe lievitare fino a circa 2 miliardi di euro quando
saranno chiamate a regolare i conti con la giustizia anche le altre migliaia
di soggetti finanziari che tra Gran Bretagna e Francia hanno partecipato al
banchetto truffaldino e che stanno per essere iscritti sul registro degli
indagati. La replica degli americani: per noi affare chiuso dopo l’accordo. Prestiti generosi Guglielmo Maisto, docente
universitario, titolare dell'omonimo studio tributario milanese. Francesco Mucciarelli, professore di diritto penale alla Bocconi e difensore di Gianpiero Fiorani, l'ex
amministratore delegato della Banca popolare italiana finito in carcere per
le scalate bancarie. Lo studio Romagnoli Piccardi e
associati, fondato da Giulio Tremonti, ministro dell'Economia proprio nel
periodo in cui la truffa ai danni dello Stato sui rimborsi dei crediti
d'imposta raggiungeva il suo apice. A difendere gli interessi di Lehman Brothers, Goldman Sachs e Jp Morgan, sotto accusa alla
Procura di Pescara, sono stati arruolati i migliori penalisti e specialisti
della materia tributaria. Grazie al loro lavoro le tre banche d'affari hanno
raggiunto l'accordo con il sostituto procuratore Giampiero Di Florio. Con il
quale sperano di chiudere la partita. A rimanere con il fiato sospeso sono
anche gli effettivi proprietari dei pacchetti azionari che, prestando i loro
titoli di società italiane in coincidenza con le emissioni dei
dividendi, hanno reso possibile la truffa miliardaria. Di chi si tratta? Tra
banche e fondi di investimento la lista è lunga e tocca
ogni angolo del globo: tra gli altri, Abn Amro, Rabobank
Nederland e Leven Nv (Olanda); Abu Dhabi Investment Authority;
International Share Fund Level
23 di Sydney; Commerzbank Ag,
Delbrueck Bethmann Maffei Ag e Deutsche Bank
(Germania). E poi: Chase Manhattan Bank, Salomon Bros, Bank
of America e Bank of New York (Stati Uniti); Quality Education Fund (Hong Kong); Kio Government Future (Kuwait); Master Trust Bank of
Japan. Infine, due filiali estere di istituti italiani: Caboto Sim spa e Sanpaolo Bank, con sede
fiscale in Lussemburgo. P. D. N. Mazzette abruzzesi Sprechi sanitari e mazzette ai politici. Sui tavoli dei tre
magistrati di Pescara che indagano sulla truffa delle grandi banche d'affari
non ci sono solo le pratiche sui rimborsi fiscali per i crediti d'imposta. Nicola
Trifuoggi, Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli da mesi sono infatti
alle prese con inchieste che rischiano di provocare un terremoto e non solo
in Abruzzo. Trifuoggi, procuratore della
Repubblica, ha iniziato la sua carriera di magistrato a Genova negli anni
caldi del terrorismo brigatista. Successivamente ha retto la Procura di Chieti per poi sbarcare a Pescara: ha avuto modo dunque
di conoscere a fondo gli intrecci politico-affaristici
della regione. Giampiero Di Florio, lo specialista della criminalità
economica, arriva invece da Padova, dove ha fatto il pretore; mentre Giuseppe
Bellelli prima di sbarcare a Pescara ha lavorato
come sostituto procuratore a Caltagirone, in Sicilia. L'inchiesta sulla
sanità, sulla quale i tre magistrati lavorano da quasi due anni (vedi
l'articolo 'Cento milioni alla loro salute', 'L'espresso' numero 20), oltre
ad alzare il sipario sui regali fatti con una cartolarizzazione-capestro
dei debiti delle Asl ai proprietari delle cliniche
private dalla vecchia giunta regionale di centrodestra guidata dall'ex
governatore Giovanni Pace, sta per scoperchiare anche i pagamenti facili ai
privati che sono continuaticon una seconda cartolarizzazione varata dalla giunta di centrosinistra
attualmente al governo. Le ipotesi di reato sono pesanti: truffa,
concussione, corruzione e associazione a delinquere.
Altrettanto delicata l'indagine sullo scandalo urbanistico che sta
interessando il comune di Pescara guidato dal sindaco Luciano D'Alfonso,
della Margherita. I magistrati in questo caso stanno passandoal
setaccio l'operato della giunta per trovare le prove dei favori fatti a dieci
costruttori, autorizzando opere di grande rilievo in deroga al piano regolatore.
Uno di questi imprenditori ha già vuotato il sacco, confessando di
aver pagato tangenti e descrivendo uno scenario degno dei peggiori anni di
Tangentopoli. |