HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro
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Galateo
overo de' costumi
di Giovanni
della Casa
[ I ] Con
ciò sia cosa che tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la
maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita
mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti
mostrando quando un luogo e quando altro, dove io, come colui che gli ho
sperimentati, temo che tu, caminando per essa, possi agevolmente o cadere, o
come che sia, errare: acciò che tu, ammaestrato da me, possi tenere la
diritta via con la salute dell'anima tua e con laude et onore della tua
orrevole e nobile famiglia. E perciò che la tua tenera età non
sarebbe sufficiente a ricevere più prencipali e più sottili
ammaestramenti, riserbandogli a più convenevol tempo, io incomincerò
da quello che per aventura potrebbe a molti parer frivolo: cioè quello
che io stimo che si convenga di fare per potere, in comunicando et in usando
con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera: il che non di
meno è o virtù o cosa a virtù somigliante. E come che
l'esser liberale o constante o magnanimo sia per sé sanza alcun fallo
più laudabil cosa e maggiore che non è l'essere avenente e
costumato, non di meno forse che la dolcezza de' costumi e la convenevolezza
de' modi e delle maniere e delle parole giovano non meno a' possessori di esse
che la grandezza dell'animo e la sicurezza altresì a' loro possessori
non fanno: perciò che queste si convengono essercitare ogni dì
molte volte, essendo a ciascuno necessario di usare con gli altri uomini ogni
dì et ogni dì favellare con esso loro; ma la giustitia, la
fortezza e le altre virtù più nobili e maggiori si pongono in
opera più di rado; né il largo et il magnanimo è astretto di
operare ad ogni ora magnificamente, anzi non è chi possa ciò fare
in alcun modo molto spesso; e gli animosi uomini e sicuri similmente rade volte
sono constretti a dimostrare il valore e la virtù loro con opera.
Adunque, quanto quelle di grandezza e quasi di peso vincono queste, tanto
queste in numero et in ispessezza avanzano quelle: e potre' ti, se egli stesse
bene di farlo, nominare di molti, i quali, essendo per altro di poca stima,
sono stati, e tuttavia sono, apprezzati assai per cagion della loro piacevole e
gratiosa maniera solamente; dalla quale aiutati e sollevati, sono pervenuti ad
altissimi gradi, lasciandosi lunghissimo spatio adietro coloro che erano dotati
di quelle più nobili e più chiare virtù che io ho dette. E
come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di
coloro co' quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi
incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi. Per la qual cosa, quantunque
niuna pena abbiano ordinata le leggi alla spiacevolezza et alla rozzezza de'
costumi (sì come a quel peccato che loro è paruto leggieri, e
certo egli non è grave), noi veggiamo non di meno che la natura istessa
ce ne castiga con aspra disciplina, privandoci per questa cagione del consortio
e della benivolenza degli uomini: e certo, come i peccati gravi più nuocono,
così questo leggieri più noia o noia almeno più spesso; e
sì come gli uomini temono le fiere salvatiche e di alcuni piccioli
animali, come le zanzare sono e le mosche, niuno timore hanno, e non di meno,
per la continua noia che eglino ricevono da loro, più spesso si
ramaricano di questi che di quelli non fanno, così adiviene che il
più delle persone odia altrettanto gli spiacevoli uomini et i
rincrescevoli quanto i malvagi, o più. Per la qual cosa niuno può
dubitare che a chiunque si dispone di vivere non per le solitudini o ne'
romitorii, ma nelle città e tra gli uomini, non sia utilissima cosa il
sapere essere ne' suoi costumi e nelle sue maniere gratioso e piacevole; sanza
che le altre virtù hanno mestiero di più arredi, i quali
mancando, esse nulla o poco adoperano; dove questa, sanza altro patrimonio,
è ricca e possente, sì come quella che consiste in parole et in
atti solamente.
[ II ] Il che
acciò che tu più agevolmente apprenda di fare, dèi sapere
che a te convien temperare et ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio,
ma secondo il piacer di coloro co' quali tu usi, et a quello indirizzargli; e
ciò si vuol fare mezzanamente, perciò che chi si diletta di
troppo secondare il piacere altrui nella conversatione e nella usanza, pare più
tosto buffone o giucolare, o per aventura lusinghiero, che costumato
gentiluomo. Sì come, per lo contrario, chi di piacere o di dispiacere
altrui non si dà alcun pensiero è zotico e scostumato e
disavenente. Adunque, con ciò sia che le nostre maniere sieno allora
dilettevoli, quando noi abbiamo risguardo all'altrui e non al nostro diletto,
se noi investigheremo quali sono quelle cose che dilettano generalmente il
più degli uomini, e quali quelle che noiano, potremo agevolmente trovare
quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro e quali siano da
eleggersi. Diciamo adunque che ciascun atto che è di noia ad alcuno de'
sensi, e ciò che è contrario all'appetito, et oltre a ciò
quello che rappresenta alla imaginatione cose male da lei gradite, e similmente
ciò che lo 'ntelletto have a schifo, spiace e non si dèe fare.
[ III ]
Perciò che non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le
cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e
non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma etiandio il ridurle nella
imaginatione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone. E
perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si
pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si
conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali
nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza;
né pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani
dinanzi ad onesta brigata, con ciò sia che la cagione per la quale egli
se le lava rappresenti nella imagination di coloro alcuna bruttura. E per la
medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per
via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a' compagni e
mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa
puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instantia, pure
accostandocela al naso e dicendo: -Deh, sentite di gratia come questo pute!-;
anzi doverebbon dire: -Non lo fiutate, perciò che pute-. E come questi e
simili modi noiano quei sensi a' quali appartengono, così il dirugginare
i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre et il fregar
ferro spiace agli orecchi, e dèesene l'uomo astenere più che
può. E non sol questo; ma dèesi l'uomo guardare di cantare,
specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme; dalla qual cosa
pochi sono che si riguardino, anzi, pare che chi meno è a ciò
atto naturalmente più spesso il faccia. Sono ancora di quelli che,
tossendo e starnutendo, fanno sì fatto lo strepito che assordano altrui;
e di quelli che, in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel
viso a' circonstanti; e truovasi anco tale che, sbadigliando, urla o ragghia
come asino; e tale con la bocca tuttavia aperta vuol pur dire e seguitare suo
ragionamento e manda fuori quella voce (o più tosto quel romore) che fa
il mutolo quando egli si sforza di favellare: le quali sconce maniere si
voglion fuggire come noiose all'udire et al vedere. Anzi dèe l'uomo
costumato astenersi dal molto sbadigliare, oltra le predette cose, ancora
perciò che pare che venga da un cotal rincrescimento e da tedio, e che
colui che così spesso sbadiglia amerebbe di esser più tosto in
altra parte che quivi, e che la brigata, ove egli è, et i ragionamenti
et i modi loro gli rincrescano. E certo, come che l'uomo sia il più del
tempo acconcio a sbadigliare, non di meno, se egli è soprapreso da alcun
diletto o da alcun pensiero, egli non ha mente di farlo; ma, scioperato essendo
et accidioso, facilmente se ne ricorda; e perciò, quando altri sbadiglia
colà dove siano persone ociose e sanza pensiero, tutti gli altri, come
tu puoi aver veduto far molte volte, risbadigliano incontinente, quasi colui
abbia loro ridotto a memoria quello che eglino arebbono prima fatto, se essi se
ne fossino ricordati. Et ho io sentito molte volte dire a' savi litterati che
tanto viene a dire in latino “sbadigliante” quanto 'neghittoso' e 'trascurato'.
Vuolsi adunque fuggire questo costume, spiacevole -come io ho detto- agli occhi
et all'udire et allo appetito; perciò che, usandolo, non solo facciamo
segno che la compagnia con la qual dimoriamo ci sia poco a grado, ma diamo
ancora alcun indicio cattivo di noi medesimi, cioè di avere addormentato
animo e sonnacchioso; la qual cosa ci rende poco amabili a coloro co' quali
usiamo. Non si vuole anco, soffiato che tu ti sarai il naso, aprire il
moccichino e guatarvi entro, come se perle o rubini ti dovessero esser discesi
dal cielabro, che sono stomachevoli modi et atti a fare, non che altri ci ami,
ma che se alcuno ci amasse, si dis[inn]amori: sì come testimonia lo
spirito del Labirinto
(chi che egli si fosse), il quale, per ispegnere l'amore onde messer Giovanni
Boccaccio ardea di quella sua male da lui conosciuta donna, gli racconta come
ella covava la cenere sedendosi in su le calcagna e tossiva et isputava
farfalloni. Sconvenevol costume è anco, quando alcuno mette il naso in
sul bicchier del vino che altri ha a bere, o su la vivanda che altri dèe
mangiare, per cagion di fiutarla; anzi non vorre' io che egli fiutasse pur
quello che egli stesso dèe bersi o mangiarsi, poscia che dal naso
possono cader di quelle cose che l'uomo ave a schifo, etiandio che allora non
caggino. Né per mio consiglio porgerai tu a bere altrui quel bicchier di vino
al quale tu arai posto bocca et assaggiatolo, salvo se egli non fosse teco
più che domestico; e molto meno si dèe porgere pera o altro
frutto nel quale tu arai dato di morso. E non guardare perché le sopra dette
cose ti paiano di picciolo momento, perciò che anco le leggieri
percosse, se elle sono molte, sogliono uccidere.
[ IV ] E sappi che
in Verona ebbe già un Vescovo molto savio di scrittura e di senno
naturale, il cui nome fu messer Giovanni Matteo Giberti, il quale fra gli altri
suoi laudevoli costumi si fu cortese e liberale assai a' nobili gentiluomini
che andavano e venivano a lui, onorandogli in casa sua con magnificenza non
soprabondante, ma mezzana, quale conviene a cherico. Avenne che, passando in
quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte Ricciardo, egli si
dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui, la quale
era per lo più di costumati uomini e scientiati. E perciò che
gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo
commendarono et apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne' suoi
modi; del quale essendosi il Vescovo -che intendente signore era- avveduto et
avutone consiglio con alcuno de' suoi più domestichi, proposero che
fosse da farne aveduto il Conte, come che temessero di fargliene noia. Per la
qual cosa, avendo già il Conte preso commiato e dovendosi partir la
matina vegnente, il Vescovo, chiamato un suo discreto famigliare, gli impose
che, montato a cavallo col Conte, per modo di accompagnarlo, se ne andasse con
esso lui alquanto di via; e, quando tempo gli paresse, per dolce modo gli
venisse dicendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto
famigliare uomo già pieno d'anni, molto scientiato et oltre ad ogni
credenza piacevole e ben parlante e di gratioso aspetto, e molto avea de' suoi dì
usato alle corti de' gran signori: il quale fu (e forse ancora è)
chiamato m(esser) Galateo, a petition del quale e per suo consiglio presi io da
prima a dettar questo presente trattato. Costui, cavalcando col Conte, lo ebbe
assai tosto messo in piacevoli ragionamenti; e di uno in altro passando, quando
tempo gli parve di dover verso Verona tornarsi, pregandonelo il Conte et
accommiatandolo, con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo:
-Signor mio, il Vescovo mio signore rende a V(ostra) S(ignoria) infinite gratie
dell'onore che egli ha da voi ricevuto; il quale degnato vi siete di entrare e
di soggiornar nella sua picciola casa. Et oltre a ciò, in riconoscimento
di tanta cortesia da voi usata verso di lui, mi ha imposto che io vi faccia un dono
per sua parte, e caramente vi manda pregando che vi piaccia di riceverlo con
lieto animo; et il dono è questo. Voi siete il più leggiadro et
il più costumato gentiluomo che mai paresse al Vescovo di vedere; per la
qual cosa, avendo egli attentamente risguardato alle vostre maniere et
essaminatole partitamente, niuna ne ha tra loro trovata che non sia sommamente
piacevole e commendabile, fuori solamente un atto difforme che voi fate con le
labra e con la bocca, masticando alla mensa con un nuovo strepito molto spiacevole
ad udire. Questo vi manda significando il Vescovo e pregandovi che voi
v'ingegniate del tutto di rimanervene e che voi prendiate in luogo di caro dono
la sua amorevole riprensione et avertimento; perciò che egli si rende
certo niuno altro al mondo essere che tale presente vi facesse. -Il Conte, che
del suo difetto non si era ancora mai aveduto, udendoselo rimproverare,
arrossò così un poco, ma, come valente uomo, assai tosto ripreso
cuore, disse: -Direte al Vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli
uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più
ricchi sarebbono che essi non sono. E di tanta sua cortesia e liberalità
verso di me ringratiatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto
sanza dubbio per innanzi bene e diligentemente mi guarderò; et andatevi
con Dio.
[ V ] Ora, che
crediamo noi che avesse il Vescovo e la sua nobile brigata detto a coloro che
noi veggiamo talora a guisa di porci col grifo nella broda tutti abbandonati
non levar mai alto il viso e mai non rimuover gli occhi, e molto meno le mani,
dalle vivande? E con ambedue le gote gonfiate, come se essi sonassero la tromba
o soffiassero nel fuoco, non mangiare, ma trangugiare: i quali, imbrattandosi
le mani poco meno che fino al gomito, conciano in guisa le tovagliuole che le
pezze degli agiamenti sono più nette? Con le quai tovagliuole anco molto
spesso non si vergognano di rasciugare il sudore che, per lo affrettarsi e per
lo soverchio mangiare, gocciola e cade loro dalla fronte e dal viso e d'intorno
al collo, et anco di nettarsi con esse il naso, quando voglia loro ne viene?
Veramente questi così fatti non meritarebbono di essere ricevuti, non
pure nella purissima casa di quel nobile Vescovo, ma doverebbono essere
scacciati per tutto là dove costumati uomeni fossero. Dèe adunque
l'uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola
ne rimanga imbrattata, perciò che ella è stomachevole a vedere;
et anco il fregarle al pane che egli dèe mangiare, non pare polito
costume. I nobili servidori, i quali si essercitano nel servigio della tavola,
non si deono per alcuna conditione grattare il capo né altrove dinanzi al loro
signore quando e' mangia, né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo
che si cuoprono, né pure farne sembiante, sì come alcuni trascurati
famigliari fanno, tenendosele in seno, o di dirieto nascoste sotto a' panni; ma
le deono tenere in palese e fuori d'ogni sospetto, et averle con ogni diligenza
lavate e nette, sanza avervi sù pure un segnuzzo di bruttura in alcuna
parte. E quelli che arrecano i piattelli o porgono la coppa, diligentemente si
astenghino in quell'ora da sputare, da tossire e, più, da starnutire,
perciò che in simili atti tanto vale, e così noia i signori, la
sospettione, quanto la certezza; e perciò procurino i famigliari di non
dar cagione a' padroni di sospicare, perciò che quello che poteva
adivenire così noia come se egli fosse avenuto. E se talora averai posto
a scaldare pera d'intorno al focolare, o arrostito pane in su la brage, tu non
vi dèi soffiare entro (perché egli sia alquanto ceneroso), perciò
che si dice che mai vento non fu sanza acqua; anzi tu lo dèi
leggiermente percuotere nel piattello o con altro argomento scuoterne la
cenere. Non offerirai il tuo moccichino (come che egli sia di bucato) a
persona: perciò che quegli a cui tu lo proferi nol sa, e potrebbelsi
avere a schifo. Quando si favella con alcuno, non se gli dèe l'uomo
avicinare sì che se gli aliti nel viso, perciò che molti troverai
che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore non ne
venisse. Questi modi et altri simili sono spiacevoli e vuolsi schifargli,
perciò che posson noiare alcuno de' sentimenti di coloro co' quali
usiamo, come io dissi di sopra. Facciamo ora mentione di quelli che, sanza noia
d'alcuno sentimento, spiacciono allo appetito delle più persone quando
si fanno.
[ VI ] Tu
dèi sapere che gli uomini naturalmente appetiscono più cose e
varie, perciò che alcuni vogliono sodisfare all'ira, alcuni alla gola,
altri alla libidine et altri alla avaritia et altri ad altri appetiti; ma, in
comunicando solamente infra di loro, non pare che chiegghino, né possano
chiedere né appetire, alcuna delle sopradette cose, con ciò sia che elle
non consistano nelle maniere o ne' modi e nel favellar delle persone, ma in
altro. Appetiscono adunque quello che può conceder loro questo atto del
comunicare insieme; e ciò pare che sia benivolenza, onore e sollazzo, o
alcuna altra cosa a queste simigliante. Per che non si dèe dire né fare
cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar coloro co'
quali si dimora. Laonde poco gentil costume pare che sia quello che molti
sogliono usare, cioè di volentieri dormirsi colà dove onesta
brigata si segga e ragioni, perciò che, così facendo, dimostrano
che poco gli apprezzino e poco lor caglia di loro e de' loro ragionamenti,
sanza che chi dorme, massimamente stando a disagio, come a coloro convien fare,
suole il più delle volte fare alcun atto spiacevole ad udire o a vedere:
e bene spesso questi cotali si risentono sudati e bavosi. E per questa cagione
medesima il drizzarsi ove gli altri seggano e favellino e passeggiar per la
camera pare noiosa usanza. Sono ancora di quelli che così si dimenano e
scontorconsi e prostendonsi e sbadigliano, rivolgendosi ora in su l'un lato et
ora in su l'altro, che pare che li pigli la febre in quell'ora: segno evidente
che quella brigata con cui sono rincresce loro. Male fanno similmente coloro
che ad ora ad ora si traggono una lettera della scarsella e la leggono; peggio
ancora fa chi, tratte fuori le forbicine, si dà tutto a tagliarsi le
unghie, quasi che egli abbia quella brigata per nulla e però si procacci
d'altro sollazzo per trapassare il tempo. Non si deono anco tener quei modi che
alcuni usano: cioè cantarsi fra' denti o sonare il tamburino con le dita
o dimenar le gambe; perciò che questi così fatti modi mostrano
che la persona sia non curante d'altrui. Oltre a ciò, non si vuol l'uom
recare in guisa che egli mostri le spalle altrui, né tenere alto l'una gamba
sì che quelle parti che i vestimenti ricuoprono si possano vedere:
perciò che cotali atti non si soglion fare, se non tra quelle persone
che l'uom non riverisce. Vero è che se un signor ciò facesse
dinanzi ad alcuno de' suoi famigliari, o ancora in presenza d'un amico di minor
conditione di lui, mostrerebbe non superbia, ma amore e dimestichezza.
Dèe l'uomo recarsi sopra di sé e non appoggiarsi né aggravarsi addosso
altrui; e, quando favella, non dèe punzecchiare altrui col gomito, come
molti soglion fare ad ogni parola, dicendo: -Non dissi io vero?- -Eh, voi?-
-Eh, messer tale?- (e tuttavia vi frugano col gomito).
[ VII ] Ben vestito
dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età,
perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente: e
perciò solevano i cittadini di Padova prendersi ad onta quando alcun
gentiluomo vinitiano andava per la loro città in saio, quasi gli fosse
aviso di essere in contado. E non solamente vogliono i vestimenti essere di
fini panni, ma si dèe l'uomo sforzare di ritrarsi più che
può al costume degli altri cittadini, e lasciarsi volgere alle usanze;
come che forse meno commode o meno leggiadre che le antiche per aventura non
erano, o non gli parevano a lui. E se tutta la tua città averà
tonduti i capelli, non si vuol portar la zazzera, o, dove gli altri cittadini
siano con la barba, tagliarlati tu: perciò che questo è un
contradire agli altri, la qual cosa (cioè il contradire nel costumar con
le persone) non si dèe fare, se non in caso di necessità, come
noi diremo poco appresso, imperò che questo innanzi ad ogni altro
cattivo vezzo ci rende odiosi al più delle persone. Non è adunque
da opporsi alle usanze comuni in questi cotali fatti, ma da secondarle
mezzanamente, acciò che tu solo non sii colui che nelle tue contrade
abbia la guarnaccia lunga fino in sul tallone, ove tutti gli altri la portino
cortissima poco più giù che la cintura. Perciò che, come
aviene a chi ha il viso forte ricagnato, che altro non è a dire che
averlo contra l'usanza, secondo la quale la natura gli fa ne' più, che
tutta la gente si rivolge a guatar pur lui; così interviene a coloro che
vanno vestiti non secondo l'usanza de' più, ma secondo l'appetito loro,
e con belle zazzere lunghe, o che la barba hanno raccorciata o rasa, o che
portano le cuffie o certi berrettoni grandi alla tedesca; ché ciascuno si volge
a mirarli e fassi loro cerchio, come a coloro i quali pare che abbiano preso a
vincere la pugna incontro a tutta la contrada ove essi vivono. Vogliono essere
ancora le veste assettate e che bene stiano alla persona, perché coloro che
hanno le robe ricche e nobili, ma in maniera sconcie che elle non paiono fatte
a lor dosso, fanno segno dell'una delle due cose: o che eglino niuna
consideratione abbiano di dover piacere né dispiacere alle genti, o che non conoscano
che si sia né gratia né misura alcuna. Costoro adunque co' loro modi generano
sospetto negli animi delle persone con le quali usano che poca stima facciano
di loro; e perciò sono mal volentier ricevuti nel più delle
brigate, e poco cari avutivi.
[ VIII ] Sono poi
certi altri che più oltra procedono che la sospettione, anzi vengono a'
fatti et alle opere sì che con esso loro non si può durare in
guisa alcuna, perciò che eglino sempre sono l'indugio, lo sconcio et il
disagio di tutta la compagnia, i quali non sono mai presti, mai sono in assetto
né mai a lor senno adagiati. Anzi, quando ciascuno è per ire a tavola e
sono preste le vivande e l'acqua data alle mani, essi chieggono che loro sia
portato da scrivere o da orinare o non hanno fatto essercitio, e dicono: -Egli
è buon'ora!- -Ben potete indugiare un poco sì- -Che fretta
è questa stamane?- e tengono impacciata tutta la brigata, sì come
quelli che hanno risguardo solo a se stessi et all'agio loro, e d'altrui niuna
consideratione cade loro nell'animo. Oltre a ciò, vogliono in ciascuna
cosa essere avantaggiati dagli altri, e coricarsi ne' migliori letti e nelle
più belle camere, e sedersi ne' più comodi e più orrevoli
luoghi, e prima degli altri essere serviti et adagiati; a' quali niuna cosa
piace già mai, se non quello che essi hanno divisato, a tutte l'altre
torcono il grifo, e par loro di dovere essere attesi a mangiare, a cavalcare, a
giucare, a sollazzare. Alcuni altri sono sì bizzarri e ritrosi e strani,
che niuna cosa a lor modo si può fare, e sempre rispondono con mal viso,
che che loro si dica, e mai non rifinano di garrire a' fanti loro e di
sgridargli, e tengono in continua tribolatione tutta la brigata: -A bell'ora mi
chiamasti stamane!- -Guata qui, come tu nettasti ben questa scarpetta!- et
anco: -Non venisti meco alla chiesa; bestia, io non so a che io mi tenga che io
non ti rompa cotesto mostaccio!-; modi tutti sconvenevoli e dispettosi, i quali
si deono fuggire come la morte, perciò che, quantunque l'uomo avesse
l'animo pieno di umiltà, e tenesse questi modi non per malitia, ma per
trascuraggine e per cattivo uso, non di meno, perché egli si mostrerebbe
superbo negli atti di fuori, converrebbe ch'egli fosse odiato dalle persone,
imperò che la superbia non è altro che il non istimare altrui, e
(come io dissi da principio) ciascuno appetisce di essere stimato, ancora che
egli no 'l vaglia. Egli fu, non ha gran tempo, in Roma un valoroso uomo e
dotato di acutissimo ingegno e di profonda scienza, il quale ebbe nome m(esser)
Ubaldino Bandinelli. Costui solea dire che qualora egli andava o veniva da
palagio, come che le vie fossero sempre piene di nobili cortigiani e di prelati
e di signori e parimenti di poveri uomini e di molta gente mezzana e minuta,
non di meno a lui non parea d'incontrar mai persona che da più fosse, né
da meno, di lui: e sanza fallo pochi ne poteva vedere che quello valessero che
egli valeva, avendo risguardo alla virtù di lui, che fu grande fuor di
misura; ma tuttavia gli uomini non si deono misurare in questi affari con
sì fatto braccio, e deonsi più tosto pesare con la stadera del
mugnaio che con la bilancia dell'orafo; et è convenevol cosa lo esser
presto di accettarli non per quello che essi veramente vagliono, ma, come si fa
delle monete, per quello che corrono. Niuna cosa è adunque da fare nel
cospetto delle persone alle quali noi desideriamo di piacere, che mostri
più tosto signoria che compagnia, anzi vuole ciascun nostro atto avere
alcuna signification di riverenza e di rispetto verso la compagnia nella quale
siamo. Per la qual cosa, quello che fatto a convenevol tempo non è
biasimevole, per rispetto al luogo et alle persone è ripreso: come il
dir villania a' famigliari e lo sgridargli (della qual cosa facemmo di sopra
mentione) e molto più il battergli, con ciò sia cosa che
ciò fare è un imperiare et essercitare sua giurisdittione; la
qual cosa niuno suol fare dinanzi a coloro ch'egli riverisce, sanza che se ne
scandaleza la brigata e guastasene la conversatione, e maggiormente se altri
ciò farà a tavola, che è luogo d'allegrezza e non di
scandalo. Sì che cortesemente fece Currado Gianfigliazzi di non
moltiplicare in novelle con Chichibio per non turbare i suoi forestieri, come
che egli grave castigo avesse meritato, avendo più tosto voluto
dispiacere al suo signore che alla Brunetta; e se Currado avesse fatto ancora
meno schiamazzo che non fece, più sarebbe stato da commendare, ché
già non conveniva chiamar messer Domenedio che entrasse per lui
mallevadore delle sue minaccie, sì come egli fece. Ma, tornando alla
nostra materia, dico che non istà bene che altri si adiri a tavola, che
che si avenga; et adirandosi no 'l dèe mostrare, né del suo cruccio
dèe fare alcun segno, per la cagion detta dinanzi, e massimamente se tu
arai forestieri a mangiar con esso teco, perciò che tu gli hai chiamati
a letitia, et ora gli attristi; con ciò sia che, come gli agrumi che
altri mangia, te veggente, allegano i denti anco a te, così il vedere
che altri si cruccia turba noi.
[ IX ] Ritrosi sono
coloro che vogliono ogni cosa al contrario degli altri, sì come il
vocabolo medesimo dimostra; ché tanto è a dire “a ritroso” quanto “a
rovescio”. Come sia adunque utile la ritrosia a prender gli animi delle persone
et a farsi ben volere, lo puoi giudicare tu stesso agevolmente, poscia che ella
consiste in opporsi al piacere altrui, il che suol fare l'uno inimico
all'altro, e non gli amici infra di loro. Per che, sforzinsi di schifar questo
vitio coloro che studiano di essere cari alle persone, perciò che egli
genera non piacere né benivolenza, ma odio e noia: anzi conviensi fare
dell'altrui voglia suo piacere, dove non ne segua danno o vergogna, et in
ciò fare sempre e dire più tosto a senno d'altri che a suo. Non
si vuole essere né rustico né strano, ma piacevole e domestico, perciò
che niuna differenza sarebbe dalla mortine al pungitopo, se non fosse che l'una
è domestica e l'altro salvatico. E sappi che colui è piacevole i
cui modi sono tali nell'usanza comune, quali costumano di tenere gli amici
infra di loro, là dove chi è strano pare in ciascun luogo
“straniero”, che tanto viene a dire come “forestiero”; sì come i
domestici uomini, per lo contrario, pare che siano ovunque vadano conoscenti et
amici di ciascuno. Per la qual cosa conviene che altri si avezzi a salutare e
favellare e rispondere per dolce modo e dimostrarsi con ogniuno quasi
terrazzano e conoscente. Il che male sanno fare alcuni che a nessuno mai fanno
buon viso e volentieri ad ogni cosa dicon di no e non prendono in grado né
onore né carezza che loro si faccia, a guisa di gente, come detto è,
straniera e barbara: non sostengono di esser visitati et accompagnati e non si
rallegrano de' motti né delle piacevolezze, e tutte le proferte rifiutano.
-Messer tale m'impose dianzi che io vi salutassi per sua parte- -Che ho io a
fare de' suoi saluti?- e -Messer cotale mi dimandò come voi stavate-
-Venga, e sì mi cerchi il polso!-: sono adunque costoro meritamente poco
cari alle persone. Non istà bene di essere maninconoso né astratto
là dove tu dimori; e come che forse ciò sia da comportare a coloro
che per lungo spatio di tempo sono avezzi nelle speculationi delle arti che si
chiamano, secondo che io ho udito dire, liberali, agli altri sanza alcun fallo
non si dèe consentire: anzi, quelli stessi, qualora vogliono pensarsi,
farebbono gran senno a fuggirsi dalla gente.
[ X ] L'esser
tenero e vezzoso anco si disdice assai, e massimamente agli uomini,
perciò che l'usare con sì fatta maniera di persone non pare
compagnia, ma servitù: e certo alcuni se ne truovano che sono tanto
teneri e fragili, che il vivere e dimorar con esso loro niuna altra cosa
è che impacciarsi fra tanti sottilissimi vetri: così temono essi
ogni leggier percossa, e così conviene trattargli e riguardargli. I
quali così si crucciano, se voi non foste così presto e sollecito
a salutargli, a visitargli, a riverirgli et a risponder loro, come un altro
farebbe di una ingiuria mortale; e se voi non date loro così ogni titolo
appunto, le querele asprissime e le inimicitie mortali nascono di presente:
-Voi mi diceste “messere” e non “signore”!- e -Perché non mi dite voi “V(ostra)
S(ignoria)”? Io chiamo pur voi il “signor tale”, io!- et anco -Non ebbi il mio
luogo a tavola- et -Ieri non vi degnaste di venir per me a casa, come io venni
a trovar voi l'altr'ieri: questi non sono modi da tener con un mio pari-.
Costoro veramente recano le persone a tale che non è chi gli possa patir
di vedere, perciò che troppo amano sé medesimi fuor di misura et, in
ciò occupati, poco di spatio avanza loro di potere amare altrui. Sanza che,
come io dissi da principio, gli uomini richieggono che nelle maniere di coloro
co' quali usano sia quel piacere che può in cotale atto essere; ma il
dimorare con sì fatte persone fastidiose, l'amicitia delle quali
sì leggiermente, a guisa d'un sottilissimo velo, si squarcia, non
è usare, ma servire, e perciò non solo non diletta, ma ella
spiace sommamente: questa tenerezza adunque e questi vezzosi modi si voglion
lasciare alle femine.
[ XI ] Nel
favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente nella materia che si
propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli
uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i
ragionamenti et il ragionatore insieme. Non si dèe anco pigliar tema
molto sottile né troppo isquisito, perciò che con fatica s'intende dai
più. Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale che niuno
della brigata ne arrossisca o ne riceva onta. Né di alcuna bruttura si
dèe favellare, come che piacevole cosa paresse ad udire, perciò
che alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non
nelle oneste cose. Né contra Dio né contr'a' Santi, né dadovero né motteggiando
si dèe mai dire alcuna cosa, quantunque per altro fosse leggiadra o
piacevole: il qual peccato assai sovente commise la nobile brigata del nostro
messer Giovan Boccaccio ne' suoi ragionamenti, sì che ella merita bene
di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona. E nota che il parlar
di Dio gabbando non solo è difetto di scelerato uomo et empio, ma egli è
ancora vitio di scostumata persona, et è cosa spiacevole ad udire: e
molti troverai che si fuggiranno di là dove si parli di Dio
sconciamente. E non solo di Dio si convien parlare santamente, ma in ogni
ragionamento dèe l'uomo schifare quanto può che le parole non
siano testimonio contra la vita e le opere sue, perciò che gli uomini
odiano in altrui etiandio i loro vitii medesimi. Simigliantemente si disdice il
favellare delle cose molto contrarie al tempo et alle persone che stanno ad
udire etiandio di quelle che, per sé et a suo tempo dette, sarebbono e buone e
sante. Non si raccontino adunque le prediche di frate Nastagio alle giovani
donne, quando elle hanno voglia di scherzarsi, come quel buono uomo che
abitò non lungi da te, vicino a San Brancatio, faceva. Né a festa né a tavola
si raccontino istorie maninconose, né di piaghe né di malattie né di morti o di
pestilentie, né di altra dolorosa materia si faccia mentione o ricordo: anzi,
se altri in sì fatte rammemorationi fosse caduto, si dèe per
acconcio modo e dolce scambiargli quella materia e mettergli per le mani
più lieto e più convenevole soggetto. Quantunque, secondo che io
udii già dire ad un valente uomo nostro vicino, gli uomini abbiano molte
volte bisogno sì di lagrimare come di ridere: e per tal cagione egli
affermava essere state da principio trovate le dolorose favole che si
chiamarono tragedie, acciò che, raccontate ne' teatri (come in quel
tempo si costumava di fare), tirassero le lagrime agli occhi di coloro che
avevano di ciò mestiere; e così eglino, piangendo, della loro
infirmità guarissero. Ma, come ciò sia, a noi non istà
bene di contristare gli animi delle persone con cui favelliamo, massimamente
colà dove si dimori per aver festa e sollazzo, e non per piagnere: ché,
se pure alcuno è che infermi per vaghezza di lagrimare, assai leggier
cosa fia di medicarlo con la mostarda forte, o porlo in alcun luogo al fumo.
Per la qual cosa in niuna maniera si può scusare il nostro Filostrato
della proposta che egli fece piena di doglia e di morte a compagnia di nessuna
altra cosa vaga che di letitia: conviensi adunque fuggire di favellare di cose
maninconose, e più tosto tacersi. Errano parimente coloro che altro non
hanno in bocca già mai che i loro bambini e la donna e la balia loro:
-Il fanciullo mio mi fece ieri sera tanto ridere!- Udite:...- -Voi non vedeste
mai il più dolce figliuolo di Momo mio!- -La donna mia è
cotale...- -La Cecchina disse... Certo voi no 'l credereste del cervello
ch'ella ha!-. Niuno è sì scioperato che possa né rispondere né
badare a sì fatte sciocchezze, e viensi a noia ad ogniuno.
[ XII ] Male fanno
ancora quelli che tratto tratto si pongono a recitare i sogni loro con tanta
affettione e facendone sì gran maraviglia che è un isfinimento di
cuore a sentirli; massimamente ché costoro sono per lo più tali che
perduta opera sarebbe lo ascoltare qualunque s'è la loro maggior
prodezza, fatta etiandio quando vegghiarono! Non si dèe adunque noiare
altri con sì vile materia come i sogni sono, spetialmente sciocchi, come
l'uom gli fa generalmente. E come che io senta dire assai spesso che gli
antichi savi lasciarono ne' loro libri più e più sogni scritti
con alto intendimento e con molta vaghezza, non perciò si conviene a noi
idioti, né al comun popolo, di ciò fare ne' suoi ragionamenti. E certo
di quanti sogni io abbia mai sentito riferire (come che io a pochi soffera di
dare orecchie), niuno me ne parve mai d'udire che meritasse che per lui si
rompesse silentio, fuori solamente uno che ne vide il buon messer Flaminio
Tomarozzo, gentiluomo romano, e non mica idiota né materiale, ma scientiato e
di acuto ingegno. Al quale, dormendo egli, pareva di sedersi nella casa di un
ricchissimo spetiale suo vicino, nella quale poco stante, qual che si fosse la
cagione, levatosi il popolo a romore, andava ogni cosa a ruba, e chi toglieva
un lattovaro e chi una confettione, e chi una cosa e chi altra, e mangiavalasi
di presente; sì che in poco d'ora né ampolla né pentola né bossolo né
alberello vi rimanea che vòto non fosse e rasciutto. Una guastadetta v'era
assai picciola, e tutta piena di un chiarissimo liquore, il quale molti
fiutarono, ma assaggiare non fu chi ne volesse. E non istette guari che egli
vide venire un uomo grande di statura, antico e con venerabile aspetto, il
quale, riguardando le scatole et il vasellamento dello spetial cattivello e
trovando quale vòto e quale versato e la maggior parte rotto, gli venne
veduto la guastadetta che io dissi: per che, postalasi a bocca, tutto quel
liquore si ebbe tantosto bevuto, sì che gocciola non ve ne rimase; e
dopo questo se ne uscì quindi, come gli altri avean fatto: della qual
cosa pareva a m(esser) Flaminio di maravigliarsi grandemente. Per che, rivolto
allo spetiale, gli addimandava: -Maestro, questi chi è? e per qual
cagione sì saporitamente l'acqua della guastadetta bevve egli tutta, la
quale tutti gli altri aveano rifiutata?- A cui parea che lo spetiale
rispondesse: -Figliuolo, questi è messer Domenedio; e l'acqua da lui
solo bevuta, e da ciascun altro, come tu vedesti, schifata e rifiutata, fu la
Discretione, la quale, sì come tu puoi aver conosciuto, gli uomini non
vogliono assaggiare per cosa del mondo-. Questi così fatti sogni dico io
bene potersi raccontare e con molta dilettatione e frutto ascoltare,
perciò che più si rassomigliano a pensiero di ben desta che a
visione di addormentata mente o virtù sensitiva che dir debbiamo; ma gli
altri sogni sanza forma e sanza sentimento, quali la maggior parte de' nostri
pari gli fanno (perciò che i buoni e gli scientiati sono, etiandio
quando dormono, migliori e più savi che i rei e che gl'idioti) si deono
dimenticare e da noi insieme col sonno licentiare.
[ XIII ] E quantunque
niuna cosa paia che si possa trovare più vana de' sogni, egli ce n'ha
pure una ancora più di loro leggiera, e ciò sono le bugie:
però che di quello che l'uomo ha veduto nel sogno pure è stato
alcuna ombra e quasi un certo sentimento, ma della bugia né ombra fu mai né
imagine alcuna. Per la qual cosa meno ancora si richiede tenere impacciati gli
orecchi e la mente di chi ci ascolta con le bugie che co' sogni, come che
queste alcuna volta siano ricevute per verità; ma a lungo andare i
bugiardi non solamente non sono creduti, ma essi non sono ascoltati, sì
come quelli le parole de' quali niuna sustanza hanno in sé, né più né
meno come s'eglino non favellassino, ma soffiassino. E sappi che che tu
troverai di molti che mentono, a niun cattivo fine tirando né di proprio loro
utile, né di danno o di vergogna altrui, ma perciò che la bugia per sé
piace loro, come chi bee non per sete, ma per gola del vino. Alcuni altri
dicono la bugia per vanagloria di se stessi, milantandosi e dicendo di avere le
maraviglie e di essere gran baccalari. Puossi ancora mentire tacendo,
cioè con gli atti e con l'opere; come tu puoi vedere che alcuni fanno,
che, essendo essi di mezzana conditione o di vile, usano tanta solennità
ne' modi loro e così vanno contegnosi e con sì fatta prorogativa
parlano, anzi parlamentano, ponendosi a sedere pro tribunali e pavoneggiandosi, che egli è
una pena mortale pure a vedergli. Et alcuni si truovano, i quali (non essendo
però di roba più agiati degli altri) hanno d'intorno al collo
tante collane d'oro e tante anella in dito e tanti fermagli in capo e su per li
vestimenti appiccati di qua e di là, che si disdirebbe al Sire di
Castiglione: le maniere de' quali sono piene di scede e di vanagloria, la quale
viene da superbia, procedente da vanità; sì che queste si deono
fuggire come spiacevoli e sconvenevoli cose. E sappi che in molte città
-e delle migliori- non si permette per le leggi che il ricco possa gran fatto
andare più splendidamente vestito che il povero, perciò che a'
poveri pare di ricevere oltraggio quando altri, etiandio pure nel sembiante,
dimostra sopra di loro maggioranza; sì che diligentemente è da
guardarsi di non cadere in queste sciocchezze. Né dèe l'uomo di sua
nobiltà né di suoi onori né di ricchezza e molto meno di senno vantarsi;
né i suoi fatti o le prodezze sue o de' suoi passati molto magnificare, né ad
ogni proposito annoverargli, come molti soglion fare: perciò che pare che
egli in ciò significhi di volere o contendere co' circostanti, se eglino
similmente sono o presumono di essere gentili et agiati uomini e valorosi, o di
soperchiarli, se eglino sono di minor conditione, e quasi rimproverar loro la
loro viltà e miseria: la qual cosa dispiace indifferentemente a
ciascuno. Non dèe adunque l'uomo avilirsi, né fuori di modo essaltarsi,
ma più tosto è da sottrarre alcuna cosa de' suoi meriti che punto
arrogervi con parole; perciò che ancora il bene, quando sia soverchio,
spiace. E sappi che coloro che aviliscono se stessi con le parole fuori di
misura e rifiutano gli onori che manifestamente loro s'appartengono, mostrano
in ciò maggiore superbia che coloro che queste cose, non ben bene loro
dovute, usurpano. Per la qual cosa si potrebbe per aventura dire che Giotto non
meritasse quelle commendationi che alcun crede per aver egli rifiutato di
essere chiamato maestro, essendo egli non solo maestro, ma, sanza alcun dubbio,
singular maestro, secondo quei tempi. Ora, che che egli biasimo o loda si
meritasse, certa cosa è che chi schifa quello che ciascun altro
appetisce mostra che egli in ciò tutti gli altri o biasimi o disprezzi;
e lo sprezzar la gloria e l'onore, che cotanto è dagli altri stimato,
è un gloriarsi et onorarsi sopra tutti gli altri, con ciò sia che
niuno di sano intelletto rifiuti le care cose, fuori che coloro i quali delle
più care di quelle stimano avere abondanza e dovitia. Per la qual cosa
né vantare ci debbiamo de' nostri beni, né farcene beffe, ché l'uno è
rimproverare agli altri i loro difetti, e l'altro schernire le loro
virtù; ma dèe di sé ciascuno, quanto può, tacere, o, se la
oportunità ci sforza a pur dir di noi alcuna cosa, piacevol costume
è di dirne il vero rimessamente, come io ti dissi di sopra. E
perciò coloro che si dilettano di piacere alla gente si deono astenere
ad ogni poter loro da quello che molti hanno in costume di fare, i quali
sì timorosamente mostrano di dire le loro openioni sopra qual si sia
proposta, che egli è un morire a stento il sentirgli, massimamente se
eglino sono per altro intendenti uomini e savi. -Signor, V(ostra) S(ignoria) mi
perdoni se io no'l saprò così dire: io parlerò da persona
materiale come io sono e, secondo il mio poco sapere, grossamente, e son certo
che la S(ignoria) V(ostra) si farà beffe di me; ma pure, per
ubidirla...-; e tanto penano e tanto stentano che ogni sottilissima quistione
si sarebbe diffinita con molto manco parole et in più brieve tempo:
perciò che mai non ne vengono a capo. Tediosi medesimamente sono e mentono
con gli atti nella conversatione et usanza loro alcuni che si mostrano infimi e
vili; et essendo loro manifestamente dovuto il primo luogo et il più
alto, tuttavia si pongono nell'ultimo grado; et è una fatica
incomparabile a sospingerli oltra, però che tratto tratto sono rinculati
a guisa di ronzino che aombri. Perché con costoro cattivo partito ha la brigata
alle mani qualora si giugne ad alcun uscio, perciò che eglino per cosa
del mondo non voglion passare avanti, anzi sì attraversano e tornano indietro,
e sì con le mani e con le braccia si schermiscono e difendono che ogni
terzo passo è necessario ingaggiar battaglia con esso loro e turbarne
ogni sollazzo e talora la bisogna che si tratta.
[ XIV ] E
perciò le cirimonie, le quali noi nominiamo, come tu odi, con vocabolo
forestiero, sì come quelli che il nostrale non abbiamo, però che
i nostri antichi mostra che non le conoscessero, sì che non poterono
porre loro alcun nome; le cirimonie, dico, secondo il mio giudicio, poco si
scostano dalle bugie e da' sogni, per la loro vanità, sì che bene
le possiamo accozzare insieme et accoppiare nel nostro trattato, poiché ci
è nata occasione di dirne alcuna cosa. Secondo che un buon uomo mi ha
più volte mostrato, quelle solennità che i cherici usano
d'intorno agli altari e negli ufficii divini e verso Dio e verso le cose sacre
si chiamano propriamente cirimonie: ma, poiché gli uomini cominciaron da
principio a riverire l'un l'altro con artificiosi modi, fuori del convenevole,
et a chiamarsi “padroni” e “signori” tra loro, inchinandosi e storcendosi e
piegandosi in segno di riverenza, e scoprendosi la testa e nominandosi con
titoli isquisiti, e basciandosi le mani come se essi le avessero, a guisa di
sacerdoti, sacrate, fu alcuno che, non avendo questa nuova e stolta usanza
ancora nome, la chiamò “cirimonia”, credo io per istratio, sì
come il bere et il godere si nominano per beffa “trionfare”. La quale usanza
sanza alcun dubbio a noi non è originale, ma forestiera e barbara, e da
poco tempo in qua, onde che sia, trapassata in Italia: la quale, misera, con le
opere e con gli effetti abbassata et avilita, è cresciuta solamente et
onorata nelle parole vane e ne' superflui titoli. Sono adunque le cirimonie, se
noi vogliamo aver risguardo alla intention di coloro che le usano, una vana
signification di onore e di riverenza verso colui a cui essi le fanno, posta
ne' sembianti e nelle parole, d'intorno a' titoli et alle proferte. Dico vana,
in quanto noi onoriamo in vista coloro i quali in niuna riverenza abbiamo, e
talvolta gli abbiamo in dispregio; e non di meno, per non iscostarci dal
costume degli altri, diciamo loro “lo Ill(ustrissi)mo signor tale” e “lo
Ecc(ellentissi)mo signor cotale”, e similmente ci proferiamo alle volte a tale
per deditissimi servidori, che noi ameremmo di diservire più tosto che
servire. Sarebbono adunque le cierimonie non solo bugie, sì come io
dissi, ma etiandio sceleratezze e tradimenti; ma, perciò che queste
sopraddette parole e questi titoli hanno perduto il loro vigore, e guasta, come
il ferro, la tempera loro per lo continuo adoperarli che noi facciamo, non si
dèe aver di loro quella sottile consideratione che si ha delle altre
parole, né con quel rigore intenderle. E che ciò sia vero lo dimostra
manifestamente quello che tutto dì interviene a ciascuno, perciò
che, se noi riscontriamo alcuno mai più da noi non veduto, al quale per
qualche accidente ci convenga favellare, sanza altra consideratione aver de'
suoi meriti, il più delle volte, per non dir poco, diciamo troppo, e
chiamiamolo gentiluomo e signore a talora che egli sarà calzolaio o
barbieri, solo che egli sia alquanto in arnese. E sì come anticamente si
solevano avere i titoli determinati e distinti per privilegio del Papa o dello
'mperadore (i quai titoli tacer non si potevano sanza oltraggio et ingiuria del
privilegiato, né per lo contrario attribuire sanza scherno a chi non avea quel
cotal privilegio), così oggidì si deono più liberalmente
usare i detti titoli e le altre significationi d'onore a titoli somiglianti,
perciò che l'usanza, troppo possente signore, ne ha largamente gli
uomini del nostro tempo privilegiati. Questa usanza adunque, così di
fuori bella et appariscente, è di dentro del tutto vana, e consiste in
sembianti sanza effetto et in parole sanza significato, ma non pertanto a noi
non è lecito di mutarla: anzi, siamo astretti, poiché ella non è
peccato nostro, ma del secolo, di secondarla: ma vuolsi ciò fare
discretamente.
[ XV ] Per la qual
cosa è da aver consideratione che le cirimonie si fanno o per utile o
per vanità o per debito; et ogni bugia che si dice per utilità
propria è fraude e peccato e disonesta cosa, come che mai non si menta
onestamente; e questo peccato commettono i lusinghieri, i quali si contrafanno
in forma d'amici, secondando le nostre voglie, quali che elle si siano, non
acciò che noi vogliamo, ma acciò che noi facciamo lor bene, e non
per piacerci, ma per ingannarci. E quantunque sì fatto vitio sia per
aventura piacevole nella usanza, non di meno, perciò che verso di sé
è abominevole e nocivo, non si conviene agli uomini costumati,
però che non è lecito porger diletto nocendo: e se le cirimonie
sono, come noi dicemmo, bugie e lusinghe false, quante volte le usiamo a fine
di guadagno, tante volte adoperiamo come disleali e malvagi uomini: sì
che per sì fatta cagione niuna cirimonia si dèe usare.
[ XVI ] Restami a
dire di quelle che si fanno per debito e di quelle che si fanno per
vanità. Le prime non istà bene in alcun modo lasciare che non si
facciano, perciò che chi le lascia non solo spiace, ma egli fa ingiuria;
e molte volte è occorso che egli si è venuto a trar fuori le
spade solo per questo, che l'un cittadino non ha così onorato l'altro
per via, come si doveva onorare, perciò che le forze della usanza sono
grandissime, come io dissi, e voglionsi avere per legge in simili affari. Per
la qual cosa chi dice “voi” ad un solo, purché colui non sia d'infima
conditione, di niente gli è cortese del suo, anzi, se gli dicesse “tu”,
gli torrebbe di quello di lui e farebbegli oltraggio et ingiuria, nominandolo
con quella parola con la quale è usanza di nominare i poltroni et i
contadini. E se bene altre nationi et altri secoli ebbero in ciò altri
costumi, noi abbiamo pur questi, e non ci ha luogo il disputare quale delle due
usanze sia migliore, ma convienci ubidire non alla buona, ma alla moderna
usanza, sì come noi siamo ubidienti alle leggi etiandio meno che buone
per fino che il Comune o chi ha podestà di farlo non le abbia mutate.
Laonde bisogna che noi raccogliamo diligentemente gli atti e le parole con le
quai l'uso et il costume moderno suole e ricevere e salutare e nominare nella
terra ove noi dimoriamo ciascuna maniera d'uomini, e quelle in comunicando con
le persone osserviamo. E non ostante che l'Ammiraglio, sì come il
costume de' suoi tempi per aventura portava, favellando col re Pietro d'Aragona
gli dicesse molte volte “tu”, diremo pur noi a' nostri re “Vostra
Maestà” e “La Serenità V(ostra)”, così a bocca come per
lettere: anzi, sì come egli servò l'uso del suo secolo,
così debbiamo noi non disubidire a quello del nostro. E queste nomino io
cirimonie debite, con ciò sia che elle non procedono dal nostro volere
né dal nostro arbitrio liberamente, ma ci sono imposte dalla legge, cioè
dall'usanza comune; e nelle cose che niuna sceleratezza hanno in sé, ma
più tosto alcuna apparenza di cortesia, si vuole, anzi si conviene
ubidire a' costumi comuni e non disputare né piatire con esso loro. E
quantunque il basciare per segno di riverenza si convenga dirittamente solo
alle reliquie de' santi corpi e delle altre cose sacre, non di meno, se la tua
contrada arà in uso di dire nelle dipartenze: -Signore, io vi bascio la
mano- o -Io son vostro servidore- o ancora: -Vostro schiavo in catena-, non
dèi esser tu più schifo degli altri, anzi, e partendo e
scrivendo, dèi salutare et accommiatare non come la ragione, ma come
l'usanza vuole che tu facci; e non come si voleva o si doveva fare, ma come si
fa. E non dire: -E di che è egli signore?- o -E' costui forse divenuto
mio parrocchiano, che io li debba così basciar le mani?-; perciò
che colui è usato di sentirsi dire “signore” dagli altri, e di dire egli
similmente “signore” agli altri, intende che tu lo sprezzi e che tu gli dica
villania, quando tu il chiami per lo suo nome, o che tu gli di' “messere” o gli
dài del “voi” per lo capo. E queste parole di signoria e di
servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi,
hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe
nell'acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli
uomini, sì che non si deono abominare, come alcuni rustici e zotichi
fanno, i quali vorrebbon che altri cominciasse le lettere che si scrivono
agl'imperadori et ai re a questo modo, cioè: “Se tu e' tuoi figliuoli
siate sani, bene sta; anch'io son sano”, affermando che cotale era il principio
delle lettere de' latini uomini scriventi al Comune loro di Roma, alla ragion
de' quali chi andasse drieto, si ricondurrebbe passo passo il secolo a vivere
di ghiande. Sono da osservare etiandio in queste cirimonie debite alcuni
ammaestramenti, acciò che altri non paia né vano né superbo. E prima si
dèe aver risguardo al paese dove l'uom vive, perciò che ogni
usanza non è buona in ogni paese, e forse quello che s'usa per li Napoletani,
la città de' quali è abondevole di uomini di gran legnaggio e di
baroni d'alto affare, non si confarebbe per aventura né a' Lucchesi né a'
Fiorentini, i quali per lo più sono mercatanti e semplici gentiluomini,
sanza aver fra loro né prencipi né marchesi né barone alcuno. Sì che le
maniere di Napoli, signorili e pompose, trapportate a Firenze, come i panni del
grande messi indosso al picciolo sarebbono soprabondanti e superflui, né
più né meno come i modi de' Fiorentini alla nobiltà de'
Napoletani -e forse alla loro natura- sarebbono miseri e ristretti. Né perché i
gentiluomini Vinitiani si lusinghino fuor di modo l'un l'altro per cagion de'
loro ufficii e de' loro squittini, starebbe egli bene che i buoni uomini di
Rovigo o i cittadini d'Asolo tenessero quella medesima solennità in
riverirsi insieme per nonnulla; come che tutta quella contrada (s'io non
m'inganno) sia alquanto trasandata in queste sì fatte ciancie, sì
come scioperata o forse avendole apprese da Vinegia, loro donna, imperò
che ciascuno volentieri sèguita i vestigii del suo signore, ancora sanza
saper perché. Oltre a ciò, bisogna avere risguardo al tempo,
all'età, alla conditione di colui con cui usiamo le cirimonie et alla
nostra, e con gli infaccendati mozzarle del tutto o almeno accorciarle più
che l'uom può, e più tosto accennarle che isprimerle (il che i
cortigiani di Roma sanno ottimamente fare), ma in alcuni altri luoghi le
cirimonie sono di grande sconcio alle faccende e di molto tedio. -Copritevi-
dice il giudice impacciato, al quale manca il tempo; e colui, fatte prima
alquante riverenze, con grande stropiccio di piedi, rispondendo adagio, dice:
-Signor mio, io sto ben così.- Ma pur dice il giudice: -Copritevi!- E
quegli, torcendosi due o tre volte per ciascun lato e piegandosi fino in terra
con molta gravità, risponde: -Priego V(ostra) S(ignoria) che mi lasci
fare il debito mio...-, e dura questa battaglia tanto, e tanto tempo si
consuma, che 'l giudice in poco più arebbe potuto sbrigarsi di ogni sua
faccenda quella mattina. Adunque, benché sia debito di ciascun minore onorare i
giudici e l'altre persone di qualche grado, non di meno, dove il tempo no'l
sofferisce, divien noioso atto e dèesi fuggire o modificare. Né quelle
medesime cirimonie si convengono a' giovani, secondo il loro essere, che agli
attempati fra loro; né alla gente minuta e mezzana si confanno quelle che i
grandi usano l'un con l'altro. Né gli uomini di grande virtù et
eccellenza soglion farne molte, né amare o ricercare che molte ne siano fatte
loro, sì come quelli che male possono impiegar in cose vane il pensiero.
Né gli artefici e le persone di bassa conditione si deono curare di usar molto
solenni cirimonie verso i grandi uomini e signori, che le hanno da loro a
schifo anzi che no, perciò che da loro pare che essi ricerchino et aspettino
più tosto ubidienza che onore. E per questo erra il servidore che
proferisce il suo servigio al padrone, perciò che egli se lo reca ad
onta e pargli che il servidore voglia metter dubbio nella sua signoria, quasi a
lui non istia l'imporre et il comandare. Questa maniera di cirimonie si vuole
usare liberalmente, perciò che quello che altri fa per debito è
ricevuto per pagamento e poco grado se ne sente a colui che 'l fa; ma chi va
alquanto più oltra di quello che egli è tenuto pare che doni del
suo et è amato e tenuto magnifico. E vammi per la memoria di avere udito
dire che un solenne uomo greco, gran versificatore, soleva dire che chi sa
carezzar le persone con picciolo capitale fa grosso guadagno: tu farai adunque
delle cirimonie come il sarto fa de' panni, che più tosto gli taglia
vantaggiati che scarsi, ma non però sì che, dovendo tagliare una
calza, ne riesca un sacco né un mantello. E se tu userai in ciò un poco
di convenevole larghezza verso coloro che sono da meno di te, sarai chiamato
cortese; e se tu farai il somigliante verso i maggiori, sarai detto costumato e
gentile; ma chi fosse in ciò soprabondante e scialacquatore, sarebbe
biasimato, sì come vano e leggiere, e forse peggio gli averrebbe ancora,
ché egli sarebbe avuto per malvagio e per lusinghiero e (come io sento dire a
questi letterati) per adulatore: il qual vitio i nostri antichi chiamarono, se
io non erro, piaggiare, del qual peccato niuno è più abominevole
né che peggio stia ad un gentiluomo. E questa è la terza maniera di
cirimonie, la qual procede pure dalla nostra volontà e non dalla usanza.
Ricordiamoci adunque che le cirimonie, come io dissi da principio, naturalmente
non furono necessarie, anzi si poteva ottimamente fare sanza esse, sì
come la nostra natione, non ha però gran tempo, quasi del tutto faceva,
ma le altrui malatie hanno ammalato anco noi e di questa infermità e di
molte altre. Per la qual cosa, ubidito che noi abbiamo all'usanza, tutto il
rimanente in ciò è superfluità et una cotal bugia lecita;
anzi, pure da quello innanzi non lecita, ma vietata, e perciò spiacevole
cosa e tediosa agli animi nobili, che non si pascono di frasche e di apparenze.
E sappi che io, non confidandomi della mia poca scienza, stendendo questo
presente trattato, ho voluto il parere di più valenti uomini scientiati;
e truovo che un re il cui nome fu Edipo, essendo stato cacciato di sua terra,
andò già ad Atene al re Teseo, per campare la persona (ché era
seguitato da' suoi nimici), e dinanzi a Teseo pervenuto, sentendo favellare una
sua figliuola et alla voce riconoscendola (perciò che cieco era), non
badò a salutar Teseo, ma, come padre, si diede a carezzare la fanciulla;
e, ravvedutosi poi, volle di ciò con Teseo scusarsi, pregandolo gli
perdonasse. Il buono e savio re non lo lasciò dire, ma disse egli:
-Confortati, Edipo, perciò che io non onoro la vita mia con le parole
d'altri, ma con le opere mie-: la qual sentenza si dèe avere a mente; e
come che molto piaccia agli uomini che altri gli onori, non di meno, quando si
accorgono di essere onorati artatamente, lo prendono a tedio, e più
oltre lo hanno anco a dispetto. Perciò che le lusinghe (o adulationi che
io debba dire) per arrota alle altre loro cattività e magagne hanno
questo difetto ancora: che i lusinghieri mostrano aperto segno di stimare che colui
cui essi carezzano sia vano et arrogante et, oltre a ciò, tondo e di
grossa pasta e semplice sì che agevole sia d'invescarlo e prenderlo. E
le cirimonie vane et isquisite e soprabondanti sono adulationi poco nascose,
anzi palesi e conosciute da ciascuno, in modo tale che coloro che le fanno a
fine di guadagno, oltra quello che io dissi di sopra della loro
malvagità, sono etiandio spiacevoli e noiosi.
[ XVII ] Ma ci
è un'altra maniera di cirimoniose persone, le quali di ciò fanno
arte e mercatantia, e tengonne libro e ragione: alla tal maniera di persone un
ghigno, et alla cotale un riso; et il più gentile sedrà in su la
seggiola et il meno su la panchetta: le quai cirimonie credo che siano state
trapportate di Spagna in Italia, ma il nostro terreno le ha male ricevute e
poco ci sono allignate, con ciò sia che questa distintione di
nobiltà così appunto a noi è noiosa e perciò non si
dèe alcuno far giudice a dicidere chi è più nobile o chi
meno. Né vendere si deono le cirimonie e le carezze a guisa che le meretrici
fanno, sì come io ho veduto molti signori fare nelle corti loro,
sforzandosi di consegnarle agli sventurati servidori per salario. E sicuramente
coloro che si dilettano di usar cirimonie assai fuora del convenevole, lo fanno
per leggierezza e per vanità, come uomini di poco valore, e
perciò che queste ciance s'imparano di fare assai agevolmente, e pure
hanno un poco di bella mostra, essi le apprendono con grande studio; ma le cose
gravi non possono imparare, come deboli a tanto peso, e vorrebbono che la
conversatione si spendesse tutta in ciò, sì come quelli che non
sanno più avanti e che sotto quel poco di polita buccia niuno sugo hanno
et a toccarli sono vizzi e mucidi, e perciò amerebbono che l'usar con le
persone non procedesse più adentro di quella prima vista: e di questi
troverai tu grandissimo numero. Alcuni altri sono che soprabondano in parole et
in atti cortesi per supplire al difetto della loro cattività e della
villana e ristretta natura loro, avisando, se eglino fossero sì scarsi e
salvatichi con le parole come sono con le opere, gli uomini non dovergli poter
sofferire. E nel vero così è, che tu troverai che per l'una di
queste due cagioni i più abondano di cirimonie superflue, e non per
altro: le quali generalmente noiano il più degli uomini, perciò
che per loro s'impedisce altrui il vivere a suo senno, cioè la
libertà, la quale ciascuno appetisce innanzi ad ogni altra cosa.
[ XVIII ] D'altrui né
delle altrui cose non si dèe dir male, tutto che paia che a ciò
si prestino in quel punto volentieri le orecchie, mediante la invidia che noi
per lo più portiamo al bene et all'onore l'un dell'altro; ma poi alla
fine ogniuno fugge il bue che cozza, e le persone schifano l'amicitia de'
maldicenti, facendo ragione che quello che essi dicono d'altri a noi, quello
dichino di noi ad altri. Et alcuni, che si oppongono ad ogni parola e
quistionano e contrastano, mostrano che male conoscano la natura degli uomini,
ché ciascuno ama la vittoria, e lo esser vinto odia, non meno nel favellare che
nello adoperare: sanza che il porsi volentieri al contrario ad altri è
opera di nimistà e non d'amicitia. Per la qual cosa colui che ama di
essere amichevole e dolce nel conversare non dèe aver così presto
il: -Non fu così- e lo -Anzi sta come vi dico io-, né il metter
sù de' pegni, anzi si dèe sforzare di essere arrendevole alle
openioni degli altri d'intorno a quelle cose che poco rilevano. Perciò
che la vittoria in sì fatti casi torna in danno, con ciò sia che
vincendo la frivola quistione si perde assai spesso il caro amico e diviensi
tedioso alle persone, sì che non osano di usare con esso noi, per non
essere ognora con esso noi alla schermaglia; e chiamanci per soprannome
“M(esser) Vinciguerra”, o “Ser Contraponi”, o “Ser Tuttesalle”, e talora “il
Dottor Sottile”. E se pure alcuna volta aviene che altri disputi invitato dalla
compagnia, si vuol fare per dolce modo e non si vuol essere sì ingordo
della dolcezza del vincere che l'uomo se la trangugi, ma conviene lasciarne a
ciascuno la parte sua; e, torto o ragione che l'uomo abbia, si dèe
consentire al parere de' più o de' più importuni e loro lasciare
il campo, sì che altri e non tu sia quegli che si dibatta e che sudi e
trafeli: che sono sconci modi e sconvenevoli ad uomini costumati, sì che
se ne acquista odio e malavoglienza; et, oltre a ciò, sono spiacevoli
per la sconvenevolezza loro, la quale per se stessa è noiosa agli animi
ben composti, sì come noi faremo per aventura mentione poco appresso. Ma
il più della gente invaghisce sì di se stessa, che ella mette in
abbandono il piacere altrui: e, per mostrarsi sottili et intendenti e savii,
consigliano e riprendono e disputano et inritrosiscono a spada tratta, et a
niuna sentenza s'accordano, se none alla loro medesima. Il proferire il tuo
consiglio non richiesto niuna altra cosa è che un dire di esser
più savio di colui cui tu consigli, anzi un rimproverargli il suo poco
sapere e la sua ignoranza. Per la qual cosa non si dèe ciò fare
con ogni conoscente, ma solo con gli amici più stretti e verso le
persone il governo e regimento delle quali a noi appartiene, o veramente quando
gran pericolo soprastesse ad alcuno, etiandio a noi straniero; ma nella comune
usanza si dèe l'uomo astenere di tanto dar consiglio e di tanto metter
compenso alle bisogne altrui: nel quale errore cadono molti, e più
spesso i meno intendenti. Perciò che agli uomini di grossa pasta poche
cose si volgon per la mente, sì che non penano guari a deliberarsi, come
quelli che pochi partiti da essaminare hanno alle mani; ma, come ciò
sia, chi va proferendo e seminando il suo consiglio mostra di portar openione
che il senno a lui avanzi et ad altri manchi. E fermamente sono alcuni che
così vagheggiano questa loro saviezza che il non seguire i loro conforti
non è altro che un volersi azzuffare con esso loro, e dicono: -Bene sta;
il consiglio de' poveri non è accettato- et -Il tale vuol fare a suo
senno- et -Il tale non mi ascolta-; come se il richiedere che altri ubidisca il
tuo consiglio non sia maggiore arroganza che non è il voler pur seguire
il suo proprio. Simil peccato a questo commettono coloro che imprendono a
correggere i difetti degli uomini et a riprendergli; e d'ogni cosa vogliono dar
sentenza finale, e porre a ciascuno la legge in mano: -La tal cosa non si vuol
fare- e -Voi diceste la tal parola- e -Stoglietevi dal così fare e dal
così dire- e -'l vino che voi beete non vi è sano, anzi vuole
esser vermiglio- e -Dovreste usare del tal lattovaro e delle cotali pillole-; e
mai non finano di riprendere, né di correggere. E lasciamo stare che a talora
si affaticano a purgare l'altrui campo, che il loro medesimo è tutto
pieno di pruni e di ortica; ma egli è troppo gran seccaggine il
sentirgli. E sì come pochi o niuno è cui soffera l'animo di fare
la sua vita col medico o col confessore e molto meno col giudice del maleficio,
così non si truova chi si arrischi di avere la costoro domestichezza,
perciò che ciascuno ama la libertà, della quale essi ci privano,
e parci esser col maestro. Per la qual cosa non è dilettevol costume lo
essere così voglioso di correggere e di ammaestrare altrui; e
dèesi lasciare che ciò si faccia da' maestri e da' padri, da'
quali pure perciò i figliuoli et i discepoli si scantonano tanto
volentieri quanto tu sai che e' fanno!
[ XIX ] Schernire
non si dèe mai persona, quantunque inimica, perché maggior segno di
dispregio pare che si faccia schernendo che ingiuriando, con ciò sia che
le ingiurie si fanno o per istizza o per alcuna cupidità, e niuno
è che si adiri con cosa (o per cosa) che egli abbia per niente, o che
appetisca quello che egli sprezza del tutto: sì che dello ingiuriato si
fa alcuna stima e dello schernito niuna o picciolissima. Et è lo scherno
un prendere la vergogna che noi facciamo altrui a diletto sanza pro alcuno di
noi, per la qual cosa si vuole nella usanza astenersi di schernire nessuno: in
che male fanno quelli che rimproverano i difetti della persona a coloro che gli
hanno, o con parole, come fece messer Forese da Rabatta, delle fattezze di
maestro Giotto ridendosi, o con atti, come molti usano, contrafacendo gli
scilinguati o zoppi o qualche gobbo. Similmente chi si ride d'alcuno sformato o
malfatto o sparuto o picciolo, o di sciocchezza che altri dica fa la festa e le
risa grandi, e chi si diletta di fare arrossire altrui: i quali dispettosi modi
sono meritatamente odiati. Et a questi sono assai somiglianti i beffardi,
cioè coloro che si dilettano di far beffe e di uccellare ciascuno, non
per ischerno, né per disprezzo, ma per piacevolezza. E sappi che niuna
differenza è da schernire a beffare, se non fosse il proponimento e la
intentione che l'uno ha diversa dall'altro, con ciò sia che le beffe si
fanno per sollazzo e gli scherni per istratio, come che nel comune favellare e
nel dettare si prenda assai spesso l'un vocabolo per l'altro: ma chi schernisce
sente contento della vergogna altrui e chi beffa prende dello altrui errore non
contento, ma sollazzo, là dove della vergogna di colui medesimo, per
aventura, prenderebbe cruccio e dolore. E come che io nella mia fanciullezza
poco innanzi procedessi nella grammatica, pur mi voglio ricordare che Mitione,
il quale amava cotanto Eschine che egli stesso avea di ciò maraviglia,
non di meno prendea talora sollazzo di beffarlo, come quando e' disse seco
stesso: -Io vo' fare una beffa a costui-. Sì che quella medesima cosa a
quella medesima persona fatta, secondo la intention di colui che la fa,
potrà essere beffa e scherno: e perciò che il nostro proponimento
male può esser palese altrui, non è util cosa nella usanza il
fare arte così dubbiosa e sospettosa. E più tosto si vuol fuggire
che cercare di esser tenuto beffardo, perché molte volte interviene in questo,
come nel ruzzare o scherzare, che l'uno batte per ciancia e l'altro riceve la
battitura per villania, e di scherzo fanno zuffa; così quegli che
è beffato per sollazzo e per dimestichezza si reca talvolta ciò
ad onta et a disonore e prendene sdegno, sanza che la beffa è inganno,
et a ciascuno naturalmente duole di errare e di essere ingannato. Sì che
per più cagioni pare che chi procaccia di esser ben voluto et avuto caro
non debba troppo farsi maestro di beffe. Vera cosa è che noi non
possiamo in alcun modo menare questa faticosa vita mortale del tutto sanza
sollazzo né sanza riposo: e perché le beffe ci sono cagione di festa e di riso
e, per conseguente, di ricreatione, amiamo coloro che sono piacevoli e beffardi
e sollazzevoli. Per la qual cosa pare che sia da dire in contrario, cioè
che pur si convenga nella usanza beffare alle volte e similmente motteggiare. E
sanza fallo coloro che sanno beffare per amichevol modo e dolce sono più
amabili che coloro che no 'l sanno né possono fare; ma egli è di
mestiero avere risguardo in ciò a molte cose; e, con ciò sia che
la intention del beffatore è di prendere sollazzo dello errore di colui
di cui egli fa alcuna stima, bisogna che l'errore nel quale colui si fa cadere
sia tale che niuna vergogna notabile né alcun grave danno gliene segua:
altrimenti mal si potrebbono conoscere le beffe dalle ingiurie. E sono ancora
di quelle persone con le quali, per l'asprezza loro, in niuna guisa si
dèe motteggiare, sì come Biondello poté sapere da messer Filippo
Argenti nella loggia de' Caviccioli. Medesimamente non si dèe
motteggiare nelle cose gravi, e meno nelle vituperose opere, perciò che
pare che l'uomo, secondo il proverbio del comun popolo, si rechi la
cattività a scherzo, come che a madonna Filippa da Prato molto
giovassino le piacevoli risposte da lei fatte intorno alla sua
disonestà! Per la qual cosa non credo io che Lupo degli Uberti
alleggerisse la sua vergogna, anzi la aggravò, scusandosi per motti
della cattività e della viltà da lui dimostrata, ché, potendosi
tenere nel castello di Laterina, vedendosi steccare intorno e chiudersi,
incontinente il diede, dicendo che nullo Lupo era uso di star rinchiuso;
perché, dove non ha luogo il ridere, quivi si disdice il motteggiare et il
cianciare.
[ XX ] E dèi
oltre a ciò sapere che alcuni motti sono che mordono et alcuni che non
mordono; de' primi voglio che ti basti il savio ammaestramento che Lauretta ne
diede, cioè che i motti come la pecora morde deono così mordere
l'uditore, e non come il cane: perciò che, se come il cane mordesse, il
motto non sarebbe motto ma villania; e le leggi quasi in ciascuna città
vogliono che quegli che dice altrui alcuna grave villania sia gravemente punito;
e forse che si conveniva ordinar similmente non leggieri disciplina a chi
mordesse per via di motti oltra il convenevole modo; ma gli uomini costumati
deono far ragione che la legge che dispone sopra le villanie si stenda etiandio
a' motti, e di rado e leggiermente pungere altrui. Et oltre a tutto questo,
sì dèi tu sapere che il motto, come che morda o non morda, se non
è leggiadro e sottile gli uditori niuno diletto ne prendono, anzi ne
sono tediati, o, se pur ridono, si ridono non del motto, ma del motteggiatore.
E perciò che niuna altra cosa sono i motti che inganni, e lo ingannare,
sì come sottil cosa et artificiosa, non si può fare se non per
gli uomini di acuto e di pronto avedimento, e spetialmente improviso,
perciò che non convengono alle persone materiali e di grosso intelletto,
né pure ancora a ciascuno il cui ingegno sia abondevole e buono, sì come
per aventura non convennero gran fatto a messer Giovan Boccaccio; ma sono i
motti spetiale prontezza e leggiadria e tostàno movimento d'animo. Per
la qual cosa gli uomini discreti non guardano in ciò alla
volontà, ma alla disposition loro, e, provato che essi hanno una e due
volte le forze del loro ingegno invano, conoscendosi a ciò poco destri,
lasciano stare di pur voler in sì fatto essercitio adoperarsi,
acciò che non avenga loro quello che avenne al cavaliero di madonna
Orretta. E se tu porrai mente alle maniere di molti, tu conoscerai agevolmente
ciò che io ti dico esser vero: cioè che non istà bene il
motteggiare a chiunque vuole, ma solamente a chi può. E vedrai tale
avere ad ogni parola apparecchiato uno, anzi molti, di quei vocaboli che noi
chiamiamo bistìccichi,
di niun sentimento; e tale scambiar le sillabe ne' vocaboli per frivoli modi e
sciocchi; et altri dire o rispondere altrimenti che non si aspettava, sanza
alcuna sottigliezza o vaghezza: -Dove è il signore? -Dove egli ha i
piedi!- e -Gli fece ugner le mani con la grascia di San Giovan Boccadoro- e
-Dove mi manda egli?- -Ad Arno!-; -Io mi voglio radere- -E' sarebbe meglio
rodere!-; -Va chiama il barbieri- -E perché non il barba ... domani?!-: i
quali, come tu puoi agevolmente conoscere, sono vili modi e plebei; cotali
furono, per lo più, le piacevolezze et i motti di Dioneo. Ma della
più bellezza de' motti e della meno non fia nostra cura di ragionare al
presente, con ciò sia che altri trattati ce ne abbia, distesi da troppo
migliori dettatori e maestri che io non sono, et ancora perciò che i
motti hanno incontinente larga e certa testimonianza della loro bellezza e
della loro spiacevolezza, sì che poco potrai errare in ciò, solo
che tu non sii soverchiamente abbagliato di te stesso, perciò che dove
è piacevol motto ivi è tantosto festa e riso et una cotale
maraviglia. Laonde, se le tue piacevolezze non saranno approvate dalle risa de'
circonstanti, sì ti rimarrai tu di più motteggiare, perciò
che il difetto fia pur tuo, e non di chi t'ascolta, con ciò sia cosa che
gli uditori, quasi solleticati dalle pronte o leggiadre o sottili risposte o
proposte, etiandio volendo, non possono tener le risa, ma ridono mal lor grado;
da' quali, sì come da diritti e legitimi giudici, non si dèe
l'uomo appellare a se medesimo, né più riprovarsi. Né per far ridere
altrui si vuol dire parole né fare atti vili né sconvenevoli, storcendo il viso
e contrafacendosi, ché niuno dèe, per piacere altrui, avilire sé
medesimo, che è arte non di nobile uomo, ma di giocolare e di buffone.
Non sono adunque da seguitare i volgari modi e plebei di Dioneo (“madonna
Aldruta, alzate la coda...”), né fingersi matto, né dolce di sale, ma, a suo
tempo, dire alcuna cosa bella e nuova e che non caggia così nell'animo a
ciascuno, chi può, e chi non può, tacersi: perciò che
questi sono movimenti dello 'ntelletto, i quali, se sono avvenenti e leggiadri,
fanno segno e testimonianza della destrezza dell'animo e de' costumi di chi gli
dice, la qual cosa piace sopra modo agli uomini e rendeci loro cari et amabili,
ma, se essi sono al contrario, fanno contrario effetto, perciò che pare
che l'asino scherzi, o che alcuno forte grasso e naticuto danzi o salti
spogliato in farsetto.
[ XXI ] Un'altra
maniera si truova di sollazzevoli modi pure posta nel favellare: cioè
quando la piacevolezza non consiste in motti, che per lo più sono
brievi, ma nel favellar disteso e continuato, il quale vuole essere ordinato e
bene espresso e rappresentante i modi, le usanze, gli atti et i costumi di
coloro de' quali si parla, sì che all'uditore sia aviso non di udir
raccontare, ma di veder con gli occhi fare quelle cose che tu narri: il che
ottimamente seppono fare gli uomini e le donne del Boccaccio, come che pure
talvolta (se io non erro) si contrafacessero più che a donna o a
gentiluomo non si sarebbe convenuto, a guisa di coloro che recitan le comedie.
Et a voler ciò fare, bisogna aver quello accidente, o novella o istoria,
che tu pigli a dire bene raccolta nella mente, e le parole pronte et
apparecchiate, sì che non ti convenga tratto tratto dire: -Quella
cosa...- e -Quel cotale...- o -Quel... come si chiama?- o -Quel lavorio- né
-Aiutatemelo a dire- e -Ricordatemi come egli ha nome-; perciò che
questo è appunto il trotto del cavalier di madonna Orretta! E se tu
reciterai un avenimento nel quale intervenghino molti, non dèi dire:
-Colui disse...- e -Colui rispose...-, perciò che tutti siamo “colui”,
sì che chi ode facilmente erra: conviene adunque che chi racconta ponga
i nomi e poi non gli scambi. Et oltre a ciò, si dèe l'uomo
guardare di non dir quelle cose, le quali taciute, la novella sarebbe non meno
piacevole o per aventura ancora più piacevole: -Il tale, che fu figliuol
del tale, che stava a casa nella via del Cocomero... no 'l conosceste voi? Che
ebbe per moglie quella de' Gianfigliazzi: una cotal magretta, che andava alla
messa in San Lorenzo... come, no? Anzi, non conosceste altri!- Un bel vecchio
diritto, che portava la zazzera... non ve ne ricordate voi?-; perciò
che, se fosse tutto uno che il caso fosse avenuto ad un altro come a costui,
tutta questa lunga quistione sarebbe stata di poco frutto, anzi di molto tedio,
a coloro che ascoltano e sono vogliosi e frettolosi di sentire quello
avenimento, e tu gli aresti fatto indugiare; sì come per aventura fece
il nostro Dante:
E li parenti
miei furon Lombardi
E Mantovan per patria ambidui;
perciò
che niente rilevava se la madre di lui fosse stata da Gazuolo o anco da
Cremona. Anzi, apparai io già da un gran retorico forestiero uno assai
utile ammaestramento d'intorno a questo, cioè che le novelle si deono
comporre et ordinare prima co' soprannomi e poi raccontare co' nomi;
perciò che quelli sono posti secondo le qualità delle persone e
questi secondo l'appetito de' padri o di coloro a chi tocca. Per la qual cosa
colui che, in pensando, fu messer Avaritia, in proferendo sarà messer
Erminio Grimaldi, se tale sarà la generale openione che la tua contrada
arà di lui, quale a Guglielmo Borsieri fu detto esser di messer Erminio
in Genova. E se nella terra ove tu dimori non avesse persona molto conosciuta
che si confacesse al tuo bisogno, sì dèi tu figurare il caso in
altro paese et il nome imporre come più ti piace. Vera cosa è che
con maggior piacere si suole ascoltare e, più, aver dinanzi agli occhi
quello che si dice essere avenuto alle persone che noi conosciamo (se
l'avenimento è tale che si confaccia a' loro costumi) che quello che
è intervenuto agli strani e non conosciuti da noi; e la ragione è
questa: che, sapendo noi che quel tale suol far così, crediamo che egli
così abbia fatto, e riconosciamolo come presente, dove degli strani non
avien così.
[ XXII ] Le parole,
sì nel favellare disteso come negli altri ragionamenti, vogliono esser
chiare, sì che ciascuno della brigata le possa agevolmente intendere, et
oltre a ciò belle in quanto al suono et in quanto al significato,
perciò che se tu arai da dire l'una di queste due, dirai più tosto
il ventre che l'epa, e, dove il tuo linguaggio
lo sostenga, dirai più tosto la
pancia che il ventre
o il corpo,
perciò che così sarai inteso e non franteso, sì come noi
Fiorentini diciamo, e di niuna bruttura farai sovenire all'uditore. La qual
cosa volendo l'ottimo poeta nostro schifare, sì come io credo, in questa
parola stessa, procacciò di trovare altro vocabolo, non guardando perché
alquanto gli convenisse scostarsi per prenderlo di altro luogo, e disse:
Ricorditi che
fece il peccar nostro
Prender Dio, per scamparne,
Umana carne al tuo virginal chiostro!
E come che
Dante, sommo poeta, altresì poco a così fatti ammaestramenti
ponesse mente, io non sento perciò che di lui si dica per questa cagione
bene alcuno. E certo io non ti consiglierei che tu lo volessi fare tuo maestro
in questa arte dello esser gratioso, con ciò sia cosa che egli stesso
non fu, anzi in alcuna Cronica
trovo così scritto di lui: “Questo Dante per suo sapere fu alquanto
presuntuoso e schifo e sdegnoso e, quasi, a guisa di filosofo, mal gratioso,
non ben sapeva conversare co' laici”. Ma, tornando alla nostra materia, dico
che le parole vogliono essere chiare; il che averrà, se tu saprai
scegliere quelle che sono originali di tua terra, che non siano perciò
antiche tanto che elle siano divenute rance e viete, e, come logori vestimenti,
diposte o tralasciate, sì come spaldo
et epa et uopo e sezzaio e primaio; et oltre a ciò,
se le parole che tu arai per le mani saranno non di doppio intendimento, ma
semplici, perciò che di quelle accozzate insieme si compone quel
favellare che ha nome “enigma” et in più chiaro volgare si chiama
“gergo”:
Io vidi un
che da sette passatoi
fu da un canto all'altro trapassato.
Ancora
vogliono esser le parole il più che si può appropriate a quello
che altri vuol dimostrare, e meno che si può comuni ad altre cose,
perciò che così pare che le cose istesse si rechino in mezzo e
che elle si mostrino non con le parole, ma con esso il dito: e perciò
più acconciamente diremo “riconosciuto alle fattezze” che “alla figura” o “alla imagine”;
e meglio rappresentò Dante la cosa detta, quando e' disse:
Che li pesi
fan così cigolar
le sue bilancie,
che se egli
avesse detto o gridare
o stridere o far romore. E più singolare è il dire “il
ribrezzo della
quartana” che se noi dicessimo “il freddo”;
e “la carne soverchio grassa stucca”
che se noi dicessimo sazia;
e “sciorinare i panni”
e non ispandere; et i moncherini e non le braccia mozze; et all'orlo
dell'acqua d'un fosso
Stan li
ranocchi pur col muso
fuori
e non con la bocca: i quali tutti sono
vocaboli di singolare significatione, e similmente “il vivagno della tela” più tosto che l'estremità. E so io bene
che, se alcun forestiero per mia sciagura s'abbattesse a questo trattato, egli
si farebbe beffe di me e direbbe che io t'insegnassi di favellare in gergo
overo in cifera, con ciò sia che questi vocaboli siano per lo più
così nostrani che alcuna altra natione non gli usa, et usati da altri non
gl'intende. E chi è colui che sappia ciò che Dante si volesse
dire in quel verso:
Già
veggia per mezzul perdere o lulla?
Certo io
credo che nessun altro che noi Fiorentini; ma, non di meno, secondo che a me
è stato detto, se alcun fallo ha pure in quel testo di Dante, egli non
l'ha nelle parole, ma (se egli errò) più tosto errò in
ciò, che egli -si come uomo alquanto ritroso- imprese a dire cosa
malagevole ad isprimere con parole e per aventura poco piacevole ad udire, che
perché egli la isprimesse male. Niun puote, adunque, ben favellare con chi non
intende il linguaggio nel quale egli favella, né, perché il Tedesco non sappia
latino, debbiam noi per questo guastar la nostra loquela in favellando con esso
lui, né contrafarci a guisa di mastro Brufaldo, sì come soglion fare alcuni
che per la loro sciocchezza si sforzano di favellar del linguaggio di colui con
cui favellano, quale egli si sia, e dicono ogni cosa a rovescio; e spesso
aviene che lo Spagniuolo parlerà italiano con lo Italiano, e lo Italiano
favellerà per pompa e per leggiadria con esso lui spagnuolo: e non di
meno assai più agevol cosa è il conoscere che amendue favellano
forestiero che il tener le risa delle nuove sciocchezze che loro escono di
bocca. Favelleremo adunque noi nell'altrui linguaggio qualora ci farà mestiero
di essere intesi per alcuna nostra necessità, ma nella comune usanza
favelleremo pure nel nostro, etiandio men buono, più tosto che
nell'altrui migliore, perciò che più acconciamente
favellerà un Lombardo nella sua lingua, quale s'è la più
difforme, che egli non parlerà toscano o d'altro linguaggio, pure
perciò che egli non arà mai per le mani, per molto che egli si
affatichi, sì bene i propri e particolari vocaboli come abbiamo noi
Toscani. E se pure alcuno vorrà aver risguardo a coloro co' quali favellerà
e perciò astenersi da' vocaboli singolari, de' quali io ti ragionava, et
in luogo di quelli usare i generali e comuni, i costui ragionamenti saranno
perciò di molto minor piacevolezza. Dèe oltre a ciò
ciascun gentiluomo fuggir di dire le parole meno che oneste: e la onestà
de' vocaboli consiste o nel suono e nella voce loro o nel loro significato, con
ciò sia cosa che alcuni nomi venghino a dire cosa onesta e non di meno
si sente risonare nella voce istessa alcuna disonestà, sì come rinculare (la qual parola,
ciò non ostante, si usa tuttodì da ciascuno); ma se alcuno, o
uomo o femina, dicesse per simil modo et a quel medesimo ragguaglio il farsi innanzi che si dice il farsi indrieto, allora
apparirebbe la disonestà di cotal parola, ma il nostro gusto per la
usanza sente quasi il vino di questa voce e non la muffa.
Le mani
alzò con amendue le fiche,
disse il
nostro Dante, ma non ardiscono di così dire le nostre donne, anzi, per
ischifare quella parola sospetta, dicon più tosto le castagne, come che pure
alcune, poco accorte, nominino assai spesso disavedutamente quello che se altri
nominasse loro in pruova elle arrossirebbono, facendo mentione per via di
bestemmia di quello onde elle sono femine. E perciò quelle che sono, o
vogliono essere, ben costumate, procurino di guardarsi non solo dalle disoneste
cose, ma ancora dalle parole, e non tanto da quelle che sono, ma etiandio da
quelle che possono essere, o ancora parere, o disoneste o sconcie e lorde, come
alcuni affermano essere queste pur di Dante:
Se non ch'al
viso e di sotto mi venta;
o pur quelle:
Però
ne dite ond'è presso pertugio;
. . .
Et un di quelli spirti disse: Vieni
Dirieto a noi, ché troverai la buca.
E dèi
sapere che, come che due o più parole venghino talvolta a dire una
medesima cosa, non di meno l'una sarà più onesta e l'altra meno,
sì come è a dire Con
lui giacque e Della
sua persona gli sodisfece, perciò che questa sentenza, detta
con altri vocaboli, sarebbe disonesta cosa ad udire. E più acconciamente
dirai “il vago della
luna” che tu non diresti il drudo,
avegna che amendue questi vocaboli importino “lo amante”, e più
convenevol parlare pare a dire la fanciulla
e l'amica che “la concubina di Titone”; e
più dicevole è a donna, et anco ad uomo costumato, nominare le
meretrici femine di mondo
(come la Belcolore disse, più nel favellare vergognosa che nello
adoperare) che a dire il comune lor nome: “Taide è la puttana”, e come il Boccaccio
disse, “la potenza delle meretrici
e de' ragazzi”; ché,
se così avesse nominato dall'arte loro i maschi come nominò le
femine, sarebbe stato sconcio e vergognoso il suo favellare. Anzi, non solo si
dèe altri guardare dalle parole disoneste e dalle lorde, ma etiandio
dalle vili, e spetialmente colà dove di cose alte e nobili si favelli; e
per questa cagione forse meritò alcun biasimo la nostra Beatrice, quando
disse:
L'alto fato
di Dio sarebbe rotto
Se Lethé si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata sanza alcuno scotto
Di pentimento...,
ché, per
aviso mio, non istette bene il basso vocabolo delle taverne in così
nobile ragionamento. Né dèe dire alcuno “la lucerna del mondo” in luogo del sole, perciò che cotal
vocabolo rappresenta altrui il puzzo dell'olio e della cucina; né alcuno
considerato uomo direbbe che san Domenico fu “il drudo della teologia” e non racconterebbe che i
Santi gloriosi avessero dette così vili parole come è a dire:
E lascia pur grattar dove è la rogna,
che sono
imbrattate della feccia del volgar popolo, sì come ciascuno può
agevolmente conoscere. Adunque, ne' distesi ragionamenti si vogliono avere le
sopra dette considerationi et alcune altre, le quali tu potrai più ad
agio apprendere da' tuoi maestri e da quella arte che essi sogliono chiamare
retorica. E negli altri bisogna che tu ti avezzi ad usare le parole gentili e
modeste e dolci, sì che niuno amaro sapore abbiano; et innanzi dirai:
-Io non seppi dire- che -Voi non m'intendete- e -Pensiamo un poco se
così è come noi diciamo- più tosto che dire: -Voi errate!-
o -E' non è vero!- o -Voi non la sapete!-; però che cortese et
amabile usanza è lo scolpare altrui, etiandio in quello che tu intendi
d'incolparlo, anzi si dèe far comune l'error proprio dello amico, e
prenderne prima una parte per sé, e poi biasimarlo o riprenderlo: -Noi errammo
la via- e -Noi non ci ricordammo ieri di così fare-; come che lo
smemorato sia pur colui solo e non tu. E quello che Restagnone disse a' suoi
compagni non istette bene “Voi, se le vostre parole non mentono”, perché
non si dèe recare in dubbio la fede altrui, anzi, se alcuno ti promise
alcuna cosa e non te la attenne, non istà bene che tu dichi: -Voi mi
mancaste della vostra fede!-, salvo se tu non fossi constretto da alcuna
necessità, per salvezza del tuo onore, a così dire; ma, se egli
ti arà ingannato, dirai: -Voi non vi ricordaste di così fare-; e
se egli non se ne ricordò, dirai più tosto: -Voi non poteste- o
-Non vi tornò a mente- che - Voi vi dimenticaste- o -Voi non vi curaste
di attenermi la promessa-, perciò che queste sì fatte parole
hanno alcuna puntura et alcun veneno di doglienza e di villania; sì che
coloro che costumano di spesse volte dire cotali motti sono riputati persone
aspere e ruvide, e così è fuggito il loro consortio come si fugge
di rimescolarsi tra' pruni e tra' triboli.
[ XXIII ] E perché io
ho conosciute di quelle persone che hanno una cattiva usanza e spiacevole,
cioè che così sono vogliosi e golosi di dire che non prendono il
sentimento, ma lo trapassano e corrongli dinanzi a guisa di veltro che non
assanni, per ciò non mi guarderò io di dirti quello che potrebbe
parer soverchio a ricordare, come cosa troppo manifesta: e cioè che tu
non dèi giammai favellare che non abbi prima formato nell'animo quello
che tu dèi dire, ché così saranno i tuoi ragionamenti parto e non
isconciatura (ché bene mi comporteranno i forestieri questa parola, se mai
alcuno di loro si curerà di legger queste ciancie). E se tu non ti farai
beffe del mio ammaestramento, non ti averrà mai di dire: -Ben venga, messere
Agostino- a tale che arà nome Agnolo o Bernardo; e non arai a dire
-Ricordatemi il nome vostro- e non ti arai a ridire, né a dire - Io non dissi
bene- né -Domin, ch'io lo dica!-; né a scilinguare o balbotire lungo spatio per
rinvenire una parola: -maestro Arrigo... No, maestro Arabico... O, ve' che lo
dissi: maestro Agabito!-: che sono a chi t'ascolta tratti di corda. La voce non
vuole esser né roca né aspera, e non si dèe stridere, né per riso o per
altro accidente cigolare come le carrucole fanno, né, mentre che l'uomo
sbadiglia, pur favellare. Ben sai che noi non ci possiamo fornire né di spedita
lingua né di buona voce a nostro senno; chi è o scilinguato o roco non
voglia sempre essere quegli che cinguetti, ma correggere il difetto della
lingua col silentio e con le orecchie: et anco si può con istudio
scemare il vitio della natura. Non istà bene alzar la voce a guisa di
banditore, né anco si dèe favellare sì piano che chi ascolta non
oda; e se tu non sarai stato udito la prima volta, non dèi dire la
seconda ancora più piano, né anco dèi gridare, acciò ch tu
non dimostri d'imbizzarrire perciò che ti sia convenuto replicare quello
che tu avevi detto. Le parole vogliono essere ordinate secondo che richiede
l'uso del favellar comune e non aviluppate et intralciate in qua et in
là, come molti hanno usanza di fare per leggiadria, il favellar de'
quali si rassomiglia più a notaio che legga in volgare lo instrumento
che egli dettò latino che ad uom che ragioni in suo linguaggio; come
è a dire:
Imagini di
ben seguendo false
e:
Del fiorir
queste inanzi tempo tempie;
i quali modi
alle volte convengono a chi fa versi, ma a chi favella si disdicono sempre. E
bisogna che l'uomo non solo si discosti in ragionando dal versificare, ma
etiandio dalla pompa dello arringare: altrimenti sarà spiacevole e
tedioso ad udire, come che per aventura maggior maestria dimostri il sermonare
che il favellare; ma ciò si dèe riservare a suo luogo, ché chi va
per via non dèe ballare, ma caminare, con tutto che ogniuno non sappia
danzare et andar sappia ogniuno (ma conviensi alle nozze e non per le strade!).
Tu ti guarderai adunque di favellar pomposo: “Credesi per molti
filosofanti...”, e tale è tutto il Filocolo
e gli altri trattati del nostro m(esser) Giovan Boccaccio, fuori che la maggior
opera, et ancora più di quella, forse, il Corbaccio. Non voglio perciò che tu ti
avezzi a favellare sì bassamente come la feccia del popolo minuto e come
la lavandaia e la trecca, ma come i gentiluomini; la qual cosa come si possa
fare ti ho in parte mostrato di sopra, cioè se tu non favellerai di
materia né vile, né frivola, né sozza, né abominevole. E se tu saprai scegliere
fra le parole del tuo linguaggio le più pure e le più proprie e
quelle che miglior suono e miglior significatione aranno, sanza alcuna
rammemoratione di cosa brutta, né laida, né bassa, e quelle accozzare, non
ammassandole a caso, né con troppo scoperto studio mettendole in filza, et,
oltre a ciò, se tu procaccerai di compartire discretamente le cose che
tu a dire arai, e guardera'ti di congiungere le cose difformi tra sé, come:
Tullio e Lino
e Seneca morale,
o pure:
L'uno era
Padovano e l'altro laico,
e se tu non
parlerai sì lento, come svogliato, né sì ingordamente, come
affamato, ma come temperato uomo dèe fare, e se tu proferirai le lettere
e le sillabe con una convenevole dolcezza, non a guisa di maestro che insegni
leggere e compitare a' fanciulli, né anco le masticherai né inghiottiraile
appiccate et impiastricciate insieme l'una con l'altra; se tu arai adunque a
memoria questi et altri sì fatti ammaestramenti, il tuo favellare
sarà volentieri e con piacere ascoltato dalle persone, e manterrai il
grado e la degnità che si conviene a gentiluomo bene allevato e
costumato.
[ XXIV ] Sono ancora
molti che non sanno restar di dire, e, come nave spinta dalla prima fuga per
calar vela non s'arresta, così costoro trapportati da un certo impeto
scorrono e, mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per
ciò, anzi, o ridicono le cose già dette, o favellano a
vòto. Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non
lasciano dire altrui; e come noi veggiamo talvolta su per l'aie de' contadini
l'uno pollo tòrre la spica di becco all'altro, così cavano
costoro i ragionamenti di bocca a colui che gli cominciò e dicono essi;
e sicuramente che eglino fanno venir voglia altrui di azzuffarsi con esso loro,
perciò che, se tu guardi bene, niuna cosa muove l'uomo più tosto
ad ira, che quando improviso gli è guasto la sua voglia et il suo
piacere, etiandio minimo: sì come quando tu arai aperto la bocca per
isbadigliare et alcuno te la tura con mano, o quando tu hai alzato il braccio
per trarre la pietra et egli t'è subitamente tenuto da colui che
t'è di dirieto. Così adunque come questi modi (e molti altri a
questi somiglianti) che tendono ad impedir la voglia e l'appetito altrui ancora
per via di scherzo e per ciancia sono spiacevoli e debbonsi fuggire,
così nel favellare si dèe più tosto agevolare il desiderio
altrui che impedirlo. Per la qual cosa, se alcuno sarà tutto in assetto
di raccontare un fatto, non istà bene di guastargliele, né di dire che
tu lo sai, o, se egli anderà per entro la sua istoria spargendo alcuna
bugiuzza, non si vuole rimproverargliele né con le parole né con gli atti,
crollando il capo o torcendo gli occhi, sì come molti soglion fare,
affermando sé non potere in modo alcuno sostener l'amaritudine della bugia; ma
egli non è questa la cagione di ciò, anzi è l'agrume e lo
aloe della loro rustica natura et aspera, che sì gli rende venenosi et
amari nel consortio degli uomini che ciascuno gli rifiuta. Similmente il
rompere altrui le parole in bocca è noioso costume e spiace, non
altrimenti che quando l'uomo è mosso a correre et altri lo ritiene. Né
quando altri favella si conviene di fare sì che egli sia lasciato et
abbandonato dagli uditori, mostrando loro alcuna novità e rivolgendo la
loro attentione altrove: ché non istà bene ad alcuno licenziar coloro
che altri, e non egli, invitò. E vuolsi stare attento, quando l'uom
favella, acciò che non ti convenga dire tratto tratto: -Eh?- o -Come?-;
il qual vezzo sogliono avere molti, e non è ciò minore sconcio a
chi favella che lo intoppare ne' sassi a chi va. Tutti questi modi e
generalmente ciò che può ritenere e ciò che si può
attraversare al corso delle parole di colui che ragiona, si vuol fuggire. E se
alcuno sarà pigro nel favellare, non si vuole passargli inanzi né
prestargli le parole, come che tu ne abbi a dovitia et egli difetto; ché molti
lo hanno per male, e spetialmente quelli che si persuadono di essere buoni
parlatori, perciò che è loro aviso che tu non gli abbi per quello
che essi si tengono e che tu gli vogli sovenire nella loro arte medesima; come
i mercatanti si recano ad onta che altri proferisca loro denari, quasi eglino
non ne abbiano e siano poveri e bisognosi dell'altrui. E sappi che a ciascuno
pare di saper ben dire, come che alcuno per modestia lo nieghi. E non so io
indovinare donde ciò proceda, che chi meno sa più ragioni: dalla
qual cosa (cioè dal troppo favellare) conviene che gli uomini costumati
si guardino, e spetialmente poco sapendo, non solo perché egli è gran
fatto che alcuno parli molto sanza errar molto, ma perché ancora pare che colui
che favella soprastia in un certo modo a coloro che odono, come maestro a'
discepoli; e perciò non istà bene di appropriarsi maggior parte
di questa maggioranza, che non ci si conviene: et in tale peccato cadono non
pure molti uomini, ma molte nationi favellatrici e seccatrici sì, che
guai a quella orecchia che elle assannano. Ma, come il soverchio dire reca
fastidio, così reca il soverchio tacere odio, perciò che il
tacersi colà, dove gli altri parlano a vicenda, pare un non voler metter
sù la sua parte dello scotto, e perché il favellare è un aprir
l'animo tuo a chi t'ode, il tacere per lo contrario pare un volersi dimorare
sconosciuto. Per la qual cosa, come que' popoli che hanno usanza di molto bere
alle loro feste e d'inebriarsi soglion cacciare via coloro che non beono,
così sono questi così fatti mutoli mal volentieri veduti nelle
liete et amichevoli brigate. Adunque piacevol costume è il favellare e
lo star cheto ciascuno, quando la volta viene a lui.
[ XXV ] Secondo che
racconta una molto antica cronica, egli fu già nelle parti della Morea
un buono uomo scultore, il quale per la sua chiara fama, sì come io
credo, fu chiamato per sopranome “maestro Chiarissimo”; costui, essendo
già di anni pieno, distese certo suo trattato et in quello raccolse
tutti gli ammaestramenti dell'arte sua, sì come colui che ottimamente
gli sapea, dimostrando come misurar si dovessero le membra umane, sì
ciascuno da sé, sì l'uno per rispetto all'altro, acciò che
convenevolmente fossero infra sé rispondenti. Il qual suo volume egli
chiamò Il Regolo,
volendo significare che secondo quello si dovessero dirizzare e regolare le
statue che per lo innanzi si farebbono per gli altri maestri, come le travi e
le pietre e le mura si misurano con esso il regolo. Ma, con ciò sia che
il dire è molto più agevol cosa che il fare e l'operare; et,
oltre a ciò, la maggior parte degli uomini (massimamente di noi laici et
idioti) abbia sempre i sentimenti più presti che lo 'ntelletto, e
conseguentemente meglio apprendiamo le cose singolari e gli essempi che le
generali et i sillogismi (la qual parola dèe voler dire in più
aperto volgare “le ragioni”), perciò, avendo il sopra detto valent'uomo
risguardo alla natura degli artefici, male atta agli ammaestramenti generali, e
per mostrare anco più chiaramente la sua eccellenza, provedutosi di un
fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in
ogni suo membro et in ciascuna sua parte come gli ammaestramenti del suo
trattato divisavano: e, come il libro avea nominato, così nominò
la statua, pur “Regolo” chiamandola. Ora fosse piacer di Dio che a me venisse
fatto almeno in parte l'una sola delle due cose che il sopra detto nobile
scultore e maestro seppe fare perfettamente, cioè di raccozzare in
questo volume quasi le debite misure dell'arte della quale io tratto!
Perciò che l'altra di fare il secondo Regolo,
cioè di tenere et osservare ne' miei costumi le sopra dette misure,
componendone quasi visibile essempio e materiale statua, non posso io guari
oggimai fare, con ciò sia che nelle cose appartenenti alle maniere e
costumi degli uomini non basti aver la scientia e la regola, ma convenga oltre
a ciò, per metterle ad effetto, aver etiandio l'uso, il quale non si
può acquistare in un momento né in breve spatio di tempo, ma conviensi
fare in molti e molti anni: et a me ne avanzano, come tu vedi, oggimai pochi.
Ma non per tanto non dèi tu prestare meno di fede a questi
ammaestramenti, ché bene può l'uomo insegnare ad altri quella via per la
quale caminando egli stesso errò, anzi, per aventura, coloro che si
smarrirono hanno meglio ritenuto nella memoria i fallaci sentieri e dubbiosi
che chi si tenne pure per la diritta. E se nella mia fanciullezza, quando gli
animi sono teneri et arrendevoli, coloro a' quali caleva di me avessero saputo
piegare i miei costumi, forse alquanto naturalmente duri e rozzi, et
ammollirgli e polirgli, io sarei per aventura tale divenuto quale io ora
procuro di render te, il quale mi dèi essere non meno che figliuol caro.
Ché, quantunque le forze della natura siano grandi, non di meno ella pure
è assai spesso vinta e corretta dall'usanza, ma vuolsi tosto
incominciare a farsele incontro et a rintuzzarla prima che ella prenda
soverchio potere e baldanza; ma le più persone nol fanno, anzi, drieto
all'appetito sviate e sanza contrasto seguendolo dovunque esso le torca,
credono di ubidire alla natura, quasi la ragione non sia negli uomini natural cosa,
anzi ha ella, sì come donna e maestra, potere di mutar le corrotte
usanze e di sovenire e di sollevare la natura, ove che ella inchini o caggia
alcuna volta. Ma noi non la ascoltiamo per lo più, e così per lo
più siamo simili a coloro a chi Dio non la diede, cioè alle
bestie, nelle quali, non di meno, adopera pure alcuna cosa non la loro ragione
(ché niuna ne hanno per se medesime), ma la nostra; come tu puoi vedere che i
cavalli fanno, che molte volte -anzi sempre- sarebbon per natura salvatichi, et
il loro maestro gli rende mansueti et oltre a ciò quasi dotti e
costumati, perciò che molti ne andrebbono con duro trotto, et egli
insegna loro di andare con soave passo, e di stare e di correre e di girare e
di saltare insegna egli similmente a molti, et essi lo apprendono, come tu sai
che e' fanno. Ora, se il cavallo, il cane, gli uccelli e molti altri animali
ancora più fieri di questi si sottomettono alla altrui ragione et
ubidisconla et imparano quello che la loro natura non sapea, anzi ripugnava, e
divengono quasi virtuosi e prudenti quanto la loro conditione sostiene, non per
natura, ma per costume, quanto si dèe credere che noi diverremmo
migliori per gli ammaestramenti della nostra ragione medesima, se noi le
dessimo orecchie? Ma i sensi amano et appetiscono il diletto presente, quale
egli si sia, e la noia hanno in odio et indugianla, e perciò schifano
anco la ragione e par loro amara, con ciò sia che ella apparecchi loro
innanzi non il piacere, molte volte nocivo, ma il bene, sempre faticoso e di amaro
sapore al gusto ancora corrotto; perciò che mentre noi viviamo secondo
il senso, sì siamo noi simili al poverello infermo, cui ogni cibo,
quantunque dilicato e soave, pare agro o salso, e duolsi della servente o del
cuoco che niuna colpa hanno di ciò, imperò che egli sente pure la
sua propria amaritudine in che egli ha la lingua rinvolta, con la quale si
gusta, e non quella del cibo: così la ragione, che per sé è
dolce, pare amara a noi per lo nostro sapore, e non per quello di lei. E
perciò, sì come teneri e vezzosi, rifiutiamo di assaggiarla e
ricopriamo la nostra viltà col dire che la natura non ha sprone o freno
che la possa né spingere né ritenere: e certo, se i buoi o gli asini o forse i
porci favellassero, io credo che non potrebbon proferire gran fatto più
sconcia, né più sconvenevole, sentenza di questa. Noi ci saremmo pur
fanciulli e negli anni maturi e nella ultima vecchiezza, e così
vaneggeremmo canuti come noi facciamo bambini, se non fosse la ragione, che
insieme con l'età cresce in noi, e, cresciuta, ne rende quasi di bestie
uomini, sì che ella ha pure sopra i sensi e sopra l'appetito forza e
potere, et è nostra cattività e non suo difetto, se noi
trasandiamo nella vita e ne' costumi. Non è adunque vero che incontro
alla natura non abbia freno né maestro: anzi ve ne ha due, ché l'uno è
il costume e l'altro è la ragione, ma, come io ti ho detto poco di
sopra, ella non può di scostumato far costumato sanza l'usanza, la quale
è quasi parto e portato del tempo. Per la qual cosa si vuole tosto incominciare
ad ascoltarla, non solamente perché così ha l'uomo più lungo
spatio di avezzarsi ad essere quale ella insegna, et a divenire suo domestico
et ad esser de' suoi, ma ancora però che la tenera età, sì
come pura, più agevolmente si tigne d'ogni colore, et anco perché quelle
cose alle quali altri si avezza prima sogliono sempre piacer più. E per
questa cagione si dice che Diodato, sommo maestro di proferir le comedie, volle
essere tuttavia il primo a proferire egli la sua, come che degli altri che dovessero
dire innanzi a lui non fosse da far molta stima; ma non volea che la voce sua
trovasse le orecchie altrui avezze ad altro suono, quantunque verso di sé
peggior del suo. Poiché io non posso accordare l'opera con le parole, per
quelle cagioni che io ti ho dette, come il maestro Chiarissimo fece, il quale
seppe così fare come insegnare, assai mi fia l'aver detto in qualche
parte quello che si dèe fare, poiché in nessuna parte non vaglio a farlo
io; ma, perciò che in vedendo il buio si conosce quale è la luce
et in udendo il silentio sì si impara che sia il suono, sì potrai
tu, mirando le mie poco aggradevoli e quasi oscure maniere, scorgere quale sia
la luce de' piacevoli e laudevoli costumi. Al trattamento de' quali, che tosto
oggimai arà suo fine, ritornando, diciamo che i modi piacevoli sono
quelli che porgon diletto, o almeno non recano noia ad alcuno de' sentimenti,
né all'appetito, né all'imagination di coloro co' quali noi usiamo: e di questi
abbiamo noi favellato fin ad ora.
[ XXVI ] Ma tu
dèi oltre a ciò sapere che gli uomini sono molto vaghi della
bellezza e della misura e della convenevolezza, e, per lo contrario, delle
sozze cose e contrafatte e difformi sono schifi: e questo è spetial
nostro privilegio, ché gli altri animali non sanno conoscere che sia né
bellezza né misura alcuna; e perciò, come cose non comuni con le bestie,
ma proprie nostre, debbiam noi apprezzarle per sé medesime et averle care
assai, e coloro viepiù che maggior sentimento hanno d'uomo, sì
come quelli che più acconci sono a conoscerle. E come che malagevolmente
isprimere appunto si possa che cosa bellezza sia, non di meno, acciò che
tu pure abbi qualche contrasegno dell'esser di lei, voglio che sappi che, dove
ha convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto, quivi
è la bellezza: e quella cosa veramente “bella” si può chiamare,
in cui la detta misura si truova. E per quello che io altre volte ne intesi da
un dotto e scientiato uomo, vuole essere la bellezza uno quanto si può il
più e la bruttezza per lo contrario è molti, sì come tu vedi che sono i visi delle
belle e delle leggiadre giovani, perciò che le fattezze di ciascuna di
loro paion create pure per uno stesso viso; il che nelle brutte non adiviene,
perciò che, avendo elle gli occhi per aventura molto grossi e rilevati,
e 'l naso picciolo e le guance paffute, e la bocca piatta e 'l mento in fuori,
e la pelle bruna, pare che quel viso non sia di una sola donna, ma sia composto
d'i visi di molte e fatto di pezzi. E trovasene di quelle, i membri delle quali
sono bellissimi a riguardare ciascuno per sé, ma tutti insieme sono spiacevoli
e sozzi, non per altro, se non che sono fattezze di più belle donne e
non di questa una, sì che pare che ella le abbia prese in prestanza da
questa e da quell'altra: e per aventura che quel dipintore che ebbe ignude
dinanzi a sé le fanciulle calabresi, niuna altra cosa fece che riconoscere in
molte i membri che elle aveano quasi accattato chi uno e chi un altro da una
sola; alla quale fatto restituire da ciascuna il suo, lei si pose a ritrarre,
imaginando che tale e così unita dovesse essere la bellezza di Venere.
Né voglio io che tu ti pensi che ciò avenga de' visi e delle membra o
de' corpi solamente, anzi interviene e nel favellare e nell'operare né più
né meno, ché, se tu vedessi una nobile donna et ornata posta a lavar suoi
stovigli nel rignagnolo della via publica, come che per altro non ti calesse di
lei, sì ti dispiacerebbe ella in ciò, che ella non si mostrerebbe
pure “una”, ma “più”, perciò che lo esser suo sarebbe di monda e
di nobile donna e l'operare sarebbe di vile e di lorda femina; né perciò
ti verrebbe di lei né odore né sapore aspero, né suono né colore alcuno
spiacevole, né altramente farebbe noia al tuo appetito, ma dispiacerebbeti per
sé quello sconcio e sconvenevol modo e diviso atto.
[ XXVII ] Convienti
adunque guardare etiandio da queste disordinate e sconvenevoli maniere con pari
studio, anzi con maggiore che da quelle delle quali io t'ho fin qui detto,
perciò che egli è più malagevole a conoscer quando altri
erra in queste che quando si erra in quelle, con ciò sia che più
agevole si veggia essere il sentire che lo 'ntendere. Ma, non di meno,
può bene spesso avenire che quello che spiace a' sensi spiaccia etiandio
allo 'ntelletto, ma non per la medesima cagione, come io ti dissi di sopra,
mostrandoti che l'uomo si dèe vestire all'usanza che si vestono gli
altri, acciò che non mostri di riprendergli e di correggerli; la qual
cosa è di noia allo appetito della più gente, che ama di esser
lodata, ma ella dispiace etiandio al giudicio degli uomini intendenti,
perciò che i panni che sono d'un altro millesimo non s'accordano con la
persona che è pur di questo; e similmente sono spiacevoli coloro che si
vestono al rigattiere: ché mostra che il farsetto si voglia azzuffar co'
calzari, sì male gli stanno i panni indosso. Sì che molte di
quelle cose che si sono dette di sopra, o per aventura tutte, dirittamente si
possono qui replicare, con ciò sia cosa che in quelle non si sia questa
misura servata, della quale noi al presente favelliamo, né recato in uno et
accordato insieme il tempo e 'l luogo e l'opera e la persona, come si convenia
di fare, perciò che la mente degli uomini lo aggradisce e prendene
piacere e diletto: ma holle volute più tosto accozzare e divisare sotto
quella quasi insegna de' sensi e dello appetito che assegnarle allo 'ntelletto,
acciò che ciascuno le possa riconoscere più agevolmente, con
ciò sia che il sentire e l'appetire sia cosa agevole a fare a ciascuno,
ma intendere non possa così generalmente ogniuno, e maggiormente questo
che noi chiamiamo bellezza e leggiadria o avenentezza.
[ XXVIII ] Non si
dèe adunque l'uomo contentare di fare le cose buone, ma dèe
studiare di farle anco leggiadre: e non è altro leggiadria che una
cotale quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose che sono ben
composte e ben divisate l'una con l'altra e tutte insieme, sanza la qual misura
etiandio il bene non è bello e la bellezza non è piacevole. E
sì come le vivande, quantunque sane e salutifere, non piacerebbono
agl'invitati se elle o niun sapore avessero o lo avessero cattivo, così
sono alcuna volta i costumi delle persone, come che per se stessi in niuna cosa
nocivi, non di meno sciocchi et amari, se altri non gli condisce di una cotale
dolcezza, la quale si chiama (sì come io credo) gratia e leggiadria. Per
la qual cosa ciascun vitio per sé, sanza altra cagione, convien che dispiaccia
altrui, con ciò sia che i vitii siano cose sconcie e sconvenevoli
sì, che gli animi temperati e composti sentono della loro
sconvenevolezza dispiacere e noia. Per che innanzi ad ogni altra cosa conviene
a chi ama di esser piacevole in conversando con la gente il fuggire i vitii e
più i più sozzi, come lussuria, avaritia, crudeltà e gli
altri, de' quali alcuni sono vili (come lo essere goloso e lo inebriarsi),
alcuni laidi (come lo essere lussurioso), alcuni scelerati (come lo essere
micidiale): e similmente gli altri, ciascuno in se stesso e per la sua
proprietà è schifato dalle persone, chi più e chi meno,
ma, tutti generalmente, sì come disordinate cose, rendono l'uomo
nell'usar con gli altri spiacevole, come io ti mostrai anco di sopra. Ma perché
io non presi a mostrarti i peccati, ma gli errori, degli uomini, non dèe
esser mia presente cura il trattar della natura de' vitii e delle virtù,
ma solamente degli acconci e degli sconci modi che noi l'uno con l'altro
usiamo: uno de' quali sconci modi fu quello del Conte Ricciardo (del quale io
t'ho di sopra narrato), che, come difforme e male accordato con gli altri costumi
di lui belli e misurati, quel valoroso Vescovo, come buono et ammaestrato
cantore suole le false voci, tantosto ebbe sentito. Conviensi adunque alle
costumate persone aver risguardo a questa misura che io ti ho detto, nello
andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel vestire e
nelle parole e nel silentio e nel posare e nell'operare. Per che non si
dèe l'uomo ornare a guisa di femina, acciò che l'ornamento non
sia uno e la persona un altro, come io veggo fare ad alcuni che hanno i capelli
e la barba inanellata col ferro caldo, e 'l viso e la gola e le mani cotanto
strebbiate e cotanto stropicciate che si disdirebbe ad ogni feminetta, anzi ad
ogni meretrice, quale ha più fretta di spacciare la sua mercatantia e di
venderla a prezzo. Non si vuole né putire né olire, acciò che il gentile
non renda odore di poltroniero, né del maschio venga odore di femina o di
meretrice; né perciò stimo io che alla tua età si disdichino
alcuni odoruzzi semplici di acque stillate. I tuoi panni convien che siano secondo
il costume degli altri di tuo tempo o di tua conditione, per le cagioni che io
ho dette di sopra; ché noi non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro
senno, ma il tempo le crea, e consumale altresì il tempo. Puossi bene
ciascuno appropriare l'usanza comune; ché se tu arai per aventura le gambe
molto lunghe e le robe si usino corte, potrai far la tua roba non delle
più, ma delle meno, corte, e se alcuno le avesse o troppo sottili o
grosse fuor di modo, o forse torte, non dèe farsi le calze di colori
molto accesi, né molto vaghi, per non invitare altrui a mirare il suo difetto.
Niuna tua vesta vuole essere molto molto leggiadra, né molto molto fregiata,
acciò che non si dica che tu porti le calze di Ganimede o che tu ti sii
messo il farsetto di Cupido, ma, quale ella si sia, vuole essere assettata alla
persona e starti bene, acciò che non paia che tu abbi indosso i panni
d'un altro, e sopra tutto confarsi alla tua conditione, acciò che il
cherico non sia vestito da soldato e il soldato da giocolare. Essendo
Castruccio in Roma con Lodovico il Bavero in molta gloria e trionfo, Duca di
Lucca e di Pistoia e Conte di Palazzo e Senator di Roma e Signore e Maestro
della corte del detto Bavero, per leggiadria e grandigia si fece una roba di
sciamito cremesì, e dinanzi al petto un motto a lettere d'oro: “EGLI
È COME DIO VUOLE”, e nelle spalle di drieto simili lettere che diceano:
“E' SARÀ COME DIO VORRÀ”: questa roba credo io che tu stesso
conoschi che si sarebbe più confatta al trombetto di Castruccio che ella
non si confece a lui. E quantunque i re siano sciolti da ogni legge, non saprei
io tuttavia lodare il re Manfredi in ciò, che egli sempre si
vestì di drappi verdi. Debbiamo adunque procacciare che la vesta bene
stia non solo al dosso, ma ancora al grado, di chi la porta, et oltre a
ciò, che ella si convenga etiandio alla contrada ove noi dimoriamo, con
ciò sia cosa che sì come in altri paesi sono altre misure, e non
di meno il vendere et il comperare et il mercatantare ha luogo in ciascuna
terra, così sono in diverse contrade diverse usanze, e pure in ogni
paese può l'uomo usare e ripararsi acconciamente. Le penne che i
Napoletani e gli Spagniuoli usano di portare in capo e le pompe e i ricami male
hanno luogo tra le robe degli uomini gravi e tra gli abiti cittadini, e molto
meno le armi e le maglie; sì che quello che in Verona per aventura
converrebbe, si disdirà in Vinegia, perciò che questi così
fregiati e così impennati et armati non istanno bene in quella veneranda
città pacifica e moderata, anzi paiono quasi ortica o lappole fra le
erbe dolci e domestiche degli orti; e perciò sono poco ricevuti nelle
nobili brigate, sì come difformi da loro. Non dèe l'uomo nobile
correre per via, né troppo affrettarsi, ché ciò conviene a palafreniere
e non a gentiluomo, sanza che l'uomo s'affanna e suda et ansa, le quali cose
sono disdicevoli a così fatte persone. Né perciò si dèe
andare sì lento né sì contegnoso come femina o come sposa, et in
camminando troppo dimenarsi disconviene. Né le mani si vogliono tenere spenzolate,
né scagliare le braccia, né gittarle, sì che paia che l'uom semini le
biade nel campo, né affissare gli occhi altrui nel viso, come se egli vi avesse
alcuna maraviglia. Sono alcuni che in andando levano il piè tanto alto
come cavallo che abbia lo spavento, e pare che tirino le gambe fuori d'uno
staio; altri percuote il piede in terra sì forte che poco maggiore
è il romore delle carra; tale gitta l'uno de' piedi in fuori, e tale
brandisce la gamba; chi si china ad ogni passo a tirar sù le calze, e
chi scuote le groppe e pavoneggiasi: le quai cose spiacciono non come molto, ma
come poco avenenti. Ché, se il tuo palafreno porta per aventura la bocca aperta
o mostra la lingua, come che ciò alla bontà di lui non rilievi
nulla, al prezzo si monterebbe assai e troverestine molto meno, non perché egli
fosse per ciò men forte, ma perché egli men leggiadro ne sarebbe. E se
la leggiadria s'apprezza negli animali et anco nelle cose che anima non hanno
né sentimento, come noi veggiamo che due case ugualmente buone et agiate non
hanno perciò uguale prezzo se l'una averà convenevoli misure e
l'altra le abbia sconvenevoli, quanto si dèe ella maggiormente
procacciare et apprezzar negli uomini?
[ XXIX ] Non
istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar
l'uomo più che e' può di sputare e, se pure si fa, facciasi per
acconcio modo. Io ho più volte udito che si sono trovate delle nationi
così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi
tenercene per brieve spatio! Debbiamo etiandio guardarci di prendere il cibo
sì ingordamente che perciò si generi singhiozzo o altro
spiacevole atto, come fa chi s'affretta sì, che convenga che egli ansi e
soffi con noia di tutta la brigata. Non istà medesimamente bene a
fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi; né
risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese; né in levandosi da
tavola portar lo stecco a guisa d'uccello che faccia suo nido, o sopra
l'orecchia come barbieri, è gentil costume. E chi porta legato al collo
lo stuzzicadenti erra sanza fallo, ché, oltra che quello è uno strano
arnese a veder trar di seno ad un gentiluomo e ci fa sovenire di questi
cavadenti che noi veggiamo salir su per le panche, egli mostra anco che altri
sia molto apparecchiato e provveduto per li servigi della gola; e non so io ben
dire perché questi cotali non portino altresì il cucchiaio legato al
collo! Non si conviene anco lo abbandonarsi sopra la mensa, né lo empiersi di
vivanda amendue i lati della bocca sì che le guance ne gonfino; e non si
vuol fare atto alcuno per lo quale altri mostri che gli sia grandemente
piaciuta la vivanda o 'l vino, che sono costumi da tavernieri e da Cinciglioni.
Invitar coloro che sono a tavola e dire: -Voi non mangiate stamane?- o -Voi non
avete cosa che vi piaccia?- o -Assaggiate di questo, o di quest'altro- non mi
pare laudevol costume, tutto che il più delle persone lo abbia per
famigliare e per domestico, perché, quantunque ciò facendo mostrino che
loro caglia di colui cui essi invitano, sono etiandio molte volte cagione che
quegli desini con poca libertà, perciò che gli pare che gli sia
posto mente e vergognasi. Il presentare alcuna cosa del piattello che si ha
dinanzi non credo che stia bene, se non fosse molto maggior di grado colui che
presenta, sì che il presentato ne riceva onore, perciò che tra
gli uguali di conditione pare che colui che dona si faccia in un certo modo
maggior dell'altro e talora quello che altri dona non piace a colui a chi
è donato, sanza che mostra che il convito non sia abondevole
d'intromessi o non sia ben divisato, quando all'uno avanza et all'altro manca;
e potrebbe il signor della casa prenderlosi ad onta; non di meno in ciò
si dèe fare come si fa e non come è bene di fare, e vuolsi
più tosto errare con gli altri in questi sì fatti costumi che far
bene solo. Ma, che che in ciò si convenga, non dèi tu rifiutar
quello che ti è porto, ché pare che tu sprezzi e tu riprenda colui che
'l ti porge. Lo invitare a bere (la qual usanza, sì come non nostra, noi
nominiamo con vocabolo forestiero, cioè “far brindisi”) è verso
di sé biasimevole e nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso,
sì che egli non si dèe fare; e, se altri invitarà te,
potrai agevolmente non accettar lo 'nvito e dire che tu ti arrendi per vinto,
ringratiandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, sanza altramente bere.
E quantunque questo “brindisi”, secondo che io ho sentito affermare a
più letterati uomini, sia antica usanza stata nelle parti di Grecia, e
come che essi lodino molto un buon uomo di quel tempo che ebbe nome Socrate,
per ciò che egli durò a bere tutta una notte quanto la fu lunga a
gara con un altro buon uomo che si faceva chiamare Aristofane, e la mattina
vegnente in su l'alba fece una sottil misura per geometria, che nulla
errò, sì che ben mostrava che 'l vino non gli avea fatto noia; e
tutto che affermino oltre a ciò che, così come lo arrischiarsi
spesse volte ne' pericoli della morte fa l'uomo franco e sicuro, così lo
avezzarsi a' pericoli della scostumatezza rende altrui temperato e costumato,
e, perciò che il bere del vino a quel modo, per gara, abondevolmente e
soverchio è gran battaglia alle forze del bevitore, vogliono che
ciò si faccia per una cotal pruova della nostra fermezza e per avezzarci
a resistere alle forti tentationi e a vincerle: ciò non ostante a me
pare il contrario et istimo che le loro ragioni sieno assai frivole. E troviamo
che gli uomini letterati per pompa di loro parlare fanno bene spesso che il
torto vince e che la ragion perde, sì che non diamo loro fede in questo:
et anco potrebbe essere che eglino in ciò volessino scusare e ricoprire
il peccato della loro terra corrotta di questo vitio, con ciò sia che il
riprenderla parea forse pericoloso e temeano non per aventura avenisse loro
quello che era avenuto al medesimo Socrate per lo suo soverchio andare
biasimando ciascuno. Perciò che per invidia gli furono apposti molti
articoli di eresia et altri villani peccati, onde fu condannato nella persona,
come che falsamente, ché di vero fu buono e catolico secondo la loro falsa
idolatria; ma certo perché egli beesse cotanto vino quella notte nessuna lode
meritò, perciò che più ne arebbe bevuto o tenuto un tino!
E se niuna noia non gli fece, ciò fu più tosto virtù di
robusto cielabro, che continenza di costumato uomo. E che che si dichino le
antiche croniche sopra ciò, io ringratio Dio che, con molte altre
pestilenze che ci sono venute d'oltra monti, non è fino a qui pervenuta
a noi questa pessima, di prender non solamente in giuoco, ma etiandio in pregio
lo inebriarsi. Né crederò io mai che la temperanza si debba apprendere
da sì fatto maestro quale è il vino e l'ebrezza. Il siniscalco da
sé non dèe invitare i forestieri, né ritenergli a mangiar col suo
signore, e niuno aveduto uomo sarà che si ponga a tavola per suo invito:
ma sono alle volte i famigliari sì prosontuosi che quello che tocca al
padrone vogliono fare pure essi. (Le quali cose sono dette da noi in questo
luogo più per incidenza che perché l'ordine che noi pigliammo da
principio lo richiegga).
[ XXX ] Non si
dèe alcuno spogliare, e spetialmente scalzare, in publico, cioè
là dove onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel
luogo, e potrebbe anco avenire che quelle parti del corpo che si ricuoprono si
scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse. Né pettinarsi né lavarsi
le mani si vuole tra le persone, ché sono cose da fare nella camera e non in
palese, salvo (io dico del lavar le mani) quando si vuole ire a tavola,
perciò che allora si convien lavarsele in palese, quantunque tu niun bisogno
ne avessi, affinché chi intigne teco nel medesimo piattello il sappia certo.
Non si vuol medesimamente comparir con la cuffia della notte in capo, né
allacciarsi anco le calze in presanza della gente. Sono alcuni che hanno per
vezzo di torcer tratto tratto la bocca o gli occhi o di gonfiar le gote e di
soffiare o di fare col viso simili diversi atti sconci; costoro conviene del
tutto che se ne rimanghino, perciò che la dea Pallade -secondamente che
già mi fu detto da certi letterati- si dilettò un tempo di sonare
la cornamusa, et era di ciò solenne maestra. Avenne che, sonando ella un
giorno a suo diletto sopra una fonte, si specchiò nell'acqua e,
avedutasi de' nuovi atti che sonando le conveniva fare col viso, se ne
vergognò e gittò via quella cornamusa; e nel vero fece bene,
perciò che non è stormento da femine, anzi disconviene parimente
a' maschi, se non fossero cotali uomini di vile conditione che 'l fanno a
prezzo e per arte. E quello che io dico degli sconci atti del viso, ha
similmente luogo in tutte le membra, ché non istà bene né mostrar la
lingua, né troppo stuzzicarsi la barba, come molti hanno per usanza di fare, né
stropicciar le mani l'una con l'altra, né gittar sospiri e metter guai, né
tremare o riscuotersi (il che medesimamente sogliono fare alcuni), né
prostendersi e prostendendosi gridare per dolcezza: -Oimé, oimé!- come villano
che si desti al pagliaio. E chi fa strepito con la bocca per segno di
maraviglia e talora di disprezzo, si contrafà cosa laida, sì come
tu puoi vedere; e le cose contrafatte non sono troppo lungi dalle vere. Non si
voglion fare cotali risa sciocche, né anco grasse o difformi, né rider per
usanza e non per bisogno, né de' tuoi medesimi motti voglio che tu ti rida, che
è un lodarti da te stesso: egli tocca di ridere a chi ode e non a chi
dice! Né voglio io che tu ti facci a credere che, perciò che ciascuna di
queste cose è un picciolo errore, tutte insieme siano un picciolo
errore, anzi se n'è fatto e composto di molti piccioli un grande, come
io dissi da principio; e quanto minori sono, tanto più è di
mestiero che altri v'affisi l'occhio, perciò che essi non si scorgono
agevolmente, ma sottentrano nell'usanza che altri non se ne avede. E come le
spese minute per lo continuare occultamente consumano lo avere, così
questi leggieri peccati di nascosto guastano col numero e con la moltitudine
loro la bella e buona creanza: per che non è da farsene beffe. Vuolsi
anco por mente come l'uom muove il corpo, massimamente in favellando,
perciò che egli aviene assai spesso che altri è sì attento
a quello che egli ragiona che poco gli cale d'altro; e chi dimena il capo e chi
straluna gli occhi e l'un ciglio lieva a mezzo la fronte e l'altro china fino
al mento, e tale torce la bocca, et alcuni altri sputano addosso e nel viso a coloro
co' quali ragionano; trovansi anco di quelli che muovono sì fattamente
le mani come se essi ti volessero cacciar le mosche: che sono difformi maniere
e spiacevoli. Et io udii già raccontare (ché molto ho usato con persone
scientiate, come tu sai) che un valente uomo, il quale fu nominato Pindaro,
soleva dire che tutto quello che ha in sé soave sapore et acconcio fu condito
per mano della Leggiadria e della Avenentezza. Ora, che debbo io dire di quelli
che escono dello scrittoio fra la gente con la penna nell'orecchio? E di chi
porta il fazzoletto in bocca? O di chi l'una delle gambe mette in su la tavola?
E di chi si sputa in su le dita? E di altre innumerabili sciocchezze? le quali
né si potrebbon tutte raccorre, né io intendo di mettermi alla pruova: anzi, saranno
per aventura molti che diranno queste medesime che io ho dette essere
soverchie.