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Documentazione   Inserito il  2-7-2007


 

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La Stampa 29-6-2007

 

Il tesoro e i tagli scomparsi

 

Franco Bruni

 

Il Documento di programmazione economica e finanziaria sul quale il governo si è accordato conferma e rilancia un quadro di obiettivi di finanza pubblica che già da qualche tempo prevedevano, nei prossimi anni, la graduale riduzione del deficit, l’aumento dell’avanzo primario e la discesa del rapporto fra debito e Pil sotto il 100 per cento entro il 2010.

A Prodi e Padoa-Schioppa va riconosciuto di non aver mai tolto enfasi all’importanza del risanamento finanziario. Anche nella valutazione del cosiddetto «tesoretto», cioè dell’inatteso aumento delle entrate fiscali, hanno spesso saputo mostrare una certa prudenza, ricordando fra l’altro l’importanza di distinguere la parte strutturale e permanente dell’extragettito da quella congiunturale e transitoria. Se gli obiettivi del Dpef verranno rispettati ne beneficeranno la stabilità finanziaria e la crescita del Paese.

Oltre ai numeri-obiettivo della correzione di finanza pubblica il Dpef contiene una lunga serie di indicazioni programmatiche nei campi più diversi, dagli asili nido, alla giustizia, al turismo, alle politiche agroalimentari, alla tassazione della casa. Qualcosa di più conciso e focalizzato avrebbe convinto di più.

Non è compito del documento varato ieri chiarire i dettagli dei provvedimenti necessari a realizzare quei vasti programmi né di quantificarne i fabbisogni specifici. Rimane il fatto che la loro elencazione suona come una travolgente lista di spese aggiuntive che non si sa come verranno finanziate. A questo aspetto si collega una prima impressione di debolezza del Dpef.

Pur essendo lo stesso governo a sottolineare, molto opportunamente, come la spesa pubblica stia crescendo troppo, il Dpef toglie enfasi alla necessità di provvedere urgentemente alla sua riduzione e non chiarisce i modi con cui intende attuarla.

Una seconda debolezza che il governo ha rivelato nel presentare il Dpef sta nell’escludere esplicitamente manovre di risanamento nei prossimi due anni. Niente più sacrifici. Eppure, anche se l’aumento del gettito fiscale dovesse risultare confermato, o addirittura accresciuto da un’ancor più severa lotta all’evasione, servirebbero manovre che per molte categorie di cittadini si tradurrebbero in sacrifici. La necessità di ridurre strutturalmente la spesa pubblica, in una misura pari a diversi punti percentuali del Pil, comporta per definizione provvedimenti di risanamento e riforma strutturale i cui costi politici non vanno sottovalutati e dovrebbero essere chiaramente preannunciati e condivisi.

Ridurre la quota di reddito nazionale che va in spesa pubblica è essenziale, perché è l’unica strada per ridurre gli sprechi assurdi che in essa trovano copertura e per ridurre le imposte, rilanciando veramente la crescita, che anche nelle previsioni del governo rimarrà debole, sotto il 2 per cento, per tutti i prossimi quattro anni. Di fronte all’enorme bisogno di ridimensionamento e ristrutturazione qualitativa che ha la spesa pubblica italiana, affermare che non avremo bisogno di manovre di risanamento è un’affermazione mistificatoria: significa solo rassicurare gli italiani che se continueranno a pagare così tante tasse la politica potrà continuare a spendere gli stessi ammontari negli stessi modi. Vorremmo invece veder realizzati i virtuosi saldi del Dpef assieme a manovre di risanamento strutturali di vasta portata. Quelle che Padoa-Schioppa promise all’inizio del suo ministero, quando disse di non voler far tagli che non fossero riforme.

La terza debolezza sta ovviamente nel fatto che il Dpef dà gli obiettivi di finanza pubblica, ma non ci rassicura sulla capacità di realizzarli. Da questo punto di vista il governo mostra anzi grande difficoltà proprio su uno dei capitoli più importanti: le pensioni. In materia mi limito a due osservazioni. La prima è che se l’abolizione dello scalone comporterà dei costi, questi non paiono contabilizzati nei numeri del Dpef. Perciò aver visto incepparsi la trattativa con i sindacati sulle pensioni proprio in contemporanea al varo degli obiettivi di finanza pubblica rende questi ultimi meno credibili. La seconda riguarda il metodo con cui il governo mostra di voler decidere sulle pensioni: una trattativa ad oltranza con i sindacati, come si trattasse degli stipendi del settore pubblico.

Al tavolo delle trattative non sono rappresentati adeguatamente gli interessi in gioco nella questione delle pensioni. La mancanza delle cosiddette «generazioni future» che sono poi anche i giovani che stanno affacciandosi adesso al mondo del lavoro è solo l’assenza più clamorosa. I sindacalisti che tengono inchiodati i ministri ai tavoli notturni non sono nemmeno legittimati a trattare per tutte le categorie di lavoratori pensionandi e pensionati, e meno ancora per i contribuenti, i risparmiatori, gli operatori economici che dovranno subire le conseguenze dirette e indirette delle decisioni che verranno prese. Il Parlamento stesso rischia di vedersi presentare un piatto già cucinato e politicamente intoccabile. Occorre un salto di qualità nel metodo, sia per rassicurarci circa i promessi saldi di finanza pubblica, sia per migliorare la civiltà dello stile di conduzione della politica economica del Paese.

franco.bruni@unibocconi.it