La
Stampa 29-6-2007
Il tesoro e i tagli scomparsi
Franco Bruni
Il Documento di programmazione
economica e finanziaria sul quale il governo si è accordato conferma e
rilancia un quadro di obiettivi di finanza pubblica che già da qualche
tempo prevedevano, nei prossimi anni, la graduale riduzione del deficit,
l’aumento dell’avanzo primario e la discesa del rapporto fra debito e Pil sotto il 100 per cento entro il 2010.
A Prodi e Padoa-Schioppa va riconosciuto di non aver mai tolto enfasi
all’importanza del risanamento finanziario. Anche nella valutazione del
cosiddetto «tesoretto», cioè dell’inatteso aumento delle entrate
fiscali, hanno spesso saputo mostrare una certa prudenza, ricordando fra
l’altro l’importanza di distinguere la parte strutturale e permanente
dell’extragettito da quella congiunturale e transitoria. Se gli obiettivi del
Dpef verranno rispettati
ne beneficeranno la stabilità finanziaria e la crescita del Paese.
Oltre ai numeri-obiettivo della correzione di finanza pubblica il Dpef contiene una lunga serie di indicazioni
programmatiche nei campi più diversi, dagli asili nido, alla
giustizia, al turismo, alle politiche agroalimentari,
alla tassazione della casa. Qualcosa di più conciso e focalizzato
avrebbe convinto di più.
Non è compito del documento varato ieri chiarire i dettagli dei
provvedimenti necessari a realizzare quei vasti programmi né di quantificarne
i fabbisogni specifici. Rimane il fatto che la loro elencazione suona come
una travolgente lista di spese aggiuntive che non si sa come verranno finanziate. A questo aspetto si collega una prima
impressione di debolezza del Dpef.
Pur essendo lo stesso governo a sottolineare, molto opportunamente, come la
spesa pubblica stia crescendo troppo, il Dpef
toglie enfasi alla necessità di provvedere urgentemente alla sua
riduzione e non chiarisce i modi con cui intende attuarla.
Una seconda debolezza che il governo ha rivelato nel presentare il Dpef sta nell’escludere esplicitamente manovre di
risanamento nei prossimi due anni. Niente più sacrifici. Eppure, anche
se l’aumento del gettito fiscale dovesse risultare confermato, o addirittura
accresciuto da un’ancor più severa lotta all’evasione, servirebbero manovre
che per molte categorie di cittadini si tradurrebbero in sacrifici. La
necessità di ridurre strutturalmente la spesa pubblica, in una misura
pari a diversi punti percentuali del Pil, comporta
per definizione provvedimenti di risanamento e riforma strutturale i cui costi
politici non vanno sottovalutati e dovrebbero essere chiaramente
preannunciati e condivisi.
Ridurre la quota di reddito nazionale che va in spesa pubblica è
essenziale, perché è l’unica strada per ridurre gli sprechi assurdi
che in essa trovano copertura e per ridurre le
imposte, rilanciando veramente la crescita, che anche nelle previsioni del
governo rimarrà debole, sotto il 2 per cento, per tutti i prossimi
quattro anni. Di fronte all’enorme bisogno di ridimensionamento e
ristrutturazione qualitativa che ha la spesa pubblica italiana, affermare che
non avremo bisogno di manovre di risanamento è un’affermazione
mistificatoria: significa solo rassicurare gli italiani che se continueranno
a pagare così tante tasse la politica potrà continuare a spendere
gli stessi ammontari negli stessi
modi. Vorremmo invece veder realizzati i virtuosi saldi del Dpef assieme a manovre di risanamento strutturali di
vasta portata. Quelle che Padoa-Schioppa promise all’inizio del suo
ministero, quando disse di non voler far tagli che non fossero riforme.
La terza debolezza sta ovviamente nel fatto che il Dpef
dà gli obiettivi di finanza pubblica, ma non ci rassicura sulla
capacità di realizzarli. Da questo punto di vista il governo mostra
anzi grande difficoltà proprio su uno dei capitoli più
importanti: le pensioni. In materia mi limito a due osservazioni. La prima
è che se l’abolizione dello scalone comporterà dei costi,
questi non paiono contabilizzati nei numeri del Dpef.
Perciò aver visto incepparsi la trattativa con i sindacati sulle
pensioni proprio in contemporanea al varo degli
obiettivi di finanza pubblica rende questi ultimi meno credibili. La seconda
riguarda il metodo con cui il governo mostra di voler decidere sulle
pensioni: una trattativa ad oltranza con i sindacati, come si trattasse degli
stipendi del settore pubblico.
Al tavolo delle trattative non sono rappresentati adeguatamente gli interessi
in gioco nella questione delle pensioni. La mancanza delle cosiddette
«generazioni future» che sono poi anche i giovani che stanno affacciandosi
adesso al mondo del lavoro è solo l’assenza più clamorosa. I
sindacalisti che tengono inchiodati i ministri ai tavoli notturni non sono
nemmeno legittimati a trattare per tutte le categorie di lavoratori pensionandi e pensionati, e meno ancora per i
contribuenti, i risparmiatori, gli operatori economici che dovranno subire le
conseguenze dirette e indirette delle decisioni che verranno
prese. Il Parlamento stesso rischia di vedersi presentare un piatto
già cucinato e politicamente intoccabile. Occorre un salto di
qualità nel metodo, sia per rassicurarci circa i promessi saldi di
finanza pubblica, sia per migliorare la civiltà dello stile di
conduzione della politica economica del Paese.
franco.bruni@unibocconi.it
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