HOME   PRIVILEGIA NE IRROGANTO         di Mauro Novelli    

 

DOCUMENTAZIONE. DOSSIERE EURO-DOLLARO. INIZIA LA GUERRA

 


 

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INDICE

 

Il Sole 24 Ore 8-2-2008 A Manhattan i commercianti accettano euro

 

INDICE del 27 novembre al 18 dicembre 2007

INDICE dal 27 ottobre al 26 novembre 2007

 

L’Unità 28-9-2007 L'euro e il dollaro bucato Di Laura Pennacchi

L’Espresso 28-9-2007 Quel dollaro salva Usa di Massimo Riva

La Gazzetta del Sud 28-9-2007 Cambi, supereuro a un passo da 1,42. Ieri si è registrato un nuovo record per la lanciatissima valuta unica del Vecchio Continente arrivata a 1,4189 Cambi, supereuro a un passo da 1,42 Il mercato valutario punta dichiaratamente su un nuovo taglio dei Fed Funds Bianca Rebulla

Il Sole 24 Ore 22-9-2007 Il dollaro sul filo del rasoio di Mario Margiocco

Borsa e Finanza 22-9-2007 L'evento principale della settimana è l'ennesima caduta verticale del dollaro. ...

Milano Finanza 6-9-2007 Nella stagione dei subprime il dollaro resterà mini. Giuseppe Pennisi.

Aprileonline 5-9-2007 La bolla dei mutui, una crisi ovvia

Il Manifesto 19-7-2007"Al massimo una ripresina", dice il capo della Fed. Per colpa del petrolio E la fame di greggio colpisce l'America Maurizio Galvani

Liberoreporter.it 13-7-2007 Senza America Gilberto Borzini

Trend-online.com 13-7-2007 Euro/dollaro poco mosso a 1,3785

Reuters 13-7-2007 Mercato cambi, Almunia (Ue) ribadisce messaggio G7

Il Sole 24 Ore 13-7-2007 Wall Street sfida la paura derivati di Morya Longo

Il Sole 24 Ore 26-4-2007 L'euro ai massimi, crescita tedesca più forte di Riccardo Sorrentino

Da finanzaonline.com 13-4-2007  Trichet lancia l’euro sopra 1,35 contro il dollaro

Il Giornale di Brescia 7-4-2007 FMI Continua il momento positivo dell'economia: il Pil mondiale salirà nel 2007 di quasi il 5% Eurolandia accelera, gli Usa frenano

Il Giornale 4-4-2007 Sorpasso: Borse europee più ricche di Wall Street di Rodolfo Parietti -

Da Il Denaro 29-3-2007 Fmi: Cresce il peso dell'euro , dollaro più forte nei commerci

Da Caffeeuropa.it 16-3-2007 Economia: dai mercati nasceva l’Unione. Marc Guillaume con Luca Paltrinieri

La Stampa 19-3-2007 Sondaggio condotto dal Financial Times. Cittadini europei, vita peggiora dopo l'ingresso nell'Unione Europea

Il Sole 24 Ore Plus 17-3-2007 DIETRO I NUMERI di Fabrizio Galimberti

Da La Repubblica - Lettera finanziaria 27-2-2007 Euro sempre più appetibile per le Banche centrali

Da Borsa e Finanza 24-2-2007 Il bond piace, ma solo in euro di Gabriele Petrucciani

Da trend-online.it 13-2-2007 Euro forte contro dollaro. Probabile rialzo dei tassi in Europa a marzo

Da Reuters 6-2-2007 Giappone, min Finanze Omi parlerà a G7 di ripresa economica

Da La Repubblica 18-1-2007  Bernanke avverte: crisi in arrivo se non si riduce il deficit 2

Da Repubblica 18-1-2007 Bce: "Pronti a intervenire con fermezza per assicurare la stabilità dei prezzi" 2

(18 gennaio 2007)Da Almanacco della scienza (almanacco.rm.cnr.it) L'Europa sotto la lente del Cnr. L'euro? Conviene, ma nessuno lo sa  3

Da swissinfo.org (16-1-2007)  Un'isola in un mare di euro. Il franco svizzero difende la sua supremazia sul territorio elvetico (Keystone) 4

Da Panorama 15/1/2007  All'Italia il supereuro può costare 7 miliardi. Di  Anna Maria Angelone  5

Da Repubblica 15-1-2007-01-12Se l’Europa cresce più degli Usa  MARCELLO DE CECCO  5

DA 01.net/Mercato  11-1-2007  Per l'high tech un dollaro vale un euro.  Luigi Ferro  7

Da altrenotizie.org  L’ORO DI PERSIA di Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro  8

D a Repubblica 4-1-2007 Il dollaro rialza la testa e  schiaccia l'euro sotto quota 1,31  9

Nelle riserve di valuta estera lo scettro resta al dollaro  9

Da AGI 29-12-2006  L'euro batte il dollaro, e' sorpasso. 10

Da L’Espresso 29-12-2006- Moneta unica in ascesa pronta a scavalcare il dollaro  11

Da Repubblica.it 29-12-2006.  Liquidità sempre elevata. La Bce alzerà ancora i tassi 11

Da denaro.it 29-12-2006  Emirati Arabi . L’8 per cento delle riserve sarà convertito dal dollaro all’euro  12

Da Il Sole 24 Ore. Petrolio, Opec verso nuovo taglio della produzione  P. F. 12

Da isolapossibile.it  21-12-2006  Guerre e crollo dell’’economia mondiale  13

Da soldionline 20-12-2006 Guerra al dollaro o mera diversificazione? di Pierluigi De Nittis 14

Da L’Espresso 18-12-2006 L'Iran dice addio al dollaro e converte tutto in euro  15

Da Il Sole 24 Ore 18-12-2006  Euro: Bruxelles non incoraggia uso come petromoneta  15

Da trend-online.com 15-12-2006  M.Briganti (Morningstar): regali in euro sotto l’albero  16

Da aprileonline.it 7-12-2006  La linea tedesca  17

Da Repubblica 30-11-2006  Il declino del dollaro  18

 


Il Sole 24 Ore 8-2-2008 A Manhattan i commercianti accettano euro

 

 

La regina (un tempo) delle valute umiliata a Manhattan. Qua e là per le vetrine di New York, racconta Reuters Television, stanno spuntando cartelli che annunciano: «si accettano euro». Il modo più diretto per ricordare il costante declino che la moneta americana ha subìto negli ultimi mesi. Quei cartelli non stupirebbero al confine con il Canada, dove i commercianti sono abituati a scambiarsi dollari canadesi, oppure in una bottega del Texas, che non rifiuta i pesos messicani. Ma a Manhattan non si era mai visto accettare valute straniere.

«Dobbiamo adeguarci», spiegano i negozianti: l'euro forte ha portato in città una quantità record di turisti del Vecchio continente. «È incredibile il mucchio di euro che puoi fare in un giorno », dice alla Reuters Robert Chu, proprietario di un negozio di vini nell'East Village.

Ma in tempi di crisi, sono in molti a prenderla male. La storia di Reuters Television ha acceso i dibattiti sul web. «Neppure gli americani vogliono più i dollari! », commenta un lettore. «Io vivo in Ohio - dice un altro - e quando le imprese da queste parti cominciano ad accettare euro... capisco che siamo fregati!». «Presto - ci si preoccupa - per comprare una michetta di pane avremo bisogno di un camion carico di dollari». C'è chi si stupisce che ormai non accettino solo oro o argento. Nel frattempo, si allarma un altro, alcuni negozianti al confine - ma dalla parte del Canada- non accettano più i dollari. Statunitensi. (a.s.)

 

 


INDICE DAL 27 NOVEMBRE AL 18 DICEMBRE 2007

 

Scenari il tramonto del dominio del dollaro, la differenza rispetto a 30 anni fa ( da "Riformista, Il" del 30-11-2007)

Dannata guerra euro-dollaro ( da "Tirreno, Il" del 30-11-2007)

Altro che petrolio, questa è una guerra tra euro e dollaro ( da "Unita, L'" del 30-11-2007)

Cambio euro/dollaro in leggero rialzo a 1,4685 ( da "Trend-online" del 12-12-2007)

Euroforex direct: Dollaro in forte recupero ( da "Trend-online" del 14-12-2007)


Scenari il tramonto del dominio del dollaro, la differenza rispetto a 30 anni fa (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Riformista, Il" del 30-11-2007)

 

Scenari il tramonto del dominio del dollaro, la differenza rispetto a 30 anni fa I subprime sono unicamente la miccia della polveriera americana È fallito il tentativo di far fronte agli squilibri finanziari e alla fine del primato della moneta statunitense importando investimenti Quanto pesa la crisi finanziaria internazionale? L'identikit dell'indagato somiglia a quei disegni approssimati che, a volte, accompagnano le indagini di polizia. Tratti somatici incerti, scarsa profondità dei lineamenti, viso sfuggente. Poi si scopre che i subprime, incorporati nei titoli spazzatura che le banche hanno trasferito nei fondi e che questi ultimi hanno diffuso tra ignari risparmiatori, colpiscono all'improvviso. E le perdite in borsa diventano palpabili. Su base annua, tanto per fare un esempio, Unicredit ha già perso il 17,15 per cento. Quanto sia con precisione l'importo di questi titoli non è dato da sapere. L' Economist ha calcolato che solo negli Usa ammontino almeno ad un quinto dei mutui concessi. A guardar bene, un importo elevato, ma non tale da far tremare un mercato di trilioni di dollari. Cresciuto in Europa e negli Usa 10 volte il Pil, negli ultimi 20 anni. Ed allora? Sarebbe sbagliato soffermarsi solo su queste dimensioni. A volte una slavina è generata da una piccola palla di neve che scivola dall'alto di una montagna. È un po' quanto sta avvenendo nei grandi mercati finanziari. Troppo grandi per essere controllati da una qualsiasi autorità pubblica. Troppo intrecciati con i sottostanti fenomeni politici ed economici che, in una prospettiva di medio periodo, ne determinano gli andamenti effettivi. A cui riandare per cogliere il dato reale della crisi. In passato, gli accordi di Bretton Woods furono travolti dalla guerra del Vietnam e dalle difficoltà connesse con il suo finanziamento. Oggi, pur con mille differenze, la chiave di lettura non è poi così diversa. Ancora una volta una guerra: non solo l'Iraq. Ancora una volta il problema del suo finanziamento. L'interrogativo è sempre lo stesso: chi ne paga i relativi costi? In misura rilevante gli stessi Stati Uniti. Gli alleati occidentali danno una mano, ma il loro contributo finanziario è limitato. Ma come pagano? Sono forse i contribuenti americani a sostenerne l'onere? La risposta è negativa. Come nel caso del Vietnam, è il deficit di bilancio a sostenerne il peso. Ma un eccesso di deficit pubblico porta con se uno squilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Nasce allora, se si vuole evitare una crisi valutaria, il problema di un finanziamento estero di carattere compensativo. Durante gli anni della "sporca guerra", la quadratura del cerchio era data dalla creazione di moneta. Si potevano stampare dollari per far fronte ai costi del conflitto. La moneta verde finiva, infatti, nelle riserve delle banche centrali, che la sterilizzavano provvisoriamente nei loro forzieri. Era una moneta sempre più inflazionata, come mostrerà l'esperienza degli anni '70. Ma prima che il fenomeno si manifestasse c'era comunque il tempo necessario per condurre a termine le operazioni militari, nella speranza di un successo sempre annunciato, ma mai conseguito. Scelta tutt'altro che indolore per gli stessi Stati Uniti. Il prezzo pagato allora fu la perdita di un primato ed il dollaro cessò di essere l'equivalente esclusivo negli scambi internazionali. Ancora oggi resta un'importante moneta di riserva, ma non è più la sola. L'euro campeggia in Europa, lo yen negli scambi interasiatici. Gli Usa non sono più in grado di esercitare il loro diritto di signoraggio. Alla perdita di questo primato hanno dovuto sostituire un sofisticato meccanismo di riciclaggio. Dai paesi in surplus (Cina, India e produttori di petrolio) un flusso costante di dollari è approdato negli Usa sotto forma di investimenti. Dapprima sono stati acquistati titoli del tesoro, quindi obbligazioni ed azioni. Infine immobili. Questo ritorno ha consentito di riequilibrare la bilancia dei pagamenti e sostenere, per un lungo periodo, il valore del dollaro. Poi il meccanismo si è inceppato. I flussi sono diminuiti, mentre il deficit pubblico (intorno al 4 per cento del Pil) rimaneva stabile ed i tassi di interesse - la principale forza di attrazione dei fondi a breve - subivano una progressiva riduzione per far fronte ai primi segnali di turbolenza. Ed è stata la crisi, con il dollaro in caduta libera nei confronti delle aree monetarie più forti. Le modalità di finanziamento, implicite in questo modello di riequilibrio, avevano un tallone d'Achille. Incidevano direttamente sulla liquidità complessiva, spingendo verso il basso la struttura dei tassi di interessi. Non solo sul mercato interno americano, ma coinvolgendo - visto il sistema dei vasi comunicanti - tutti i principali paesi. L'eccesso di liquidità, a sua volta, accresceva il valore delle attività finanziarie: dapprima i titoli azionari, quindi dopo lo scoppio dell'inevitabile bolla speculativa, gli immobili. Tra il 1997 ed il 2006, il prezzo medio delle abitazioni, secondo S&P, è aumentato negli Usa del 124 per cento, in Gran Bretagna del 194, in Spagna del 180 ed in Irlanda addirittura del 253 per cento. Non si sviluppava, invece, - e questa era una stranezza solo apparente - l'inflazione. Non cresceva a causa delle importazioni a basso prezzo proprio dei beni prodotti da quei paesi che accumulavano le riserve valutarie. Che ormai invadevano i mercati opulenti dell'Occidente. Qui la domanda era sostenuta soprattutto dal cosiddetto "effetto ricchezza": vale dire dalla continua rivalutazione degli asset - principalmente il valore delle abitazioni - che rappresentava una nuova forma di risparmio. L'intero reddito percepito, quando non si faceva ricorso all'indebitamento, poteva essere, quindi, speso dalle famiglie, senza preoccuparsi del proprio futuro. Una grande catena di Sant'Antonio: che funziona fin quando aumentano i giocatori, ma si spezza all'improvviso, quando un piccolo intoppo ne interrompe gli ingranaggi. I subprime sono stati appunto questo piccolo cuneo. Le banche, spinte dalla concorrenza, erano costrette a concedere credito, senza guardare troppo per il sottile. Tanto c'erano gli immobili a garantire la loro esposizione. Se le rate divenivano troppo alte, si potevano erogare supplementi di finanziamento. Tanto il maggior valore degli immobili era in grado di coprire l'accresciuto rischio. L'ingranaggio ha funzionato fin quanto il rapporto tra saggio di interesse e crescita del valore degli asset è stato compatibile. Quando questo equilibrio si è rotto, la ruota ha cominciato a girare al contrario. Sono allora iniziate le prime insolvenze. Quindi le vendite coatte, che hanno determinato un eccesso di offerta ed il crollo dei prezzi delle abitazioni. Ed è stato l'inizio della fine. Le banche che, nel frattempo, avevano trasferito i loro crediti, divenuti spazzatura, nei nuovi veicoli finanziari, si sono trovate scoperte, con il valore di questi ultimi che precipitavano. E poiché altri istituti di credito ne avevano finanziato la circolazione, il credito inter bancario si è bloccato. Inceppandosi il sistema finanziario, Cina, India e paesi produttori di petrolio sono divenuti più guardinghi. Hanno ridotto i loro investimenti. Il dollaro, non più coperto dal paracadute finanziario del riciclaggio, è crollato nei confronti dell'euro. Le banche centrali hanno reagito alla crisi immettendo ulteriore liquidità nel mercato. Ma questa mossa non ha rimosso le cause che sono all'origine della crisi di fiducia del sistema bancario. Ha invece alimentato la rincorsa verso i beni materiali. Il forte aumento intervenuto nei prezzi del petrolio e nelle materie prime ne sono la dimostrazione più evidente. Qualcosa, quindi, si è rotto nei grandi equilibri mondiali. Nessun crollo, per carità. Ma l'avvio di una nuova fase dai contorni ancora incerti. E sulla quale sarà necessario avviare un'attenta riflessione. 30/11/2007.


Dannata guerra euro-dollaro (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Tirreno, Il" del 30-11-2007)

 

ECONOMIA DANNATA GUERRA EURO-DOLLARO L'economia statunitense sta bruscamente rallentando. La prova è giunta dal vicegovernatore della Federal Reserve, Donald Kohn, che ha annunciato la disponibilità della banca centrale Usa a nuovi tagli al costo del denaro per sostenere i consumi e gli investimenti a stelle e strisce. A spingere in questa direzione sono soprattutto la crisi del fondamentale settore immobiliare - che non è riuscito a smaltire gli effetti della crisi dei mutui subprime - e le paure di un raffreddamento della Borsa, dopo i dati preoccupanti di diverse grandi società, da cui tanto dipendono le sorti di milioni di cittadini americani. Una simile ipotesi, al di là di qualche felice rimbalzo dei listini, rischia però di provocare pesanti conseguenze in giro per il mondo, a partire dall'Europa. L'eventuale ribasso dei tassi interbancari statunitensi, attualmente al 4,5 potrebbe causare un ulteriore indebolimento del dollaro, di cui beneficerebbe la bilancia commerciale Usa ma che spingerebbe l'euro a livelli pericolosamente alti. Euro forte e dollaro debole determinano un quadro molto particolare soprattutto in relazione alla moneta della Cina, senza dubbio la principale realtà emergente del mercato internazionale. Gli enormi interessi che legano l'economia cinese agli Usa, dalla gigantesca massa di dollari e di titoli del Debito pubblico statunitense posseduti dalle banche cinesi all'altrettanto colossale avanzo della bilancia commerciale, hanno convinto le autorità monetarie di Pechino a rivalutare il dollaro rispetto allo yuan nonostante le ormai palesi incertezze del sistema economico Usa: sarebbero troppo marcati i danni per la Cina da un ulteriore deprezzamento del biglietto verde, vista la compenetrazione tra le due economie. Diverso è invece il caso dell'Unione Europea, con cui la Cina sta facendo affari sempre maggiori. Il deficit commerciale dell'area euro nei confronti della Cina è cresciuto nel giro di pochi mesi del 25%, toccando ad agosto i 70 miliardi; una vera e propria invasione di merci e servizi, favorita da un cambio decisamente favorevole per la moneta cinese, che si stima sottovalutata del 30% rispetto all'euro e che le autorità di Pechino si mostrano decisamente riluttanti a rivalutare anche dopo aver subito le pressioni della recente delegazione comunitaria, guidata dal presidente della Banca centrale europea. La strategia dei vertici economici cinesi è chiara e mira a stabilire un diverso trattamento nei confronti di dollaro e euro; la moneta Usa è quella che compone la stragrande maggioranza delle attività e delle riserve delle Cina, dunque non può perdere troppo valore, mentre l'euro non è ancora la "moneta" dei cinesi e pertanto l'economia dell'ex impero celeste ha tutto l'interesse a vederla rafforzata per poter meglio aggredire il mercato europeo, dove peraltro il volume degli scambi con la Cina mostra grandi margini di crescita. Ma se il prossimo futuro ci riserverà un nuovo indebolimento del dollaro, reso possibile appunto dalla rivalutazione "selettiva" operata a suo vantaggio dalla Cina, e un rafforzamento dell'euro sia nei confronti del dollaro stesso sia nei confronti dello yuan, le cose per l'economia del Vecchio continente tenderanno a complicarsi viste le molteplici difficoltà che incontrerà ad esportare. Questo dovrebbe indurre a pensare che occorrerà coltivare attentamente i consumi interni dell'area euro sia da parte dei governi nazionali, attraverso adeguate politiche fiscali e di tutela del potere d'acquisto, sia ad opera delle imprese, che dovranno mostrarsi decisamente avvertite nella costruzione delle loro filiere e delle loro reti, magari trovando un coerente sostegno nelle medesime politiche pubbliche. Alessandro Volpi Università di Pisa.


Altro che petrolio, questa è una guerra tra euro e dollaro (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Unita, L'" del 30-11-2007)

 

Stai consultando l'edizione del ANALISI Due libri "Euroil" e "La minaccia nucleare" disegnano interessanti scenari dei conflitti per il possesso delle fonti energetiche Altro che petrolio, questa è una guerra tra euro e dollaro di Gabriel Bertinetto Due saggi, due temi, due tesi. Ma letti in successione per qualche aspetto paiono completarsi l'un l'altro. Euroil di Paolo Conti ed Elido Fazi e La minaccia nucleare di Maurizio Simoncelli, esaminano le tensioni internazionali storicamente connesse all'estrazione del greggio ed alla trasformazione dell'atomo. Produzione, commercio e ricerca nei due settori energetici di maggiore rilevanza strategica sono terreno di scontro, non sempre solo diplomatico, fra i Paesi interessati, come insegnano le due guerre combattute nel Golfo nel 1991 e nel 2003. Se i giacimenti di petrolio sono fonte di immensa ricchezza, il possesso delle tecnologie nucleari può essere anche strumento di enorme potenza militare. Ma i due opuscoli non si limitano a descrivere dettagliatamente i diversi aspetti della grande zuffa mondiale per l'approvvigionamento ed il controllo delle risorse e per la limitazione o lo sviluppo degli arsenali. Dalla lettura emerge anche una chiave interpretativa inedita delle rivalità fra gli Stati che a quella zuffa partecipano. Secondo Conti e Fazi, sia il rovesciamento di Saddam, sia la fortissima pressione Usa sull'Iran, foriera di una nuova possibile avventura bellica, avrebbero altre spiegazioni rispetto a quelle normalmente individuate dagli analisti occidentali. La guerra irachena viene spesso semplicisticamente spiegata come parte di una strategia americana volta a mettere le mani sul petrolio. Detto in maniera più elaborata, Bush avrebbe cercato di installare in Iraq un governo amico, per rimediare alla crescente instabilità ed inaffidabilità dell'alleato regime saudita. Baghdad come alternativa a Riyad, per garantirsi l'accesso ai pozzi ed anche per disporre di un solido baluardo contro la minaccia di Stati od organizzazioni terroristiche anti-occidentali. Euroil non nega la validità di questi argomenti, ma ne aggiunge altri, citando Krassimir Petrov che su Financial sense online ha scritto: "La guerra di Bush in Iraq non fu condotta per le armi di distruzione di massa, né per difendere i diritti civili o per portare la democrazia nel Paese. E nemmeno per difendere i pozzi di petrolio. Fu condotta per difendere il dollaro, ovvero l'impero americano. E anche per dare un esempio: chiunque in futuro avesse cercato di vendere il petrolio in valute alternative avrebbe subito la medesima punizione". Petrov si riferiva alla iniziativa presa da Saddam nel 2000, di convertire in euro il fondo iracheno presso l'Onu nel quadro del programma "Oil for food". Si trattava di un piano di finanziamenti varato nel 1995 dalle Nazioni Unite per ridurre gli effetti delle sanzioni internazionali sul popolo iracheno, consentendo di vendere l'oro nero in cambio di cibo, medicine e altri aiuti umanitari. Un altro studioso, William Clark, in Petrodollar warfare ha scritto due anni fa che "non è chiaro se fu Saddam a concepire l'idea di creare i petroeuro o se furono i funzionari della Ue a suggerirglielo", ma ha concluso che comunque "la guerra in Iraq equivalse di fatto ad un chiaro messaggio nei confronti dell'Opec e degli altri produttori di petrolio: non procedete nella transizione verso l'euro". Il messaggio è stato recepito? Secondo gli autori di Euroil si direbbe di no. A tal punto che gli Usa starebbero vivendo ora gli stessi timori nel contesto della crisi nucleare iraniana. Nell'aprile del 2005 Teheran annunciò il progetto di aprire nell'isola di Kish una Borsa riservata al mercato degli idrocarburi, nella quale le transazioni si svolgerebbero in euro e non in dollari. Il progetto sinora non è andato in porto, ma incombe come una spada di Damocle sul futuro dell'economia americana che è fortissimamente dipendente dalla centralità del biglietto verde nell'economia globale. "Il dollaro - scrivono Conti e Fazi - è in sostanza la moneta di riserva mondiale" e questo permette agli Usa di convivere con un deficit annuo della bilancia dei pagamenti superiore ad 850 miliardi di dollari, il record negativo mondiale. Se l'euro subentrasse al dollaro come valuta per la compranvendita del petrolio, il peso della moneta americana sarebbe radicalmente ridimensionato, l'economia a stelle e strisce ne soffrirebbe in maniera drammatica. Anche per evitare questo rischio letale, l'amministrazione Bush potrebbe lasciarsi tentare da una nuova avventura bellica, ancora una volta mascherata dietro all'obiettivo di sventare la minaccia portata da un Paese che tenta di procurarsi armi di distruzione di massa. L'Iran stavolta. Le cui autorità definiscono il proprio programma atomico finalizzato a produrre energia per usi civili, senza però riuscire a fugare i sospetti della comunità internazionale e non dei soli Usa. Nel suo studio Simoncelli dedica molte pagine alle attività nucleari di Teheran ed al confronto diplomatico serrato con gli Usa, la Ue, la Russia, mettendo in evidenza come al momento sia però difficile prevedere sviluppi in un senso o in un altro.


Cambio euro/dollaro in leggero rialzo a 1,4685 (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Trend-online" del 12-12-2007)

 

FOREX, clicca qui per leggere la rassegna di Fta , 12.12.2007 13:21 Scopri le migliori azioni per fare trading questa settimana!! Dopo qualche ora dall'apertura delle contrattazioni nelle piazze finanziarie del Vecchio Continente la moneta unica viene scambiata a 1,4685 rispetto al biglietto verde, in leggero rialzo sia rispetto alle ultime rilevazioni della Banca Centrale Europea (1,4670) sia rispetto ai valori registrati in tarda serata di ieri a New York (1,4655). Scende la divisa europea rispetto alla moneta giapponese, l'euro vale 163,25 yen dai 164,25 yen delle indicative della BCE della giornata scorsa. Il biglietto verde guadagna terreno rispetto alla valuta nipponica, il rapporto di cambio tra dollaro/yen quota, infatti, in area 111,15 da 110,65 dell'ultima chiusura di Wall Street. La moneta unica sta guadagnando qualche punto nei confronti del dollaro sulla scia delle attese degli investitori su un aumento del disavanzo commerciale degli Stati Uniti nei confronti delle altre economie internazionali. Secondo le previsioni degli analisti il deficit dovrebbe evidenziare, nel mese di ottobre, un incremento da 56,45 a 57,2 miliardi di dollari, portando cosi' l'amministrazione Bush a desiderare un dollaro debole per favorire le esportazioni. Ieri la Federal Reserve ha confermato le attese degli economisti. La commissione operativa della banca centrale statunitense (Fomc-Federal Open Market Committee) ha deciso di ridurre il costo del denaro USA di 25 punti base, portando i tassi di riferimento dal 4,50% al 4,25%. E' la terza volta consecutiva che la FED sceglie di applicare una politica monetaria espansiva (a settembre i tassi di interesse erano scesi di 50 basis points dal 5,25% al 4,75%, a ottobre di 25 bps dal 4,75% al 4,50%). La giornata odierna si presenta abbastanza ricca d'appuntamenti macroeconomici di particolare rilevanza. Gli addetti ai lavori attendono dagli Stati Uniti alle 14,30 italiane i prezzi alle importazioni segue pagina >>.


Euroforex direct: Dollaro in forte recupero (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Trend-online" del 14-12-2007)

 

FOREX, clicca qui per leggere la rassegna di Euroforex www.euroforex.com, 14.12.2007 17:17 Scopri le migliori azioni per fare trading questa settimana!! Il forte supporto a 1,4520 ha ceduto: le vendite su euro dollaro sono cominciate in mattinata,per proseguire poi tutto il giorno. I dati di oggi hanno confermato da un lato e l'altro dell'Atlantico il pericolo inflattivo,ma il mercato ha premiato la moneta americana. Graficamente,individuiamo sul cross euro dollaro un testa-spalle,la cui neck è stata violata;la proiezione è alquanto ambiziosa,perciò ci limitiamo a citare i supporti statici più evidenti,posti in area 1,43. Resta il fatto che un movimento da 200 punti non può esser trascurato,perciò valuteremo con attenzione un eventuale pull back a 1,4520 stesso e,condizione necessaria al ribasso del cambio, la non ulteriore estensione. La forza del dollaro si è palesata anche negli altri cross,il cable ha sfiorato 2,02 e ha come target di brevissimo 2,0180 e poi 2,01 area. Il cambio che contrappone il dollaro alla moneta giapponese,invece,si è portato a ridosso di importanti resistenze: tra 113,5 e 114,5 il cross ha una serie di pivot points rilevanti. Citiamo oggi,vista la valenza come figura grafica,anche il break ribassista del cambio dollaro australiano contro americano che ha rotto il box che lo conteneva . Area 0,89 e 0,8650 disegnavano il box citato,la cui rottura ha impartito volatilità al cambio che ha raggiunto 0,86 figura. Fa eccezione oggi il solo dollaro canadese,che ha superato in performance il cugino americano. Contro euro,ha guadagnato due figure piene,segnalando un recupero deciso dopo le perdite degli ultimi giorni. Area 1,67 si è dimostrata ostica da superarsi per il cross euro franco svizzero,che ha ceduto fino a 1,6640,per poi stabilizzarsi a 1,6650. Il parallelo euro yen giapponese,invece,ha lasciato gli onori al dollaro muovendosi tutto sommato con poca volatilità. Le monete da investimento,a basso tasso,quali yen e franco si misurano segue pagina >>.

 

 

INDICE dal 27 ottobre al 26 novembre 2007

 

 

L'euro-dollaro fa rotta verso 1,45 ( da "Borsa e Finanza" del 27-10-2007)

Il dollaro in pericolo ( da "Eco di Bergamo, L'" del 01-11-2007)

Sabina Morandi ( da "Liberazione" del 02-11-2007)

"Euroil", un saggio di Paolo Conti ed Elido Fazi. Cosa succede se Teheran decide di legarsi ai mercati di Unione Europea, Cina e Russia? Con una economia non più foraggiata gli Usa ( da "Liberazione" del 02-11-2007)

Benedetto minidollaro ( da "Milano Finanza" del 03-11-2007)

Euro/dollaro in continuo rialzo a 1,4654 ( da "SpyStocks" del 07-11-2007)

Pechino fa affondare il dollaro ( da "Sole 24 Ore, Il" del 08-11-2007)

L'EURO a livelli record rispetto al dollaro e il petrolio che ( da "Nazione, La (Pistoia)" del 09-11-2007)

Bancor 3 Trend divergenti delle banche centrali ( da "Riformista, Il" del 09-11-2007)

Una correlazione poco stabile ( da "Milano Finanza" del 10-11-2007)

Credito facile, chi paga il conto della festa ( da "Affari e Finanza (La Repubblica)" del 12-11-2007)

Se il dollaro affonda ( da "Tirreno, Il" del 14-11-2007)

Euro/dollaro poco mosso a 1,4640 ( da "Trend-online" del 19-11-2007)

ECONOMIA USA PIÙ FORTE DI QUANTO MOSTRA DOLLARO-B.SMAGHI ( da "Wall Street Italia" del 24-11-2007)

Economia Usa più forte di quanto mostra dollaro-B.Smaghi ( da "Reuters Italia" del 24-11-2007)

PUNTO 1-Economia Usa più forte di quanto mostra dollaro-B.Smaghi ( da "Websim" del 24-11-2007)

Dalla prima pagina La crisi profonda ( da "Libertà" del 26-11-2007)


Articoli

L'euro-dollaro fa rotta verso 1,45 (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Borsa e Finanza" del 27-10-2007)

 

ANALISI TECNICA L'euro-dollaro fa rotta verso 1,45 Probabile breve rimbalzo del biglietto verde nei confronti della moneta europea Ma una volta raggiunto il target si intravede la possibile inversione del trend di Redazione - 27-10-2007 Il trend al rialzo del cambio euro-dollaro appare inarrestabile. Dopo l'apertura in gap a inizio settimana, e il conseguente raggiungimento dei massimi storici in area 1,4350, abbiamo assistito a un rapido e consistente recupero della divisa americana che, durante la stessa giornata, ha ripiegato fino a 1,4125. Tale recupero, a prima vista preludio ad una inversione più consistente e di lungo periodo, si è rivelato un fuoco di paglia. In realtà la successiva ripresa dell'euro, lenta ma costante, che sta portando il cross nuovamente sui massimi del 22 ottobre, ci dice che si è trattato, in realtà, di una correzione di breve periodo dovuta al posizionamento di stop loss posti sotto i massimi precedenti (1,4280). La salita della divisa europea, pertanto, appare ancora strutturale. E il mercato, posizionato lungo di euro, sembra voler andare a cercare livelli che in realtà abbiamo visto prima della nascita della moneta unica con il cambio sintetico EcuUsd in area 1,4550 nel 1995. La situazione macroeconomica Usa non aiuta certo la valuta americana, indebolita da una congiuntura che appare in continuo peggioramento e con il mercato immobiliare ancora in crisi. Tutto ciò getta le premesse per una ulteriore riduzione dei tassi di interesse americani da parte della Federal Reserve nella prossima riunione del 31 ottobre. A nostro avviso siamo di fronte, dunque, a una debolezza generalizzata del biglietto verde contro tutte le divise, ad eccezione dello yen (ma questa non è più una novità), più che di forza intrinseca dell'euro. Il rallentamento dell'economia nord-americana causerà con ogni probabilità una contrazione della crescita globale, incidendo quindi sull'economia europea, almeno nel medio periodo. Probabilmente la prossima riunione della Bce terminerà perciò con un nulla di fatto, ma ciò non significa che nei prossimi mesi, il rallentamento della crescita economica congiuntamente ad una flessione della crescita dei prezzi, non porti ad una decisione di una riduzione dei tassi anche nell'area euro. Se è vero che siamo in una fase di diversificazione dei portafogli delle Banche centrali, orientate a vendere dollari Usa e a comprare soprattutto euro, è altrettanto vero che sia gli istituti monetari possessori di enormi quantità di dollari, sia i fondi e gli investitori istituzionali, detentori di ingenti quantità di assets denominati in dollari, hanno interesse a una svalutazione eccessiva della divisa americana. Il mercato dei cambi ci insegna però che un trend può protrarsi per tempi molto prolungati, e fino a livelli che fino a poco tempo prima sarebbero stati considerati impensabili, mettendo a dura prova i nervi anche dei gestori più esperti e freddi. Proprio quando il mercato non crede più nella inversione, in modo improvviso ed imprevisto questa si realizza. È per questa ragione che riteniamo che dopo aver visto i massimi "sintetici" in area 1,4550 partirà un movimento di inversione. E l'obiettivo potrà estendersi fino in area 1,3000.


Il dollaro in pericolo (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Eco di Bergamo, L'" del 01-11-2007)

 

Tancredi Bianchi Dall'entrata in circolazione dell'euro ad oggi, il dollaro americano ha perso circa il 20% del proprio valore (da un cambio di 1,18 a 1,4504 di ieri). Nel frattempo il dollaro si era però molto apprezzato: dai massimi valori raggiunti, nei primi anni del terzo millennio, ad oggi si è deprezzato rispetto all'euro di circa il 42% (da un cambio di 0,84 a 1,4504). L'ampiezza delle oscillazioni del cambio euro-dollaro è pertanto notevole, ma non ha, per ora, fatto perdere alla moneta degli Stati Uniti la funzione di valuta di regolamento degli scambi mondiali. Proprio tale circostanza ha permesso il finanziamento esterno del doppio deficit Usa: quello commerciale, con l'eccesso delle importazioni sulle esportazioni, e quello pubblico, determinato soprattutto dalle spese militari per gli interventi in Afghanistan e in Iraq. Il finanziamento del doppio deficit è pareggiato, in larga prevalenza, dal flusso di capitali asiatici: in netta maggioranza, cinesi e giapponesi. Il notevole indebitamento esterno degli Usa, la cui crescita non subisce rallentamenti, rende, però, sempre più dipendenti gli Stati Uniti dai mercati finanziari asiatici. Se diminuisse il flusso di capitali verso l'America, il finanziamento del doppio deficit diverrebbe di necessità monetario (stampa di biglietti) e la Fed non potrebbe impedire l'inflazione all'interno, con ripercussioni imprevedibili nella misura e nell'intensità e, in ogni caso, del tutto indesiderate. La turbolenza economica collegata avrebbe riflessi anche sulla politica estera degli Usa e sulle relazioni internazionali mondiali. Il Segretario al Tesoro, Paulson, ha dichiarato che gli Stati Uniti desiderano rafforzare la propria moneta, ma non si vede come, se non si riducono grandemente le importazioni di beni e di servizi (con effetti depressivi sulle economie esterne) o non diminuiscono in misura significativa le spese militari in Afghanistan e in Iraq. La riduzione dei saggi ufficiali decisa dalla Fed per sostenere il mercato interno del credito, dopo la crisi dei mutui subprime, non accresce certo la propensione dei risparmiatori e degli investitori asiatici e di altri Paesi emergenti a comprare titoli denominati in dollari. Ma, al momento, risparmiatori e investitori asiatici non hanno adeguate alternative. Così, per ora, tutto congiura per un nuovo indebolimento del dollaro rispetto all'euro, ma per una minore volatilità della moneta americana nei confronti di quelle asiatiche. Il governo statunitense non può, tuttavia, correre il pericolo di perdere il controllo della propria moneta sui mercati valutari; né può correre l'avventura di finanziare con emissioni di moneta il doppio deficit, commerciale e statale. Pertanto dovrà agire, per stabilizzare il dollaro, anche a rischio di dovere gestire una crisi bancaria interna. La situazione monetaria, finanziaria e valutaria, nel mondo, è assai complessa e pericolosa. Esige grande cooperazione internazionale, ma la crescita economica promossa dalla globalizzazione fa da motore per un aumento mondiale dei prezzi delle materie prime e dell'energia. L'inflazione cova in varie aree del pianeta. L'incertezza sul futuro delle politiche estere e l'instabilità politica internazionale frenano la produzione mondiale, che avrebbe un potenziale di crescita più alto di quanto non esprima. Ebbene, all'origine di molti pericoli e inquietudini vi è il terrorismo che gli Usa vogliono, giustamente, combattere, ma che è stato contrastato commettendo anche molti errori e, soprattutto, con un costo enorme. Sarebbe fatale perdere la "guerra del dollaro". Che gli Usa sono costretti a combattere con un sistema bancario interno alquanto turbato. Le vie da percorrere sono stretti sentieri e non sono più concessi passi falsi.


Sabina Morandi (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Liberazione" del 02-11-2007)

 

"Euroil", un saggio di Paolo Conti ed Elido Fazi. Cosa succede se Teheran decide di legarsi ai mercati di Unione Europea, Cina e Russia? Con una economia non più foraggiata gli Usa non potranno più vivere al di sopra delle proprie possibilità Impero americano addio. Ora il petrolio si compra con l'euro Sabina Morandi Nel 2006 è stata la storia più gettonata di internet e ci hanno lavorato i migliori giornalisti investigativi del pianeta eppure ha trovato pochissimo spazio sui media: l'apertura di una fantomatica borsa petrolifera iraniana, la terza dopo Londra e New York. Ma quanto è consistente questo progetto e cosa comporterebbe per gli equilibri globali? Per scrivere Euroil - La borsa iraniana del petrolio e il declino dell'impero americano (Fazi editore, 2007, pp. 150, euro 14) Paolo Conti ed Elido Fazi sono andati fino a Kish, piccola isola situata all'imbocco dello stretto di Hormuz, nel Golfo Persico, dove Teheran ha deciso di costruire la borsa. Hanno curiosato fra i trader internazionali che già scorazzano per l'isola-porto franco ma della borsa hanno trovato soltanto l'edificio, il Kish Financial Center, appena ultimato e perfettamente attrezzato. La borsa iraniana insomma esiste, ma invece di aprire i battenti nella primavera del 2006 come previsto, è ancora una scatola vuota che attende impiegati e investitori. Non è facile dipanare un simile intreccio fra geopolitica, finanza, industria petrolifera e politica monetaria. Conti e Fazi ci riescono in poche pagine, con una chiarezza e una semplicità che non concedono nulla alla semplificazione. Il problema, se mai, è la nostra assuefazione ai miti della "storia officiale" che rende questo libro simile alla pillola rossa di Matrix: la mandi giù e il mondo si rivela molto diverso da come appare. Dimenticate allora le armi di distruzione di massa, lo scontro fra civiltà e il mito della superpotenza americana: il vero nemico di Washington non è l'Islam ma l'Europa e il vero oggetto del contendere non è nemmeno il petrolio ma la supremazia del dollaro come moneta di riferimento internazionale. Ma con l'avvento dell'euro e la crisi economica degli States, la supremazia è garantita solo dallo stretto legame del dollaro con il petrolio. Lo spiegano egregiamente i due autori quando, in poche righe, delineano il meccanismo del "riciclo dei petrodollari", come viene chiamato: "Una nazione, poniamo il Giappone, ha bisogno di petrolio e lo compra dall'Opec. Per farlo deve acquistare dollari dagli Stati Uniti, cui dà in cambio dei beni. Delle automobili Toyota, per esempio. Gli americani emettono biglietti verdi e li vendono al Giappone, ottenendo in cambio le macchine. L'Opec riceve invece quei dollari come pagamento per il petrolio, diventando così petrodollari". I petrodollari vengono poi "investiti in beni immobili, azioni, buoni del tesoro, fondi obbligazionari, aumentando a dismisura il debito estero degli Stati Uniti" una cifra che ormai sfiora i tremila miliardi di dollari, pari al 27 per cento del Pil del paese. Il riciclo dei petrodollari appare così come una sorta di tassazione indiretta che consente all'economia statunitense di continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Sotto questa luce, una borsa petrolifera in euro costituisce un pericolo inaccettabile per Washington. Saddam aveva cominciato a vendere petrolio in euro e guardate com'è finita? Ma, a differenza di Baghdad, Teheran è strettamente collegata con potenti mercati - leggi Unione Europea ma anche Cina e Russia - che stanno già silenziosamente differenziando le loro riserve monetarie, ovvero comprando la valuta europea invece della declinante divisa statunitense. Il mondo comincia insomma a essere stanco di foraggiare la svalutazione americana ma i governi, ben consapevoli di quanto sia delicata la questione, si smarcano in ordine sparso con i giornali che stanno bene attenti a tenere in taglio basso ogni notizia relativa al sotterraneo terremoto valutario. Eppure... Eppure, come si evince da Euroil , il processo è in corso. Per dimostrarlo gli autori riportano l'analisi di Colin Nunan che ha provato a mettere in relazione l'andamento del cambio euro-dollaro con le notizie apparentemente poco significative che riguardavano gli scambi petroliferi. Dal suo lancio nel gennaio del 1999, la moneta di Bruxelles è stata in caduta libera fino al novembre del 2000, quando Saddam decise di convertire in euro il fondo Oil for Food. Un'altra impennata ci fu nell'aprile del 2002 quando un rappresentante dell'Opec annunciò pubblicamente che i paesi produttori erano interessati agli scambi in euro. Per vedere un calo della moneta europea bisogna aspettare il giugno del 2003 quando, dopo la presa di Baghdad, la coalizione annullò la decisione di Saddam. In tre mesi il dollaro riguadagnò terreno ma poi arrivarono una serie di dichiarazioni di politici russi e funzionari dell'Opec che riportarono alla ribalta l'idea del petroeuro. Nessuna decisione significativa venne presa fino al maggio del 2004 e l'euro ricominciò a perdere terreno, ma a giugno, quando l'Iran manifestò l'intenzione di aprire la borsa di Kish, l'euro ricominciò a salire e venne frenato soltanto dalla violenta campagna di Bush contro Ahmadinejad che, a sua volta, rispedì di nuovo in vetta la nostra moneta annunciando, nel dicembre del 2006, la conversione in euro dell'intero budget nazionale. 02/11/2007.


"Euroil", un saggio di Paolo Conti ed Elido Fazi. Cosa succede se Teheran decide di legarsi ai mercati di Unione Europea, Cina e Russia? Con una economia non più foraggiata gli Usa (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Liberazione" del 02-11-2007)

 

Non potranno più vivere al di sopra delle proprie possibilità Impero americano addio. Ora il petrolio si compra con l'euro Sabina Morandi Nel 2006 è stata la storia più gettonata di internet e ci hanno lavorato i migliori giornalisti investigativi del pianeta eppure ha trovato pochissimo spazio sui media: l'apertura di una fantomatica borsa petrolifera iraniana, la terza dopo Londra e New York. Ma quanto è consistente questo progetto e cosa comporterebbe per gli equilibri globali? Per scrivere Euroil - La borsa iraniana del petrolio e il declino dell'impero americano (Fazi editore, 2007, pp. 150, euro 14) Paolo Conti ed Elido Fazi sono andati fino a Kish, piccola isola situata all'imbocco dello stretto di Hormuz, nel Golfo Persico, dove Teheran ha deciso di costruire la borsa. Hanno curiosato fra i trader internazionali che già scorazzano per l'isola-porto franco ma della borsa hanno trovato soltanto l'edificio, il Kish Financial Center, appena ultimato e perfettamente attrezzato. La borsa iraniana insomma esiste, ma invece di aprire i battenti nella primavera del 2006 come previsto, è ancora una scatola vuota che attende impiegati e investitori. Non è facile dipanare un simile intreccio fra geopolitica, finanza, industria petrolifera e politica monetaria. Conti e Fazi ci riescono in poche pagine, con una chiarezza e una semplicità che non concedono nulla alla semplificazione. Il problema, se mai, è la nostra assuefazione ai miti della "storia officiale" che rende questo libro simile alla pillola rossa di Matrix: la mandi giù e il mondo si rivela molto diverso da come appare. Dimenticate allora le armi di distruzione di massa, lo scontro fra civiltà e il mito della superpotenza americana: il vero nemico di Washington non è l'Islam ma l'Europa e il vero oggetto del contendere non è nemmeno il petrolio ma la supremazia del dollaro come moneta di riferimento internazionale. Ma con l'avvento dell'euro e la crisi economica degli States, la supremazia è garantita solo dallo stretto legame del dollaro con il petrolio. Lo spiegano egregiamente i due autori quando, in poche righe, delineano il meccanismo del "riciclo dei petrodollari", come viene chiamato: "Una nazione, poniamo il Giappone, ha bisogno di petrolio e lo compra dall'Opec. Per farlo deve acquistare dollari dagli Stati Uniti, cui dà in cambio dei beni. Delle automobili Toyota, per esempio. Gli americani emettono biglietti verdi e li vendono al Giappone, ottenendo in cambio le macchine. L'Opec riceve invece quei dollari come pagamento per il petrolio, diventando così petrodollari". I petrodollari vengono poi "investiti in beni immobili, azioni, buoni del tesoro, fondi obbligazionari, aumentando a dismisura il debito estero degli Stati Uniti" una cifra che ormai sfiora i tremila miliardi di dollari, pari al 27 per cento del Pil del paese. Il riciclo dei petrodollari appare così come una sorta di tassazione indiretta che consente all'economia statunitense di continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Sotto questa luce, una borsa petrolifera in euro costituisce un pericolo inaccettabile per Washington. Saddam aveva cominciato a vendere petrolio in euro e guardate com'è finita? Ma, a differenza di Baghdad, Teheran è strettamente collegata con potenti mercati - leggi Unione Europea ma anche Cina e Russia - che stanno già silenziosamente differenziando le loro riserve monetarie, ovvero comprando la valuta europea invece della declinante divisa statunitense. Il mondo comincia insomma a essere stanco di foraggiare la svalutazione americana ma i governi, ben consapevoli di quanto sia delicata la questione, si smarcano in ordine sparso con i giornali che stanno bene attenti a tenere in taglio basso ogni notizia relativa al sotterraneo terremoto valutario. Eppure... Eppure, come si evince da Euroil , il processo è in corso. Per dimostrarlo gli autori riportano l'analisi di Colin Nunan che ha provato a mettere in relazione l'andamento del cambio euro-dollaro con le notizie apparentemente poco significative che riguardavano gli scambi petroliferi. Dal suo lancio nel gennaio del 1999, la moneta di Bruxelles è stata in caduta libera fino al novembre del 2000, quando Saddam decise di convertire in euro il fondo Oil for Food. Un'altra impennata ci fu nell'aprile del 2002 quando un rappresentante dell'Opec annunciò pubblicamente che i paesi produttori erano interessati agli scambi in euro. Per vedere un calo della moneta europea bisogna aspettare il giugno del 2003 quando, dopo la presa di Baghdad, la coalizione annullò la decisione di Saddam. In tre mesi il dollaro riguadagnò terreno ma poi arrivarono una serie di dichiarazioni di politici russi e funzionari dell'Opec che riportarono alla ribalta l'idea del petroeuro. Nessuna decisione significativa venne presa fino al maggio del 2004 e l'euro ricominciò a perdere terreno, ma a giugno, quando l'Iran manifestò l'intenzione di aprire la borsa di Kish, l'euro ricominciò a salire e venne frenato soltanto dalla violenta campagna di Bush contro Ahmadinejad che, a sua volta, rispedì di nuovo in vetta la nostra moneta annunciando, nel dicembre del 2006, la conversione in euro dell'intero budget nazionale. 02/11/2007.


Benedetto minidollaro (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Milano Finanza" del 03-11-2007)

 

Milano Finanza Benedetto minidollaro EFFETTO EURO/1 La debolezza del biglietto verde non avrà effetti pesanti sull'economia europea e su quella italiana. In più tiene a bada i prezzi del petrolio, l'inflazione e quindi i tassi. E permette di fare buoni affari all'estero. Ma nel medio termine, se yuan e yen non rivalutano, potrebbero essere dolori. Sembra proprio arrivato l'autunno del dollaro. Venerdì 2 novembre il biglietto verde trattava a 1.452 contro la moneta unica europea, per poi chiudere in Europa a 1,44.All'inizio del 2007, erano 1,32 i dollari necessari ad acquistare un euro, il 9,1% in meno. è ormai qualche tempo che gli investitori finanziari, nonché gli operatori su un mercato di vitale importanza come quello del petrolio, si chiedono se non sia giunto il momento di adottare l'euro come valuta di riserva e di riferimento degli scambi. "Sui mercati comincia a esserci un clima di sfiducia nei confronti del dollaro, che durerà finché la situazione dell'economia Usa non diverrà più tranquilla", sottolinea Alberto Quadrio Curzio, docente di economia politica all'Università Cattolica di Milano. Anche se sono in molti in Eurolandia a paventare le pesanti ripercussioni che la debolezza della valuta Usa, e la parallela forza della moneta unica europea, possono avere sull'export dell'area, sembra proprio che gli imprenditori di casa nostra dovranno abituarsi al minidollaro. Basta ricordare quanto dichiarato venerdì dal neo-eletto presidente del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss Kahn. "La nostra opinione è che il dollaro sia ancora sopravvalutato. Dunque non siamo sorpresi della sua flessione". Ma la cosa potrebbe rivelarsi un'importante opportunità per le economie al di qua dell'Atlantico. "L'euro forte è un'occasione straordinaria per globalizzarsi", sostiene Lorenzo Bini Smaghi, membro del comitato esecutivo della Bce ed ex responsabile della finanza internazionale al Ministero dell'Economia e delle Finanze. "Il tasso di cambio è importante per le vendite di made in Italy verso l'Asia e gli Usa, il che equivale a meno del 50% del totale. Contemporaneamente, gli imprenditori possono acquisire aziende all'estero e aumentare la produttività." E Bini Smaghi di export si intende. Prima di sedere ai piani alti di Francoforte, è stato per quattro anni presidente della Sace, la compagnia di Stato che assicura i crediti dei nostri imprenditori nei confronti della clientela estera. Gli economisti hanno provato a misurare l'entità del rischio-supereuro per le esportazioni europee. L'attuale forza della moneta unica viene comunemente collegata alla contemporanea debolezza della valuta Usa, ma senza tenere conto che, nello stesso periodo, altre monete si sono parimenti rafforzate nei confronti del biglietto verde, quali ad esempio il dollaro canadese e il real brasiliano. "Si può anche ipotizzare un dollaro prossimo a 1,5 dollari. La nostra stima del cambio euro/dollaro per fine 2007 è 1,46. Ma bisogna tener presente che a un apprezzamento dell'euro verso il dollaro del 10% (come quello verificatosi nel corso del 2007, ndr) corrisponde una rivalutazione effettiva del 5% della moneta unica nei confronti del complesso delle valute internazionali" spiega da Londra Luigi Speranza, economista per l'area euro di Bnp Paribas. Questo si traduce in una riduzione della crescita del pil europeo che Speranza stima dello 0,4% annuo a livello continentale. Per quanto riguarda l'impatto sull'economia italiana le cose non sono altrettanto chiare. Holger Schmieding, economista per l'area euro di Bank of America, quantifica in circa lo 0,8% la riduzione della crescita del Belpaese, più dello 0,6% stimato per Eurolandia, data la minore incidenza sull'export italiano delle produzioni a più alto valore aggiunto, relativamente insensibili al prezzo, rispetto a paesi come la Svizzera e la Germania. Qualcuno non è completamente d'accordo con questa analisi. Secondo Mario Deaglio, uno dei più autorevoli economisti italiani, "l'effetto immediato sull'economia europea e italiana non sarà molto forte perché Europa e America sono due aree commercialmente sempre più distanti, tuttavia le imprese tedesche saranno più colpite perché più legate all'economia Usa di quelle francesi e di quelle italiane." Sull'impatto immediato Quadrio Curzio concorda con Deaglio, e anche con Bini Smaghi. "L'Italia negli ultimi anni" spiega l'economista "è riuscita a reincanalare le proprie esportazioni verso aree più direttamente collegate all'euro, come l'est europeo e alcuni paesi produttori di petrolio." "La competitività delle produzioni italiane oggi è meno sensibile alle oscillazioni di prezzo di quanto non lo fosse fino a qualche anno fa", aggiunge Fedele de Novellis, responsabile della ricerca economica presso l'istituto Irs Ref di Milano. Contemporaneamente, la forza della moneta unica ha in certa misura contenuto l'incremento dei prezzi dell'energia, una variabile che influisce sulla Bce molto di più di quanto non faccia sulla Fed nella determinazione degli orientamenti della politica monetaria. "Una rivalutazione del tasso di cambio, tenendo costanti tutte le altre variabili, equivale a una restrizione monetaria" sottolinea Speranza. Se quindi nell'immediato la picchiata del dollaro non dovrebbe avere forti ripercussioni negative sull'Europa e sull'Italia, sul medio lungo termine entrano in gioco altre variabili, purtroppo al di fuori del controllo degli uomini dei governi europei e dei tecnocrati di Jean-Claude Trichet. Prosegue Deaglio: "Ci sarà anche un effetto indiretto, a più lungo termine, che potrebbe essere peggiore di quello immediato. L'Europa esporta molto verso l'Asia, ma se le economie, e le valute, di quest'area restano ancorate al dollaro, l'export europeo sarà penalizzato". In Italia questo vuol dire brutte notizie principalmente per i beni di lusso, ma anche per il settore delle macchine utensili. Le parole di Deaglio implicano un problema: che cosa farà il terzo pilastro del sistema finanziario mondiale, cioè la Cina? "La svalutazione del dollaro nei confronti dell'euro non risolve il problema del deficit commerciale Usa, che è in gran parte nei confronti della Cina. Riteniamo che lo yuan debba rivalutarsi di circa il 20% nei confronti del dollaro", spiega Quadrio Curzio. "Il problema non è tanto se l'euro arriva a 1,5 sul dollaro, quanto vedere se a questo corrisponde un eguale indebolimento del dollaro verso tutte le altre valute. In altri termini, bisogna vedere se gli squilibri macroeconomici saranno liberi di scaricarsi sui cambi. In tal caso sia lo yen giapponese che lo yuan cinese si rivaluteranno, per cui le esportazioni europee e italiane verso l'Asia rimarranno in equilibrio. Se ciò non accade, allora saranno dolori", sottolinea de Novellis. "La soluzione del problema passerà necessariamente per un nuovo accordo valutario, simile a quello del 1986, che sancisca i nuovi rapporti di forza", aggiunge Quadrio Curzio. Le dichiarazioni di Strauss Kahn prima riportate danno qualche indizio in tal senso. Il presidente del Fmi, un'organizzazione multilaterale, infatti menziona il valore del dollaro, non dell'euro, e in senso generale, non nei confronti di una o di alcune valute in particolare. Se quindi secondo Strauss Kahn il dollaro è sopravvalutato, è molto più probabile che attualmente lo sia verso le valute e asiatiche che non verso l'euro. Un riallineamento dei rapporti di cambio, cioè una rivalutazione di yuan e yen, che come abbiamo visto non può essere esclusa a priori, metterebbe al sicuro la competitività delle esportazioni europee, e italiane. Al tempo stesso le attività delle imprese tricolori in Asia, soprattutto in Cina, si apprezzerebbero in proporzione, con conseguenti benefici effetti sui bilanci delle aziende interessate. C'è ovviamente un rovescio della medaglia. Dopo il riallineamento, investire in Cina o anche in un'altre delle aree emergenti diverrà molto più costoso. E anche se il riallineamento non dovesse aver luogo, la debolezza del dollaro non durerà in eterno. "Prevediamo che gli Stati Uniti riusciranno a evitare la recessione, anche perché gli ultimi positivi dati diffusi a fine ottobre rappresentano una buona base di partenza. Per cui a fine giugno 2008 il dollaro avrà recuperato il terreno perduto. La nostra previsione a sei mesi è di 1,37 (lo stesso livello dello scorso luglio, ndr)" anticipa Schmieding di. Per la stessa data Speranza pronostica il cambio euro dollaro a 1.42. E in ogni caso "la debolezza della valuta Usa durerà fra fra 18 e 24 mesi" aggiunge Mario Deaglio. Di conseguenza, il tempo a disposizione dei nostri capitani d'industria per profittare dell'opportunità segnalata da Bini Smaghi potrebbe essere più breve di quanto pensino. (riproduzione riservata) Milano Finanza Numero 219, pag. 10 del 3/11/2007 Autore: Giuliano Castagneto.


Euro/dollaro in continuo rialzo a 1,4654 (sezione: Euro-Dollaro)

( da "SpyStocks" del 07-11-2007)

 

(7 Novembre 2007 - 10:10) MILANO (Finanza.com) - La moneta unica europea diventa sempre più forte nei confronti del dollaro. In questo momento il cambio euro/dollaro è a quota 1,4654, in rialzo dello 0,68%. L'euro ha così messo a segno un nuovo record, superando il massimo raggiunto solo ieri a 1,4571. (Riproduzione riservata).


Pechino fa affondare il dollaro (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Sole 24 Ore, Il" del 08-11-2007)

 

Il Sole-24 Ore sezione: MONDO data: 2007-11-08 - pag: 9 autore: Tensione sui mercati. Parlamento e Banca centrale ipotizzano di spostare parte delle riserve sull'euro, che balza a 1,473 Pechino fa affondare il dollaro La Cina potrebbe decidere di ridurre gli investimenti in valuta statunitense Luca Vinciguerra SHANGHAI. Dal nostro corrispondente I cinesi tornano a parlare di diversificazione delle riserve valutarie e spingono il cambio euro-dollaro a quota 1,473, nuovo record storico. "Nella struttura delle nostre riserve, dovremmo sfruttare l'apprezzamento delle valute forti per bilanciare la discesa di quelle deboli. Per esempio, dovremmo tenere presente che l'euro sta guadagnando sullo yuan mentre il dollaro sta perdendo terreno ", ha detto ieri mattina Cheng Siwei, il vicepresidente della Conferenza consultiva politica del popolo (uno degli organismi con funzione da " suggeritore" del Parlamento cinese) parlando a un forum finanziario. Le parole del potente top advisor cinese (Cheng ha lo stesso rango di un vice-premier) si sono abbattute come un macigno su un mercato già mal disposto nei confronti del dollaro. In pochi minuti, l'euro ha preso il volo. Poi ha fatto una piccola marcia indietro, sempre grazie all'insolita loquacità di Cheng Siwei. "Non volevo dire che dovremmo acquistare più euro - ha precisato a metà mattinata- ma che dovremmo sfruttare la sua forza per compensare la discesa delle valute deboli all'interno delle nostre riserve valutarie". Cosa volesse intendere realmente l'alto funzionario del Governo cinese probabilmente non lo saprà mai nessuno. Certo è che il suo commento ha diffuso ulteriore incertezza sui destini del biglietto verde che, dopo la ripresina di metà seduta, nel prosieguo della giornata ha continuato a indebolirsi anche sui mercati internazionali. Sia nei confronti della moneta europea, sia nei confronti di quella giapponese, scendendo a 112,79 yen. A rincarare la dose, ci ha pensato nel pomeriggio la People's Bank of China. "Il dollaro sta perdendo il suo ruolo di valuta globale e il merito di credito degli asset denominati nella moneta americana si sta riducendo ", ha detto Xu Jian, vicedirettore della Scuola del Partito comunista all'interno della Banca centrale. Parole pesanti come pietre: tra gli asset denominati in dollari, infatti, ci sono anche i Treasury Bonds di cui oggi la Cina è la principale detentrice mondiale. L'opinione dell'influente funzionario politico della Pboc ha aperto sui mercati un interrogativo inquietante: se Pechino ritiene che il dollaro sia destinato a indebolirsi anche nel 2008, come ha avvertito lo stesso Xu Jian, e che l'affidabilità degli attivi di Washington sia destinata a scendere, ciò significa che è pronta a liquidare parte delle sue posizioni in T-Bond americani? Solo il Governo cinese può rispondere a questa domanda. Anche gli strateghi delle istituzioni finanziarie internazionali, pagati profumatamente per indovinare l'erratico andamento dei mercati, brancolano nel buio. Al più azzardano ipotesi. Il fatto che, a fronte della proverbiale laconicità di Pechino, ieri a distanza di poche ore due pezzi grossi della nomenklatura abbiano sparato a zero sul dollaro (sebbene a titolo personale, come hanno tenuto a puntualizzare Cheng e Xu) è certamente una circostanza su cui riflettere. "Solitamente in Cina i rumors non vengono fuori per caso, soprattutto se si tratta di argomenti delicati come i cambi o la gestione politica delle riserve valutarie ", dice un banchiere occidentale. Oggi, nei forzieri del Dragone giacciono 1.430 miliardi di dollari di riserve valutarie che, grazie ai continui flussi del surplus commerciale con l'estero, dovrebbero lievitare a 1.500 miliardi entro la fine dell'anno. Quale sia la composizione di questo tesoretto è un mistero assoluto (il dollaro dovrebbe pesare per il 65-70%). "In base alle nostre stime, attualmente la quota di euro detenuti da Pechino è ancora inferiore al 20 per cento. Pensiamo che nel 2008 la Cina ridurrà al 60% la porzione di dollari nelle sue riserve per incrementare al 25% il peso dell'euro. Ciò, grazie anche alla spinta della speculazione che continua a giocare contro il dollaro, avrà ovviamente un ulteriore effetto depressivo sui corsi della moneta statunitense ", avverte Li Jiang, uno dei più conosciuti e ascoltati fund manager del Paese. Dati i numeri in gioco, è evidente che anche un simile aggiustamento determinerebbe un terremoto sui mercati valutari. "Viste le quotazioni, probabilmente questo non è il momento migliore per vendere dollari e comprare euro. Tuttavia, da almeno un anno la Cina ha già fatto intendere che vuole ridurre la quota di T-bond nelle sue riserve valutarie per cercare investimenti alternativi. E così farà", spiega Yan Jin di Suitable Investments. lucavin@attglobal.net PAROLE PESANTI Per People's Bank of China la divisa americana sta perdendo centralità L'istituto ha nei suoi forzieri quasi 1.500 miliardi di dollari.


L'EURO a livelli record rispetto al dollaro e il petrolio che (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Nazione, La (Pistoia)" del 09-11-2007)

 

Sfiora i 100 dollari al barile non sono soltanto materia d'analisi per economisti, ma hanno riflessi pesanti e immediati sulla vita quotidiana anche dei pistoiesi. Il petrolio alle stelle fa schizzare verso l'alto le bollette energetiche, e non solo quelle: pagheremo molto di più per riscaldarci (anche se parte del caro petrolio, prezzato in dollari, è compensata proprio dal rafforzamento dell'euro). L'euro record mette invece in ginocchio quelle imprese il cui stato di salute, per il settore in operano, dipende molto dal cambio euro-dollaro. Si tratta delle aziende che vendono i loro prodotti direttamente negli Usa (o in paesi che poi vendono sul mercato americano), ma anche di quelle che vedono ridotta la loro competitività a vantaggio delle imprese concorrenti asiatiche, la cui moneta è legata quasi a cambio fisso al dollaro. E' difficile quantificare la ricaduta negativa dell'euro record sull'economia locale. L'EXPORT PISTOIESE costituisce circa il 30-35% della produzione: su 100 euro prodotti, la terza parte viene venduta all'estero. Di questa quota che va oltre confine, l'8,5% è destinata direttamente in Nord America. A questa va aggiunta poi la quota che finisce sul mercato americano per via indiretta, cioè passando prima da altri Paesi (spesso asiatici: l'Asia assorbe direttamente il 7,6% dell'export pistoiese). Ma anche mercati europei che fanno acquisti da noi, con un dollaro a terra, potrebbero essere spinti a far compere in Cina o nel Sud Est asiatico. Quella pistoiese non è un'economia che dipende per larga parte dal mercato americano ma va sarebbe sbagliato pensare che sia immune dal cambio euro-dollaro. "Dobbiamo fare i conti con un effetto diretto e con un effetto indotto ? osserva infatti Renzo Vettori, responsabile del Centro studi di Assindustria Pistoia ? L'esperienza degli ultimi dieci anni ci dice che l'andamento del dollaro e delle nostre esportazioni sono molto legati. Quando il dollaro si svaluta, perdiamo quote di export". Il grafico dal 2001 ad oggi che incrocia l'andamento delle esportazioni pistoiesi con quello del rapporto di cambio euro dollaro mette proprio in risalto questo fenomeno. Con l'euro in crescita costante dal 2001, le vendite all'estero di prodotti pistoiesi sono andate via via calando. Il rischio, quindi, è che le esportazioni subiscano un nuovo duro colpo dal cambio record di questi giorni e dei mesi precedenti. C'è poi un altro aspetto importante. Circa il 34% dell'export pistoiese è ancora fatto di tessile, abbigliamento e calzature, che sono tra i settori più esposti al dollaro. MA NON SONO i soli comparti esposti, visto che anche altri prodotti (alimentare, elettromeccanica) prendono anche la strada degli Usa o di mercati ? asiatici in particolare ? legati a filo diretto all'andamento del dollaro. "Va tenuto anche conto, come detto ? sottolinea Vettori ? che se si svaluta il dollaro cresce la competitività delle produzioni asiatiche e questo può contribuire a riorientare le importazioni anche di alcuni dei nostri partner europei". Segnali poco confortanti, dunque, soprattutto se sommati al fatto che Pistoia, nel periodo 2001-2006, per quanto riguarda l'andamento dell'export manifatturiero è al 90° posto nella graduatoria delle province italiane: contro una crescita media nazionale del 18,9%, Pistoia ha fatto registrare una perdita del 10%. stefano vetusti - -->.


Bancor 3 Trend divergenti delle banche centrali (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Riformista, Il" del 09-11-2007)

 

Bancor 3 Trend divergenti delle banche centrali Lo stretto viatico monetario contro la crisi Con l'inizio di novembre è ricominciata la danza del tasso di cambio euro/dollaro e congiuntamente del prezzo del petrolio. Negli Stati Uniti le preoccupazioni degli operatori non sono ancora rientrate nonostante la politica della Fed continui nella diminuzione del tasso di interesse, portato in questi giorni a 4,50%, e nella immissione di robuste quantità di dollari nell'interbancario americano, l'ultima di 41 miliardi di dollari. Perché la Fed non riesce a diminuire il nervosismo dei mercati e a invertire le aspettative di svalutazione del dollaro? Appare evidente infatti che il dollaro a 1,50 euro e il petrolio a 100 dollari il barile siano non più fantasiose previsioni, ma probabili traguardi delle tendenze in atto. Vi sono due ragioni che stanno dietro gli eventi di cui si parla. La debolezza relativa rispetto al recente passato della economia Usa, e la espansione della domanda mondiale delle materie prime e del petrolio. Dollaro e prezzo del petrolio crescono inversamente, dal momento che i petrodollari vengono utilizzati anche nell'area euro. Se l'euro sale anche il prezzo in dollari del barile di petrolio sale. È in atto cioè una sorta di indicizzazione del prezzo del petrolio all'aumentare del valore dell'euro. Inoltre se si considerano le previsioni di crescita della domanda di materie prime (e specificatamente del petrolio) di provenienza dai paesi emergenti, con in testa i due pivot asiatici, India e Cina, si capiscono le previsioni al rialzo dei prezzi espresse dai comportamenti dei traders della borsa merci di Chicago (vedi i prezzi dei Futures del petrolio). In più a questo quadro bisogna aggiungere la guerra in Iraq e il minore afflusso di petrolio da questo paese al mercato mondiale, e la previsione, certamente non irrealistica, che vi possano essere restrizioni anche alla vendita del petrolio iraniano per via dell'atteggiamento del paese sul nucleare. Non stupisce perciò, in questo contesto, l'andamento in ascesa del prezzo del petrolio. L'economia Usa è forte, ma le conseguenze della crisi dei mutui immobiliari cominciano a farsi sentire di più. Probabilmente il tasso di crescita del Pil americano sarà per il 2007 superiore a quello europeo, stimato intorno al 2,6%. Tuttavia le aspettative negative da parte dei consumatori americani, registrate dalla caduta dell'indice di fiducia, si avvertono nelle previsioni degli analisti finanziari che non vedono in esse segnali positivi di una ripresa probabile. Se a ciò si aggiunge che l'aumento del prezzo del petrolio e degli alimenti colpisce le fasce della popolazione a più basso reddito, si può concludere che certamente non aiuta il dollaro un simile scenario anche per il prossimo anno. Avvertono questa difficoltà i mercati finanziari che di volta in volta vengono colpiti dalla caduta dei titoli dei gruppi bancari più esposti, come Citigroup. L'efficacia delle azioni della Fed (vedi le robuste immissioni di liquidità effettuate negli ultimi mesi) non è ancora tale da far pensare di aver svoltato, ma senza di esse ci sarebbe stato un vero terremoto finanziario mondiale. Probabilmente prima di Natale ci sarà qualche altro aggiustamento verso il basso del tasso di riferimento della Fed al 4,25%. Tuttavia se si considera che l'inflazione negli Stati Uniti è annunciata in crescita, ci si rende conto che i tassi reali americani sono sensibilmente più bassi di quelli europei e che questa situazione rischia di portare la politica monetaria americana a un punto morto di "trappola della liquidità" con conseguenze negative ulteriori sul dollaro, sul prezzo del petrolio e delle altre materie prime i cui prezzi sono espressi in dollari. La Banca Centrale Europea è a sua volta chiamata a scegliere tra un atteggiamento di prudenza (tassi immutati) e un atteggiamento attivo, ovvero aumentare i tassi di interesse per fare fronte all'aumento della inflazione attesa. La diminuzione dei tassi non sembra essere per il momento nei piani della Bce, anche se c'è da chiedersi se l'economia europea potrà fare fronte a un euro sempre più forte. L'euro forte non ha finora inciso significativamente sulle esportazioni europee, ma le recenti proteste del mondo confindustriale italiano fanno pensare che le preoccupazioni sono in aumento, al contrario di quanto accade in Germania. Di certo ciò che si può imparare dal ciclo finanziario recente è che bisogna abituarsi all'idea di un euro forte. Soprattutto le imprese europee ed italiane saranno spinte sempre più ad aumentare la produttività per competere con successo nel mercato internazionale. Per il prossimo futuro si tratta di vedere come evolverà il rapporto euro/dollaro, che appare la vera ancora del sistema monetario internazionale. Bisogna tenere conto infatti che l'euro è diventata moneta di riserva oltre che di scambio. La sua gestione va perciò ponderata anche in base a questa nuova modalità, analogamente a quanto fa la Fed per il dollaro, valutando le spinte inflazionistiche interne, insieme alle spinte emergenti dai mercati finanziari internazionali. Se la stabilità monetaria è indicata come l'obiettivo fondamentale dallo Statuto della Bce, anche la stabilità finanziaria sta cominciando a trovare maggiore considerazione nella sua azione pratica (vedi le immissioni recenti di euro nel sistema economico europeo). 09/11/2007.


Una correlazione poco stabile (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Milano Finanza" del 10-11-2007)

 

Milano Finanza Una correlazione poco stabile Il legame tra l'andamento del cambio euro-dollaro e altre variabili, come la performance di borsa o i prezzi del greggio, non è significativo e soggetto a molta volatilità Le correlazioni sono un elemento particolarmente delicato in finanza, poiché molte valutazioni inerenti all'asset allocation e al risk management si basano proprio su tale variabile. Che è appunto mutevole nel tempo, e quindi molto difficile da inglobare in modo robusto all'interno di un modello. In questi ultimi mesi si sente spesso parlare dei costanti massimi raggiunti da due variabili finanziarie di estremo interesse, quali il cambio euro-dollaro e la dinamica del Brent, come se una influenzasse l'altra o viceversa. In realtà, si tratta di due serie che evidenziano una scarsa correlazione nel tempo, e quindi tentare di anticipare l'una in base ai movimenti dell'altra non ha molto senso. Piuttosto, per un investitore dell'area euro vi sono conseguenze della dinamica relativa del cambi euro-dollaro rispetto al Brent, appunto espresso in dollari. Il grafico mostra infatti come l'esplosione dei prezzi del Brent sia stata recepita solo in parte da chi risiede nell'area europea continentale, poiché attualmente ci troviamo a ridosso di 63 euro per ogni barile di greggio, contro i 95 dollari circa pagati da un consumatore Usa. Chiaro che se la dinamica del cambio iniziasse a invertire (alcune case d'affari evidenziano già ora un cambio euro-dollaro a ridosso di 1,35 a un anno), a parità di quotazioni del greggio anche in Europa il conto inizierebbe a diventare molto più salato. Tornando alle correlazioni, il grafico evidenzia in modo chiaro come l'andamento di una variabile (anche se depurata dal trend esponenziale passando ai log-prezzi anziché ragionando sui semplici livelli) non indica sulla dinamica dell'altra; utilizzando una finestra mobile di un anno, su base settimanale, otteniamo una correlazione media sui rendimenti corretti per la differenza di volatilità prossima allo zero, ma al tempo stesso caratterizzata da elevata volatilità. Come dire che guardare a una variabile per stimare il possibile andamento dell'altra non ha molto senso dal punto di vista prettamente statistico. Nell'ultimo anno la relazione tra andamento del cambio e costo dell'energia è relativamente elevata (0,3 di correlazione lineare), ma basta tornare nel 2005 per ottenere un risultato opposto. Stessa cosa per il legame tra borsa e cambio euro-dollaro, con un valore medio di correlazione nel lungo termine sostanzialmente nullo, a conferma che la vecchia supposizione che il dollaro forse sostenga i mercati è da mettere nel cassetto. Anche in questo caso la volatilità della presunta dipendenza è notevole, con un'influenza inversa (borse deboli e dollaro debole) nel 2002 e una correlazione positiva nel 2006 (dollaro debole e borse verso i massimi), indicando che l'analisi intermarket classica deve trovare supporto nei numeri generati da statistiche di lungo termine. Tecnicamente il recente breakout di 1,45 dollari ha fornito una nuova indicazione a sfavore della valuta statunitense, che sembra proiettata inevitabilmente verso la soglia psicologica di 1,5 dollari per ogni euro. (riproduzione riservata) Milano Finanza  - i vostri soldi IL TRADER analisi tecnica Numero 224, pag. 50 del 10/11/2007 Autore: Fausto Tenini.


Credito facile, chi paga il conto della festa (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Affari e Finanza (La Repubblica)" del 12-11-2007)

 

Ultimo aggiornamento 12 Novembre 2007 Affari & Finanza > RAPPORTO / BANCHE E IMPRESE Affari & Finanza > RAPPORTO Affari & Finanza > RAPPORTO / BUSINESS TRAVEL --> FINANZA pag. 24 Credito facile, chi paga il conto della festa La ricchezza non può essere creata dal nulla. È una lezione che molti, troppi, hanno dimenticato FRANCESCO ARCUCCI È chiamata fiat money la moneta creata dalle banche centrali senza il supporto di un bene reale, tipicamente oro, nel quale tale moneta debba essere convertibile a richiesta. Si tratta di una moneta creata da un atto di volontà ("la moneta sia fatta") nella quantità e nel prezzo (tasso di interesse) voluti dalla banca centrale e senza le limitazioni e i vincoli, e quindi la disciplina, che ci sarebbero se la moneta fosse convertibile in un bene fisico, come ai tempi degli istituti di emissione. Naturalmente anche questa moneta creata ad libitum non nasce dal nulla, ma viene emessa a fronte di una delle tre grandi voci dell'attivo della banca centrale, e cioè i crediti sull'estero, sulla pubblica amministrazione e sul sistema bancario. Quando si è in regime di fiat money bisogna distinguere se ci troviamo in un contesto inflazionistico, come negli anni 1970, oppure in un contesto deflazionistico, come quello attuale, perché l'aumento dei prezzi è contenuto dalle spinte deflazionistiche provenienti dalle merci e dai servizi importati da Paesi come la Cina, l'India, eccetera. che producono a costi pari a circa un quinto di quelli dei Paesi industrializzati. Nel primo caso le banche centrali hanno le mani legate. Infatti, allorché desiderano espandere la massa monetaria per sostenere l'economia, questo fatto si riflette direttamente sull'aumento dei prezzi. Proprio negli anni 1970 fu coniato l'aforisma secondo cui il compito del banchiere centrale era quello di portare via la bottiglia del liquore allorché l'attività economica diventava troppo effervescente. A questo punto il party dei consumi e degli investimenti, che stava dando segni di eccessiva allegria, si calmava e gli invitati assumevano un tono più sobrio nelle loro manifestazioni. Quando invece ci si trova, come da alcuni anni a questa parte, in un contesto deflazionistico le banche centrali constatano con grande sollievo che il loro potere è maggiore. Possono continuare a dare liquidità, possono trasformarsi da guastafeste in fornitori di bottiglie di liquore e il party sembra non avere mai fine. In realtà, la fine arriva, sia pure dopo alcuni anni, e lo shock è ancor più doloroso che nel caso precedente. Infatti, se è vero che non si crea, se non in limitata misura, inflazione monetaria, ad un certo momento si determina inflazione creditizia, cioè un uso smodato del credito, l'allentamento degli standards creditizi per gli hedge funds, il private equity, le carte di credito, i prestiti personali, i mutui, eccetera. Ma la situazione diventa ancora più grave se alla fiat money del sistema monetario interno si somma un sistema monetario internazionale come quello che ha fatto seguito al collasso del gold exchange standard (tallone a cambio aureo) di Bretton Woods avvenuto agli inizi degli anni settanta del secolo scorso e che può essere definito appropriatamente come "dollar standard", nel quale anche internazionalmente manca il supporto reale, cioè aureo, perfino con riferimento alla moneta di riserva, e cioè al dollaro. Il difetto principale del dollar standard è che esso non prevede alcun meccanismo per evitare ampi e persistenti squilibri quando questi riguardano la bilancia dei pagamenti correnti degli Stati Uniti. Di fatto quest'ultima si è andata progressivamente deteriorando, sicché il deficit estero è ormai fuori controllo, raggiungendo quasi il 7 per cento del prodotto interno lordo americano. È evidente a questo punto che l'effetto combinato della fiat money interna e del dollar standard internazionale, eliminando ogni tipo di disciplina, non poteva non generare, se non un'inflazione monetaria per i motivi detti, almeno un'inflazione creditizia, e questa sarebbe stata di proporzioni inimmaginabili e si sarebbe riflessa in grandi bolle speculative nei mercati azionari, immobiliari e delle commodities. Queste bolle speculative avrebbero riguardato sia i Paesi che vedevano gonfiarsi le loro riserve a fronte della creazione di moneta nazionale, come la Cina e La Russia, sia gli Stati Uniti, in quanto i loro partners commerciali ? essendo il dollaro moneta di riserva hanno reinvestito il surplus di dollari negli Stati Uniti stessi. Ad un certo momento l'enorme deficit di parte corrente degli Stati Uniti, reso possibile dal sistema del dollar standard, ha destabilizzato l'intera economia globale. Per questo io credo che i mercati del credito globali, che apparentemente si sono ripresi dalla crisi di luglio, sono nella morsa della peggior crisi sistemica che si ricordi a memoria d'uomo. Una notevole porzione degli strumenti finanziari, come le collateralised debt obligations e le commercial papers, oggi è inutilizzabile. La solvibilità di alcune delle più grandi istituzioni finanziarie del mondo è messa in discussione e la fiducia sul mercato dei depositi interbancari è evaporata. Le banche centrali in agosto, per fronteggiare questa incipiente catastrofe finanziaria mondiale, si sono sentite in dovere di iniettare centinaia di miliardi di dollari nei mercati monetari. Ciò dimostra che, non solo in un contesto inflazionistico, ma anche in un contesto deflazionistico come l'attuale il potere delle banche centrali, che tuttavia le ha fatte vivere alcuni anni in una sorta di delirio di onnipotenza, finisce per essere limitato. Certamente la situazione è ben diversa da quella degli anni 1970, ma seppure attraverso una successione di rapporti di causa/effetto più lunga, si giunge ad una conclusione univoca: quasi la morale della storia. La creazione di moneta solo apparentemente può creare ricchezza e solo per un certo tempo. La ricchezza alla fine può essere solo il frutto del risparmio accumulato nel tempo e poco ha a che vedere con gli strumenti di ingegneria finanziaria. Come non esiste la macchina del moto perpetuo, così la ricchezza non può essere creata dal nulla: nella finanza crediti e debiti si compensano, le attività finanziarie di un operatore non sono nient'altro che le passività finanziarie di un altro e alla fine, quando debiti e crediti si consolidano a livello di sistema nel suo complesso, rimane solo la ricchezza reale, e cioè i beni fisici e i servizi, sia privati che pubblici, che i cittadini hanno saputo produrre con il duro lavoro. È una lezione che molti, troppi hanno dimenticato.


Se il dollaro affonda (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Tirreno, Il" del 14-11-2007)

 

CAROPETROLIO SE IL DOLLARO AFFONDA Sta finendo la centralità del dollaro come moneta internazionale? Il cambio euro-dollaro si avvicina a 1,50 mentre il prezzo del petrolio è a ridosso dei 100 dollari al barile e continua a trascinare il biglietto verde al ribasso. Forse si profila la fine della fiducia illimitata nella moneta statunitense. Dal 1971, quando Nixon rimosse la convertibilità aurea del dollaro fino ad oggi, mai la credibilità di tale divisa è stata così bassa. La forza politica ed economica degli Usa era riuscita sempre a convincere il mondo che utilizzare dollari significava stabilità e buoni risultati. Reagan e la Federal Reserve avevano saputo "dollarizzare" il pianeta, garantendo attraverso gli alti tassi d'interesse un ottimo rendimento a chi avesse investito in attività denominate in dollari. Lo stesso obiettivo era stato raggiunto da Clinton rafforzando il ruolo degli Usa come il più grande mercato mondiale di consumo, dove si poteva vendere appunto accettando il dollaro quale moneta di riferimento. Anche la delocalizzazione delle imprese americane, frutto della globalizzazione, aveva favorito la diffusione del dollaro. In maniera analoga, aveva contribuito a ciò il basso prezzo del petrolio e delle materie prime che avevano permesso al dollaro, la moneta con cui si operavano gli scambi di tali beni, di restare a lungo solido e stabile. La forza politica e militare faceva il resto. Oggi il cuore dell'economia planetaria si è spostato in Cina, in India e in altri paesi emergenti che dal 2006 hanno superato le "vecchie" potenze nella determinazione del Prodotto interno lordo mondiale. Le loro merci e i loro servizi si dirigono in gran parte verso gli Usa che pagano in dollari, destinati quindi ad accumularsi presso operatori economici e autorità monetarie di Cina, India, Arabia Saudita e di pochi altri paesi esportatori. Solo la Cina dispone di riserve in dollari per oltre 1400 miliardi di dollari, dieci volte di più del valore dei dollari nelle mani della Federal Reserve. L'attuale debolezza del dollaro, portato delle difficoltà dell'economia USA e di un deficit della bilancia commerciale pari al 7% del Pil, rischia però di provocare pesanti danni a queste riserve tanto da indurre le stesse autorità monetarie cinesi e di altri Stati a cominciare a liberarsene, approdando a valute in questo momento molto più forti e redditizie come l'euro. E da questo deriva il brusco rafforzamento della moneta europea. In tale quadro persino le imprese statunitensi delocalizzate fuori dagli States tendono a preferire l'euro. Il rialzo dei prezzi del petrolio e delle materie prime inoltre scatena tensioni inflazionistiche che il dollaro debole non è in grado di contenere. Le molteplici cause della crisi del dollaro stanno dunque conducendo all'affermazione dell'euro come moneta di riferimento internazionale, almeno fino a quando lo yuan non sarà sufficientemente affidabile. L'Europa, con un'economia tutt'altro che florida, è in grado di assumersi un ruolo così impegnativo? Alessandro Volpi Università di pisa.


Euro/dollaro poco mosso a 1,4640 (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Trend-online" del 19-11-2007)

 

FOREX, clicca qui per leggere la rassegna di Fta , 19.11.2007 12:55 Scopri le migliori azioni per fare trading questa settimana!! Dopo qualche ora dall'apertura delle contrattazioni nelle piazze finanziarie del Vecchio Continente la moneta unica viene scambiata a 1,4640 rispetto al biglietto verde, in leggero calo sia rispetto alle ultime rilevazioni della Banca Centrale Europea (1,4650) sia rispetto ai valori registrati in tarda serata di venerdì a New York (1,4655). Scende la divisa europea rispetto alla moneta giapponese, l'euro vale 161,40 yen dai 162 yen delle indicative della BCE della settimana scorsa. Il biglietto verde perde terreno rispetto alla valuta nipponica, il rapporto di cambio tra dollaro/yen quota, infatti, in area 110,25 da 110,90 dell'ultima chiusura di Wall Street. Il cambio euro/dollaro non evidenzia grosse variazioni rispetto ai valori di settimana scorsa. Gli investitori sembrano intenzionati ad aspettare i dati macroeconomici statunitensi sul settore immobiliare, che verranno annunciati domani, prima di decidere quale posizione assumere sui mercati valutari. L'unico dato macroeconomico annunciato in giornata sulla produzione europea nel settore delle costruzioni non ha influenzato l'andamento dei rapporti di cambio. Eurostat ha reso noto che in Eurolandia la produzione nel comparto delle costruzioni, nel mese di settembre, non si è mossa rispetto al mese precedente. Nel mese di agosto l'indice aveva mostrato una crescita dello 0,4%. La giornata odierna non presenta altri appuntamenti macroeconomici di particolare rilevanza.


ECONOMIA USA PIÙ FORTE DI QUANTO MOSTRA DOLLARO-B.SMAGHI (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Wall Street Italia" del 24-11-2007)

 

Economia Usa più forte di quanto mostra dollaro-B.Smaghi -->PRATO (Reuters) - Il membro del consiglio direttivo della Banca centrale europea Lorenzo Bini Smaghi ha detto che l'economia americana è più forte di quanto non rifletta il cambio del dollaro sull'euro e che quindi il mercato deve capire che il tasso di cambio non riflette esattamente i fondamentali dell'economia Usa. "Ora siamo a 1,45 [di cambio euro-dollaro], sono convinto che l'economia americana sia più forte di quello che riflette il suo tasso di cambio", ha detto Bini Smaghi parlando ad un convegno di Confindustria a Prato. "Il mercato deve capire che questi prezzi non riflettono esattamente i fondamentali", ha aggiunto. Poco prima Bini Smaghi aveva ricordato che la Bce ha come obiettivo di mantenere la stabilità dei prezzi e di fare in modo che l'euro resti una moneta forte. "Noi abbiamo come obiettivo quello di mantenere stabili i prezzi e fare in modo che l'euro rimanga una moneta forte", ha detto Bini Smaghi. Poi, ha spiegato il rappresentante italiano nel board della Bce, "il valore esterno dell'euro è determinato da molti fattori, in particolare in giro per il mondo si sta scommettendo sull'Europa". Nelle slide che Bini Smaghi ha portato al convegno di Confindustria, emerge chiara la tesi dei vantaggi di un euro forte per gli imprenditori italiani. "Il tasso di cambio rilevante per l'industria italiana non è il cambio effettivo dell'euro, ne' tantomeno il cambio euro-dollaro. E' invece il tasso di cambio effettivo dell'Italia; stabile perché molte imprese italiane esportano verso l'area euro", si legge nelle slide dell'intervento. "L'euro ci ha fatto risparmiare sulla bolletta energetica", si legge in un'altra slide.


Economia Usa più forte di quanto mostra dollaro-B.Smaghi (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Reuters Italia" del 24-11-2007)

 

12.25 Versione per stampa PRATO (Reuters) - Il membro del consiglio direttivo della Banca centrale europea Lorenzo Bini Smaghi ha detto che l'economia americana è più forte di quanto non rifletta il cambio del dollaro sull'euro e che quindi il mercato deve capire che il tasso di cambio non riflette esattamente i fondamentali dell'economia Usa. "Ora siamo a 1,45 [di cambio euro-dollaro], sono convinto che l'economia americana sia più forte di quello che riflette il suo tasso di cambio", ha detto Bini Smaghi parlando ad un convegno di Confindustria a Prato. "Il mercato deve capire che questi prezzi non riflettono esattamente i fondamentali", ha aggiunto. Poco prima Bini Smaghi aveva ricordato che la Bce ha come obiettivo di mantenere la stabilità dei prezzi e di fare in modo che l'euro resti una moneta forte. "Noi abbiamo come obiettivo quello di mantenere stabili i prezzi e fare in modo che l'euro rimanga una moneta forte", ha detto Bini Smaghi. Poi, ha spiegato il rappresentante italiano nel board della Bce, "il valore esterno dell'euro è determinato da molti fattori, in particolare in giro per il mondo si sta scommettendo sull'Europa". Nelle slide che Bini Smaghi ha portato al convegno di Confindustria, emerge chiara la tesi dei vantaggi di un euro forte per gli imprenditori italiani. "Il tasso di cambio rilevante per l'industria italiana non è il cambio effettivo dell'euro, ne' tantomeno il cambio euro-dollaro. E' invece il tasso di cambio effettivo dell'Italia; stabile perché molte imprese italiane esportano verso l'area euro", si legge nelle slide dell'intervento. "L'euro ci ha fatto risparmiare sulla bolletta energetica", si legge in un'altra slide.


PUNTO 1-Economia Usa più forte di quanto mostra dollaro-B.Smaghi (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Websim" del 24-11-2007)

 

NOTIZIE FLASH 24 Novembre 07 ora 12:24 PUNTO 1-Economia Usa più forte di quanto mostra dollaro-B.Smaghi (aggiunge dettagli) PRATO (Reuters) - Il membro del consiglio direttivo della Banca centrale europea Lorenzo Bini Smaghi ha detto che l'economia americana è più forte di quanto non rifletta il cambio del dollaro sull'euro e che quindi il mercato deve capire che il tasso di cambio non riflette esattamente i fondamentali dell'economia Usa. "Ora siamo a 1,45 [di cambio euro-dollaro], sono convinto che l'economia americana sia più forte di quello che riflette il suo tasso di cambio", ha detto Bini Smaghi parlando ad un convegno di Confindustria a Prato. "Il mercato deve capire che questi prezzi non riflettono esattamente i fondamentali", ha aggiunto. Poco prima Bini Smaghi aveva ricordato che la Bce ha come obiettivo di mantenere la stabilità dei prezzi e di fare in modo che l'euro resti una moneta forte. "Noi abbiamo come obiettivo quello di mantenere stabili i prezzi e fare in modo che l'euro rimanga una moneta forte", ha detto Bini Smaghi. Poi, ha spiegato il rappresentante italiano nel board della Bce, "il valore esterno dell'euro è determinato da molti fattori, in particolare in giro per il mondo si sta scommettendo sull'Europa". Nelle slide che Bini Smaghi ha portato al convegno di Confindustria, emerge chiara la tesi dei vantaggi di un euro forte per gli imprenditori italiani. "Il tasso di cambio rilevante per l'industria italiana non è il cambio effettivo dell'euro, ne' tantomeno il cambio euro-dollaro. E' invece il tasso di cambio effettivo dell'Italia; stabile perché molte imprese italiane esportano verso l'area euro", si legge nelle slide dell'intervento. "L'euro ci ha fatto risparmiare sulla bolletta energetica", si legge in un'altra slide. ((Stefano Bernabei, in redazione a Roma Valentina Consiglio, Reuters Messaging: stefano.bernabei.reuters.com@reuters.net - +39 06 85224354 - rome.newsroom@reuters.com)).


Dalla prima pagina La crisi profonda (sezione: Euro-Dollaro)

( da "Libertà" del 26-11-2007)

 

Quotidiano partner di Gruppo Espresso LIBERTA' di lunedì 26 novembre 2007 > In Italia dalla prima pagina La crisi profonda dei mercati del credito Infatti, se è vero che non si crea, se non in limitata misura, inflazione monetaria, ad un certo momento si determina inflazione creditizia, cioè un uso smodato del credito, l'allentamento degli standards creditizi per gli hedge funds, il private equity, le carte di credito, i prestiti personali, i mutui, etc. Ma la situazione diventa ancora più grave se alla fiat money del sistema monetario interno si somma un sistema monetario internazionale come quello che ha fatto seguito al collasso del gold exchange standard (tallone a cambio aureo) di Bretton Woods avvenuto agli inizi degli anni settanta del secolo scorso e che può essere definito appropriatamente come dollar standard, nel quale anche internazionalmente manca il supporto reale, cioè aureo, perfino con riferimento alla moneta di riserva, e cioè al dollaro. Il difetto principale del dollar standard è che esso non prevede alcun meccanismo per evitare ampi e persistenti squilibri quando questi riguardano la bilancia dei pagamenti correnti degli Stati Uniti. Di fatto quest'ultima si è andata progressivamente deteriorando, sicchè il deficit estero è ormai fuori controllo, raggiungendo quasi il 7% del prodotto interno lordo americano. E' evidente a questo punto che l'effetto combinato della fiat money interna e del dollar standard internazionale, eliminando ogni tipo di disciplina, non poteva non generare, se non un'inflazione monetaria per i motivi detti, almeno un'inflazione creditizia, e questa sarebbe stata di proporzioni inimmaginabili e si sarebbe riflessa in grandi bolle speculative nei mercati azionari, immobiliari e delle commodities. Queste bolle speculative avrebbero riguardato sia i Paesi che vedevano gonfiarsi le loro riserve a fronte della creazione di moneta nazionale, come la Cina e La Russia, sia gli Stati Uniti, in quanto i loro partners commerciali ? essendo il dollaro moneta di riserva - hanno reinvestito il surplus di dollari negli Stati Uniti stessi. Ad un certo momento l'enorme deficit di parte corrente degli Stati Uniti, reso possibile dal sistema del dollar standard, ha destabilizzato l'intera economia globale. Per questo io credo che i mercati del credito globali, che apparentemente si sono ripresi dalla crisi di luglio, sono nella morsa della peggior crisi sistemica che si ricordi a memoria d'uomo. Una notevole porzione degli strumenti finanziari, come le collateralised debt obligations e le commercial papers, oggi è inutilizzabile. La solvibilità di alcune delle più grandi istituzioni finanziarie del mondo è messa in discussione e la fiducia sul mercato dei depositi interbancari è evaporata. Le banche centrali in agosto, per fronteggiare questa incipiente catastrofe finanziaria mondiale, si sono sentite in dovere di iniettare centinaia di miliardi di dollari nei mercati monetari. Ciò dimostra che, non solo in un contesto inflazionistico, ma anche in un contesto deflazionistico come l'attuale il potere delle banche centrali, che tuttavia le ha fatte vivere alcuni anni in una sorta di delirio di onnipotenza, finisce per essere limitato. Certamente la situazione è ben diversa da quella degli anni 1970, ma seppure attraverso una successione di rapporti di causa/effetto più lunga, si giunge ad una conclusione univoca: quasi la morale della storia. La creazione di moneta solo apparentemente può creare ricchezza e solo per un certo tempo. La ricchezza alla fine può essere solo il frutto del risparmio accumulato nel tempo e poco ha a che vedere con gli strumenti di ingegneria finanziaria. Come non esiste la macchina del moto perpetuo, così la ricchezza non può essere creata dal nulla: nella finanza crediti e debiti si compensano, le attività finanziarie di un operatore non sono nient'altro che le passività finanziarie di un altro e alla fine, quando debiti e crediti si consolidano a livello di sistema nel suo complesso, rimane solo la ricchezza reale, e cioè i beni fisici e i servizi, sia privati che pubblici, che i cittadini hanno saputo produrre con il duro lavoro. E' una lezione che molti, troppi hanno dimenticato. Francesco Arcucci [.


 

 

 

L’Unità 28-9-2007 L'euro e il dollaro bucato Laura Pennacchi

 

Con l'aumento record del valore dell'euro il terremoto monetario che in queste settimane ha scosso i mercati finanziari di tutto il mondo si manifesta anche come sommovimento valutario, di cui è emblematica la svalutazione del dollaro. Per il momento la crisi dei mutui subprime (mutui di seconda scelta) sembra colpire soprattutto i lavoratori (100.000 i posti di lavoro già persi negli Usa nel solo settore finanziario), mentre paiono sotto controllo le ricadute sulle borse mondiali - che tuttavia tra luglio e agosto hanno bruciato più di 5500 miliardi di dollari di capitalizzazione - e l'impatto sul sistema creditizio (benché le perdite stimate a carico delle banche ammontino a circa 40 miliardi di dollari e addirittura a 160 quelle a carico degli investitori in prodotti strutturati). Il presidente della Federal Reserve Bernanke ha già ammonito che la crisi presenta caratteri di gravità superiori a quelli immaginati e le preoccupazioni per la crescita sono state certo alla base della sua decisione di abbassare il tasso sui Fed Funds di 50 punti base invece di 25 (come era nelle attese). La decisione della Federal Reserve ha certamente influito sull'immediato successivo apprezzamento dell'euro il quale, partito nel 1999 a un livello di 1,165 a dollaro e passato attraverso andamenti altalenanti, ha ora superato la soglia fatidica di 1,4. Ma sull'apprezzamento dell'euro influiscono altri movimenti valutari che, guidati dalla svalutazione del dollaro, sembrano rispondere a logiche di più complessiva ridislocazione del potere economico internazionale e di più ampia redistribuzione delle aree di influenza e dei centri gravitazionali. Lo yuan cinese, con l'intento di difendere le esportazioni dalla Cina verso l'America, segue e amplifica la svalutazione del dollaro accentuando così il proprio deprezzamento nei confronti dell'euro, il che aggrava i problemi di competitività delle merci europee. Il rublo, lo yen giapponese, la rupia indiana seguono l'euro nella rivalutazione e altrettanto sembrerebbero apprestarsi a fare le monete dei paesi arabi del golfo, anticipati dalle autorità monetarie saudite, la cui decisione di mantenere inalterati i propri tassi senza seguire la discesa di quelli americani sembra dovuta, oltre che al tentativo di arginare le conseguenze inflazionistiche interne dell'incredibile incremento del prezzo del petrolio - che è giunto a superare gli 82 dollari al barile - alla volontà di sostituire progressivamente, all'aggancio al dollaro, quello all'euro. Le fonti di instabilità, comunque, continuano ad accumularsi negli Usa, a tutt'oggi il paese paradossalmente più ricco e più indebitato del mondo, in grado di risucchiare più di due terzi dei flussi netti di capitale internazionali, al cui interno si legano e si avvitano il clamoroso deficit pubblico, gli squilibri della bilancia commerciale, l'elevatissimo indebitamento di tutti gli operatori privati (famiglie e imprese), il sostegno alla crescita economica fornito da successive attivazioni "drogate" della borsa e l'alimentazione di "bolle speculative" (prima quella mobiliare, ora quella immobiliare), la manovra dei tassi di interesse e la svalutazione del dollaro Difficile dire se i sommovimenti indicati avvicinino il momento in cui l'euro possa soppiantare il dollaro in quanto moneta di riserva mondiale, come perfino Greenspan ha preconizzato. Certo ad oggi l'euro rappresenta il 25% di tutte riserve mondiali e il 39% dei pagamenti tra paesi diversi ed è già molto. Troppo per rapportarvisi solo lamentando la perdita di competitività delle merci europee ed italiane, senza vedere i più complessi problemi ma anche le straordinarie opportunità che tutto ciò contiene. Il punto è che per vedere sia gli uni che le altre, e per attrezzarsi a farvi fronte, occorre dotarsi di un grande spirito critico e progettuale, vedendo tutti i limiti di un'invocazione dell'autonomia del mercato mai come ora contraddetta dai fatti e dotandosi di efficaci politiche pubbliche a scala europea. Emergono, infatti, sempre più chiaramente la forza e la preveggenza del disegno dell'euro - tra i cui ideatori vi furono personalità quali Delors e Ciampi - come pilastro della possibilità di far svolgere all'Europa un ruolo di regolazione e di giustizia nella globalizzazione convulsa e ingiusta dei nostri tempi. Quella forza e quella preveggenza vanno però sviluppate pena il loro deperimento. Innanzitutto sul piano costituzionale, che è quello su cui è più coerentemente dimostrabile che l'Europa non è solo un'area di "libero scambio". Ma anche sul piano della politica economica e sociale. Qui, in particolare, andrebbero indagate quattro linee d'azione: 1. Strategie di partnership dell'Europa con gli Usa e con la Cina per definire un nuovo ordine economico mondiale. Una globalizzazione "equa" richiede una nuova Bretton Woods che abbia la stessa ambizione e la stessa dotazione di strumenti. In questo ambito andrebbero recuperate le funzioni originarie (keynesiane) di Imf e Wb e pensate riforme radicali, per gli aspetti più propriamente economici e monetari, di Onu, Wto e altre istituzioni finanziarie internazionali e/o continentali. 2. L'Euro come "scudo" ma anche come "lancia". Si tratta delle espressioni su cui non si stanca di insistere Giorgio Ruffolo. L'Euro, cioè, non solo come strumento di stabilizzazione, di neutralizzazione degli squilibri di origine esterna all'area e di contrasto dell'inflazione - obiettivi che hanno portato a dare alla Banca Centrale Europea (Bce) un ruolo senza paragone nei sistemi democratici contemporanei - ma anche come strumento di rilancio della crescita e pertanto di aiuto alle ristrutturazioni e alle riconversioni industriali in una logica integrata, di identificazioni di linee di nuovo sviluppo comuni e cooperative per i paesi membri. In poche parole l'ispirazione, attualizzata quanto si vuole ma sempre valida, del "piano Delors". 3. Le istituzioni più adeguate a garantire il governo economico dell'Europa. La politica monetaria va tenuta scissa dalla politica in favore degli investimenti? La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) svolge adeguatamente i suoi compiti? Non sarebbe meglio pensare a una fusione di Bce e di Bei? E, dunque, a un'interazione strategica di compiti? In questo ambito problematico si possono prendere in considerazione in modo più incisivo ipotesi di emissioni di obbligazioni a lunghissimo termine finalizzate alla crescita e allo sviluppo. Più in generale, nel riflettere sulla necessità di un maggiore coordinamento delle politiche economiche europee, una speciale attenzione va prestata alla questione del coordinamento delle politiche tributarie, sotto due profili a) le entrate fiscali comunque come mezzo di finanziamento, b) la fiscal competion come strumento di erosione, se non di distruzione, del modello sociale europeo (per cui appare censurabile la remissività con cui la Commissione Barroso ha accolto le introduzioni di flat tax al ribasso in molti dei paesi nuovi entrati). 4. Organizzare un mercato finanziario europeo. È auspicabile, utile, possibile un tale mercato, nonostante molti continuino a sostenere che in questo campo la dimensione non può che essere globale, così, però, lasciando il dominio al mercato finanziario americano e a quello inglese? Sul continente oggi esistono due grossi mercati finanziari, pur con tutte le loro rigidità: quello francese e quello tedesco. Si può immaginare di fonderli? L'Europa potrebbe chiedere a questi mercati di finanziare in modo attivo nuove prospettive di sviluppo a scala continentale?


L’Espresso 28-9-2007 Quel dollaro salva Usa. di Massimo Riva

 

AVVISO AI NAVIGANTI

La continua scalata dell'euro sul dollaro ha innescato dure polemiche contro la Banca centrale europea. Alla Bce si rimprovera di praticare una politica di tassi d'interesse troppo elevati in rapporto a quella che si sta, viceversa, facendo negli Stati Uniti: mettendo così in pericolo l'esportazione di prodotti 'made in Europe'. In Italia, alla testa dei contestatori c'è il presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo. Ma in Europa la questione ha acquisito ben maggiore spessore politico per i reiterati attacchi contro Francoforte niente meno che da parte del presidente francese, Nicolas Sarkozy. Che il mondo della produzione non ami lavorare con una moneta forte è storia vecchia: soprattutto in Italia, dove il sistema industriale ha cominciato a disintossicarsi dall'abusata droga delle svalutazioni competitive, ma fa ancora fatica a reggere la cura. Meno normale è che la polemica contro la banca centrale sia condotta in prima persona da un Capo di Stato. Il chairman della Bce, il francese Jean-Claude Trichet, ha risposto per le rime alle pressioni del suo presidente ricordandogli che l'indipendenza della banca è sancita nei trattati. Ma questo battibecco francofono non ha offerto un bello spettacolo, anche perché ha messo in luce le forti pulsioni dirigiste di quel nuovo inquilino dell'Eliseo che, con qualche eccesso di precipitazione, molti europeisti avevano salutato come il salvatore dell'Unione. Certo che una moneta forte scoraggia le esportazioni. Ma basta questo per chiedere alla Bce di inseguire gli Usa nella discesa dei tassi d'interesse? Intanto, va detto che oggi non ci si trova di fronte a un rafforzamento autogeno dell'euro: in realtà, non è la moneta europea che sale, ma è il dollaro che scende. L'andamento dei prezzi del petrolio ne è la più evidente conferma con le quotazioni che crescono in dollari, ma restano sostanzialmente stabili in euro. è troppo presto per ricavarne che i tesorieri dell'Opec abbiano avviato una strategia di sganciamento dalla valuta americana per arrivare a quotare il barile in euro. Ma è già chiaro che quella europea si sta ormai affermando come moneta di riserva e di scambio a livello mondiale. Il combinato disposto di un simile processo e della fuga generale dal dollaro innescata dalla crisi dei mutui americana rende assai aleatoria la speranza di chi ritiene che un taglio ai tassi ufficiali in Europa possa automaticamente rilanciare la competitività delle esportazioni del vecchio continente. Chi si allontana oggi dal dollaro lo fa perché teme un forte rallentamento dell'economia Usa o addirittura la sua caduta in recessione. Se ciò dovesse verificarsi, non è che il ritorno a un cambio più favorevole basterebbe ad aiutare l'export europeo: dove non si compra, colà non si vende. Paradossalmente proprio un dollaro debole per un ragionevole periodo potrebbe essere la chiave per scongiurare la fermata della maggiore locomotiva del mondo. Quindi, fra Sarkozy, che guarda all'oggi, e la Bce, che spinge gli occhi un po' più avanti, la scelta è obbligata. Del resto, la storia insegna che si va solo in cerca di guai, quando si mettono nelle stesse mani la borsa e la spada.


La Gazzetta del Sud 28-9-2007 Cambi, supereuro a un passo da 1,42. Ieri si è registrato un nuovo record per la lanciatissima valuta unica del Vecchio Continente arrivata a 1,4189 Cambi, supereuro a un passo da 1,42 Il mercato valutario punta dichiaratamente su un nuovo taglio dei Fed Funds Bianca Rebulla

 

ROMA Supereuro anche ieri lanciato sul mercato dei cambi, ormai ad un passo da 1,42 dollari, con un nuovo record a 1,4189. Il mercato valutario punta dichiaratamente su un nuovo taglio dei Fed Funds da parte della banca centrale statunitense, in occasione della riunione del FOMC di fine ottobre. Proprio ieri del resto dagli Stati Uniti è arrivato il dato peggiore delle attese relativo alla dinamica delle compravendite di nuove case ad agosto, che ha registrato una flessione dell'8,3%, con il prezzo medio delle abitazioni calato del 7,5%, il peggiore risultato dal 1970. Paradossalmente, dopo la comunicazione di questa statistica l'euro ha perso qualche posizione, pur mantenendosi largamente sopra 1,41 dollari. Con ogni probabilità sono scattate le prese di beneficio, considerato che nelle ultime sei sedute la valuta unica ha inanellato record su record. L'euro ha risentito negativamente anche del fatto che la Banca europea ha ieri reso noto di aver accordato un finanziamento da 3,9 miliardi al cosiddetto tasso marginale, vale a dire un tasso di emergenza che ha un costo di un punto percentuale superiore a quello overnight. Si tratta dell'importo più elevato accordato tramite questo strumento che equivale al tasso di sconto dal mese di ottobre del 2004, di conseguenza l'intervento ha alimentato rumors circa le difficoltà di alcuni istituti bancari. L'andamento dei futures assegna comunque un 88,0% di probabilità ad uno scenario di tassi in ulteriore ribasso negli Stati Uniti, mentre per quanto riguarda l'Eurozona la partita è più che mai aperta, anche perché alla luce dei continui record dell'euro la Bce potrebbe aver le mani legate relativamente ad un eventuale rialzo del costo del denaro. Il cross dollaro/yen si è infine attestato su un massimo a 115,88; nelle ultime sedute si è assistito ad un indebolimento della valuta nipponica per via del riproporsi delle operazioni cosiddette di "carrying trade" in cui gli investitori si indebitano in yen per acquistare asset più redditi in altre valute. La ripresa di questi movimenti testimonia in ogni caso il ripristino di condizioni di maggiore calma sul mercato valutario, dopo che questa tipologia di interventi si era fermata del tutto in coincidenza con la crisi provocata dal dissesto dei mutui immobiliari statunitensi ad alto rischio. Intanto, mugugni si alzano anche dai grandi esportatori europei, molti gli italiani che si vedono ancora penalizzati da supereuro. (venerdì 28 settembre 2007).



Il Sole 24 Ore 22-9-2007 Il dollaro sul filo del rasoio di Mario Margiocco

 

L'America in un mare di dollari

 

Fino a quando il mondo vorrà comperare dollari, cosa che da anni sta facendo al ritmo di non meno 2-2,5 miliardi al giorno? Non ne ha abbastanza? E poiché il dollaro scenderà ancora, asiatici e arabi soprattutto assisteranno a un calo di ricchezza senza vendere, almeno parte, i titoli in dollari?
Per la prima economia del mondo, detentrice della valuta-principe negli scambi internazionali e finora sia pure con alterne vicende store of value globale, il livello di indebitamento possibile è pari alla disponibilità dei creditori a investire in quella valuta. Anche gli Stati Uniti cioè hanno il credito che il resto del mondo è disposto a riconoscergli. Ne hanno avuto tanto, soprattutto negli ultimi dieci e ancor più cinque anni. Da questo indebitamento devono gradatamente rientrare. La fiducia, di fronte alla massa di dollari si sta assottigliando. La crisi finanziaria innescata dai mutui subprime e dalle insolvibilità che ne sono seguite rischia di rendere il rientro disordinato e pericoloso per tutti.
Nel 2005, riepilogava a inizio estate l'ultima analisi del Congressional Budget Office americano, gli investimenti stranieri totali negli Stati Uniti erano di 13 mila 600 miliardi, il 109% del Pil , pari a circa 11mila miliardi. Si trattava del 9% in più rispetto al 2004 e del 52% in più rispetto al 2000. Nel 2003 i titoli del Tesoro in mano estera erano a 1.450 miliardi e a fine 2006 a 2.130miliardi, cui vanno aggiunti 1.200 miliardi di altri titoli pubblici americani, più del doppio rispetto al 2001. In totale in pochi anni la quota di debito pubblico in mani estere è aumentata di quasi il 50 per cento. Il resto sono azioni e investimenti diretti, immobiliari e produttivi. Questa massa di dollari che viene sottoscritta al ritmo di non meno di 2 miliardi al giorno serve per finanziare gli investimenti interni. Il risparmio del settore pubblico è basso e quello delle famiglie inesistente, gli investimenti sono pari all'8% del reddito nazionale, il risparmio al 2 e quindi il 6% deve essere fornito da capitali esteri. E' un meccanismo avviato nel 1991, da allora mai interrotto, e cresciuto.
Il Giappone ha il 31% della quota estera , la Cina il 19, i Paesi Ue il 15 e i Paesi del Golfo il 5 per cento, in parte rilevante come riserve delle rispettive banche centrali. Sono almeno due anni che sono sempre più pressanti i dubbi sulla capacità di tenuta di un sistema a ciclo integrale dove gli americani acquistano a pieno ritmo prodotti asiatici e petrolio e il denaro ritorna negli Stati Uniti sotto forma di investimenti di portafoglio e altro, ma finora ha retto. Tra aprile 2006 e aprile 2007 gli americano hanno importato beni per 1.880 miliardi, ma gli stranieri hanno acquistato titoli americani per 896miliradi, mentre nei 12 mesi conclusi a giugno le banche centrali del mondo hanno acquistato ancora titolo del Tesoro Usa, e altri emittenti pubblici, per 324 miliardi.
Poi è venuta l'estate del 2007 e la crisi dei mutui subprime, evidente da marzo almeno, è esplosa. All'inizio molti hanno detto che il nervosismo portava, come spesso in passato, a cercare rifugio nel dollaro, che in effetti ad agosto recuperava sull'euro il 3,5% in sei sedute positive consecutive. "Il dollaro è ancora moneta rifugio", titolavano vari giornali, americani soprattutto. Dietro c'era l'idea che gli investitori americani sarebbero tornati sul dollaro, cercando sicurezza, più in fretta di quanto eventualmente altri se ne sarebbero allontanati. "E' illusorio ritenere il dollaro un porto sicuro", ribatteva David Woo, l'esperto di cambi di Barclays Capital, preannunciando quello che si sarebbe verificato. E cioè che Bernanke avrebbe dovuto abbassare i tassi, cosa che ha fatto e di ben 50 punti base il 18 settembre, per far fronte alla crisi finanziaria interna e agevolare liquidità al sistema bancario, e che a quel punto la prospettiva di un ulteriore e più forte indebolimento del dollaro avrebbe spinto molti ad alleggerire le posizioni.
"Mai la Fed non si era imbarcata prima in un allentamento monetario con una dipendenza dell'economia americana così legata alla disponibilità estera di finanziare un deficit così alto delle partite correnti", dice Woo. Un deficit più che raddoppiato rispetto agli inizi dell'attuale ciclo espansivo americano nel 2002-2003. Il brusco peggioramento del cambio dollaro-euro dice che ci sono consistenti vendite di dollari, e il fatto che il cambio dollaro-yen sia stabile non è molto indicativo, fanno osservare vari operatori, perché sullo yen pesano le operazione del carry trade, l'indebitamento a tassi bassissimi in yen per investimenti in altre valute più remunerative.
La Federal reserve ha tagliato i tassi per far fronte alla crisi finanziaria interna e ai rischi di bancarotta dopo che dal 2004 aumentava - lo ha fatto per ben 17 volte consecutive dal giugno 2004 - per preparare il soft landing dell'indebitamento americano, pilotare un dollaro che subiva spinte al ribasso, evitare che fossero troppo rapide e forti, e avviare un graduale risanamento dagli eccessi di debito estero. Ora, saranno più forti le spinte anti crisi finanziaria e anti recessione o quelle in difesa del valore del dollaro e per assicurare un soft landing? In un 2008 elettorale il timore è che prevalgano le prime.
Da tempo, e ancor più nelle ultimissime settimane, un dato scrutato con apprensione è quello del Treasury International Capital System, gestito dalla Fed di New York che periodicamente indica l'andamento dei titoli in dollari lasciati in affidamento dalle banche centrali di tutto il mondo. Sono scesi per 48 miliardi da luglio, e per 32 miliardi nelle sole due settimane a cavallo fra agosto e settembre. E' ancora presto per trarre conclusioni, e se la Cina sta vendendo lo sapremo solo a novembre.
Ma è anche sulla Cina, e sul suo sistema finanziario dove dal 25 al 50% dei crediti all'industria sono altamente a rischio, e ampiamente sovvenzionati, che si punta l'attenzione. La necessità cinese di fare cassa vendendo titoli del Tesoro Usa sarebbe esiziale per il dollaro, e per i 2 miliardi di dollari di cui gli Stati Uniti hanno ogni giorno bisogno. I mercati monetari procedono sul filo del rasoio. Mai come dai tempi della fine del sistema di Bretton Woods, nel 1971-1973, i rischi sono stati grandi e la cooperazione globale necessaria. Quello che rischia di finire malamente, infatti, come malamente finì il sistema dei cambi fissi, è un sistema informalmente centrato sul dollaro che da almeno dieci anni regge gran parte dell'economia globale. E per l'euro non è augurabile un maggior ruolo internazionale, non in queste circostanze.

 


Borsa e Finanza 22-9-2007 L'evento principale della settimana è l'ennesima caduta verticale del dollaro. ...

 

di Redazione - 22-09-2007 L'evento principale della settimana è l'ennesima caduta verticale del dollaro. Sospinto da rinnovati timori circa la tenuta dell'economia e l'affidabilità del credito ipotecario Usa, il biglietto verde ha rotto gli ormeggi, infrangendo il muro di 1,40 contro euro e raggiungendo la parità contro il dollaro canadese. A questo punto urge rispondere a parecchie domande: vedremo il dollaro a 1,50? L'oro salirà a quota 900? Che cosa alimenta la corsa del petrolio nonostante il brusco indebolimento della congiuntura americana? È possibile capirci qualcosa? B&F ne ha parlato con Paul Horne, che non solo è un grande cultore delle discipline economiche, ma è anche una persona assai fortunata. Inizia la carriera come corrispondente del Times da Roma, in seguito passa a lavorare per la Smith Barney, ramo banche d'affari. Si trasferisce a Parigi nel 1975, poi a Londra, poi di nuovo a Parigi. Diventa il capo economista per l'Europa quando la Smith Barney viene assorbita dalla Citigroup. Oggi, consulente privato, vive sei mesi l'anno a Parigi in un bell'appartamento affacciato sulla Senna in Quai de Montebello, a pochi metri da Notre Dame. Gli altri sei mesi li spende negli Stati Uniti fra Washington e New York. Insomma, un uomo che "pendola" fra le due sponde dell'Atlantico: il candidato ideale per decifrare i movimenti di capitale che muovono dall'America verso l'Europa. Mr. Horne, lei vive un po' al di là e un po' al di qua dell'Oceano. Direbbe che il Vecchio Continente è diventato caro, ora che la moneta unica ha superato la soglia di 1,40? Direi carissimo. Voglio raccontarle qualche aneddoto. Ho un appartamento a Parigi, che di tanto in tanto affitto ad amici americani. Ebbene, proprio ieri arriva un nuovo inquilino. Mi telefona perché ha qualche problema con la caldaia. Si parla del più e del meno, e mi confessa di essere rimasto di sasso di fronte al livello dei prezzi nella capitale francese. E ne vuole sapere un'altra? Dica pure. A dicembre deve arrivarne un altro. Sottolineo a dicembre, non a ottobre. Ciononostante, ieri trovo nella casella postale il suo assegno accompagnato da un bigliettino che recitava grossomodo così: Paul, eccoti i tuoi soldi; te li do adesso perché tra un paio di mesi chissà dove finirà il dollaro... Non male. Io credo che questo piccolo esempio fornisca il paradigma di quanto sta avvenendo a livello aggregato. Ossia? Si anticipano i pagamenti in dollari; viceversa le filiali estere delle multinazionali americane scelgono di non convertire i guadagni derivanti dal loro business (cioè euro, yen, franchi svizzeri, ecc. ecc.) in moneta statunitense. Questo perché si è consolidata l'idea secondo cui nelle prossime settimane sarà molto difficile erigere un argine di contenimento ai capitali speculativi, giusto? Sì, la Federal Reserve ha allentato il rigore della politica monetaria e i tassi d'interesse stanno scendendo rapidamente. Qualche mese fa, i titoli federali a 10 anni rendevano il 5,2%, mentre adesso galleggiano intorno al 4,5 per cento. Se diamo il giusto peso all'inflazione, ci accorgiamo che le obbligazioni governative tedesche offrono cedole più sostanziose delle loro controparti a stelle e strisce, e ciò ha innescato forti correnti d'investimento verso l'Europa. La divisa comunitaria ha alte probabilità di toccare 1,45. Stando all'opinione prevalente, si deve mettere in conto almeno un altro taglio del costo del denaro entro la fine del 2007. Lei concorda? Assolutamente sì. La crisi del mercato immobiliare raggiungerà lo zenit nell'inverno del 2008, quando un gran numero di prestiti ipotecari subirà il rincaro delle rate. Questa è la vera spada di Damocle che pende sulla testa dell'economia americana. Perciò la strategia di soccorso della Fed prevede due o tre tagli aggiuntivi, con la prospettiva di portare il saggio base dal 4,75% attuale al 4% entro l'estate. Sente odore di recessione? È possibile che i primi due trimestri del 2008 siano a crescita zero. Come dovrebbero comportarsi gli investitori? Personalmente, desidero mantenere una posizione liquida e attendere che la malattia faccia il suo corso. A mio giudizio, diversi asset americani stanno acquistando un grande valore, se espressi in euro, yen o sterline. A un certo punto, gli europei, gli asiatici, i mediorientali si accorgeranno che una Citigroup o una Ford rappresenteranno una ghiotta occasione in moneta estera. Quello sarà il momento in cui vorrò comprare a piene mani. Del resto, anche grandi investitori come Warren Buffett siedono su enormi quantità di denaro contante, e fanno esercizio di pazienza. E l'oro? L'oro disegna la traiettoria opposta al biglietto verde, e garantisce qualcosa in più delle divise cartacee. In effetti, i travagli della Bnp Paribas, della Northern Rock e della Bear Stearns provocano riflessioni e inquietudini negli operatori, sicché il denaro affluisce naturalmente verso i beni rifugio. Il lingotto potrebbe toccare 770-800 dollari l'oncia. C'è poi il petrolio. Qualcuno nota una contraddizione nel fatto che i corsi del greggio puntano verso l'alto mentre si discorre di recessione negli Stati Uniti. Non c'è alcuna contraddizione. L'attività produttiva è forte in Cina, India, Medio Oriente, Sud America, parte dell'Europa. Ma, soprattutto, l'industria estrattiva è prossima al limite, e anzi inizia a declinare in Iran, Iraq, Norvegia, Regno Unito, Venezuela, Arabia Saudita, Russia. Se si verificasse un uragano di forte entità, le quotazioni potrebbero schizzare a 90 dollari al barile. Una domanda finale. In passato, quando gli Usa rallentavano, anche l'Europa e l'Asia moderavano il loro passo, allo stesso modo in cui le carrozze di un treno seguono la velocità del locomotore. Ora, però, non pochi esperti sostengono il contrario, ossia che l'Europa sarebbe in grado di camminare sola sulle sue gambe. Lei ci crede? Fino a un certo punto. Il consumatore americano è ancora il consumatore di ultima istanza, basta guardare all'ammontare del nostro deficit commerciale, che corrisponde all'avanzo del resto del mondo. L'America, inoltre, sta esportando i suoi problemi attraverso la svalutazione della moneta. Perciò se fossi in Trichet (il governatore della Banca centrale europea) starei con gli occhi bene aperti, pronto ad attivare politiche di soccorso se ve ne fosse la necessità.


Milano Finanza 6-9-2007 Nella stagione dei subprime il dollaro resterà mini. Giuseppe Pennisi.

 

La crisi dei Cdo Usa, fondi strutturati che includono una buona dose di mutui subprime, non è ancora del tutto risolta come dimostra il forte calo delle borse nella seduta di ieri. Molti si sono chiesti quali potranno essere i suoi effetti sul ciclo economico Usa e, di rimando, sull'economia delle aree più correlate agli Stati Uniti. Pochi, almeno sulla stampa (sia generalista sia di settore), si sono domandati quali saranno le implicazioni sui cambi e se tali implicazioni potranno essere una cinghia di trasmissione particolarmente incisiva sull'economia mondiale. è un interrogativo, questo, che si pongono sia gli studiosi sia gli operatori. Max Corden, sui cui libri sul commercio internazionale hanno studiato numerosi ministri e direttori generali di dicasteri economici e finanziari, risponde con un sorriso: a suo avviso si drammatizza eccessivamente il disavanzo dei conti con l'estero Usa poiché si tratta soltanto di uno squilibrio temporaneo tra transazioni finanziarie e transazioni reali di cui le tensioni sulle borse possono accelerare la cura. Tale cura, però, può comportare un ulteriore deprezzamento del dollaro. Un lavoro del servizio studi Bce (in uscita in settembre come working paper n. 790) conclude un'attenta analisi econometrica dicendo che shock nei mercati azionari e immobiliari hanno inciso in misura significativa (sino al 32%) sulla bilancia dei pagamenti Usa nell'arco di 20 trimestri recenti. è un'incidenza notevolmente maggiore di quella da attribuirsi alla bilancia commerciale (sino al 7%).Che cosa vogliono dire queste analisi in termini pratici? Nonostante la leggera flessione del valore internazionale dell'euro nei giorni più caldi del subprime – quelli attorno a Ferragosto- la tendenza di fondo degli ultimi mesi (ossia un nuovo deprezzamento del dollaro) dovrebbe continuare, specie se la Federal Reserve ritoccasse all'ingiù l'interbancario e la Bce all'insù il pronto contro termine . Inoltre, dati ancora frammentari del Fondo monetario, indicano che i Paesi a bilancia dei pagamenti molto forte (Cina in primo luogo) stanno accelerando il processo di conversione di parte delle riserve dal dollaro Usa all'euro dal momento che hanno già perso in termini di valorizzazione dei titoli del Tesoro Usa e temono di perdere ancora di più con i movimenti dei cambi.Goldman Sachs e Merryll Lynch prevedono che l'euro arriverà a 1,42 dollari Usa entro la fine dell'anno. Lo conferma Currency Direct di Londra: nei giorni del credit crunch i cambisti sono saltati sul dollaro in quanto moneta rifugio in un trambusto che si pensava sarebbe diventato mondiale, ma adesso (dopo la forte infusione di liquidità da parte della Bce e, in misura più modesta, della Fed) si viaggia verso una stabilizzazione attorno 1,40 dollari per euro. "L'occhio del ciclone", aggiunge una lettera di Merrill Lynch ai propri investitori, "è negli Usa: quindi, le aspettative per un deprezzamento ulteriore del valore internazionale della sua moneta". Quali le implicazioni per paesi come Francia, Germania e Italia alle prese con la preparazione delle rispettive leggi di bilancio? Si può essere orgogliosi del fatto che la propria moneta acquisisca una quota maggiore delle riserve mondiali. Ma l'orgoglio costa, specialmente in termini di export, quando implica un apprezzamento del cambio. Il Fondo monetario sta mettendo a punto l'Economic Outlook (che verrà presentato tra un mese e mezzo): si parla un ritocco al ribasso per la crescita Usa (il prossimo non sfiorerebbe il 2%) e dell'area dell'euro (nel 2008 il consensus forecast è il 2,3%). Per l'Italia, il ministro dell'economia e delle finanze ha già avvertito che la crescita l'anno prossimo sarà attorno all'1,8% (non il 2% previsto nel Dpef). Nell'aggiornamento del Dpef, è verosimile che il freno all'export (dovuto in certa misura al cambio), unitamente ad altre determinanti, abbassi la crescita all'1,5%. Ciò vuol dire drastiche misure dal lato della spesa. Se si vuole mantenere la parola di non effettuare aggravi fiscali. (riproduzione riservata)Giuseppe Pennisi MF 


Aprileonline 5-9-2007 La bolla dei mutui, una crisi ovvia

Nane Cantatore,  05 settembre 2007

Approfondimenti      Il caso subprime è solo la prima conseguenza, del tutto prevedibile, della dissennatezza con cui sono state gestite le finanze americane in questi anni; ora la sfida sarà nell'evitare che la crisi colpisca il resto del mondo

A volte, ma solo a volte, capita che anche i banchieri parlino con sincerità: è avvenuto in questi giorni, quando Bernanke ha ammesso che la crisi dei mutui subprime è davvero grave.

A tutti capitano dei momenti in cui si perde la concentrazione, ma il capo della Fed si è subito ripreso ed è tornato al suo rapporto istituzionalmente disinvolto con la verità affermando che si trattava di un fatto "imprevisto". In realtà, di imprevisto c'è ben poco: le finanziarie e le banche americane hanno favorito in ogni modo l'indebitamento dei cittadini, in barba a ogni idea di sostenibilità e persino ad ogni elementare calcolo di prudenza.

La ragione di questo comportamento, all'apparenza folle, è, ancora, sotto gli occhi di tutti: il portafoglio dei crediti viene venduto agli investitori, sotto forma di fondi e di altri prodotti derivati, a prezzi scontati rispetto ai tassi nominali. Insomma, se il signor John Doe riceve 100.000 dollari di finanziamento per il suo mutuo ventennale subprime con rate, diciamo, di 8.000 dollari all'anno, questo debito, che produrrebbe un ritorno totale alla fine del pagamento delle rate per 160.000 dollari, viene girato dalla banca a un fondo di investimento, diciamo per 120.000 dollari subito. A queste condizioni, è chiaro che alla banca non interessa più di tanto il regolare pagamento delle rate, mentre ha ogni interesse a far salire l'indebitamento, ben oltre i limiti di sostenibilità; anzi, a questo punto conviene che si accumulino ritardi e sofferenze, che generano interessi di mora e commissioni, a tutto vantaggio della banca stessa, che continua ad essere il soggetto che riceve i pagamenti dal povero signor Doe.

Tutto ciò è avvenuto con la benedizione delle istituzioni, che in questo modo hanno registrato la costante crescita dei consumi, e dunque dell'economia, anche in un momento di notevole perdita di competitività. Per non parlare dei mercati, che si sono lanciati in vertiginosi giochetti speculativi; dei proprietari di immobili, che con una domanda così drogata hanno visto lievitare il valore dei loro beni; e delle impeccabili e azzimate agenzie di rating, riccamente pagate per dare il loro beneplacito a queste operazioni. Ma è giusto ricordare che anche le altre economie hanno inzuppato il pane in questa torbida brodaglia, visto che i consumi americani hanno sostenuto le esportazioni di più o meno tutti i Paesi industrializzati.

Oggi è difficile non vedere quello che su queste pagine si legge da anni: che il sistema finanziario americano è in un grave stato di dissesto, che il dollaro è ampiamente sopravvalutato, che l'intera economia statunitense poggia su basi estremamente fragili, e che il debito pubblico Usa, a queste condizioni, è davvero una voragine spaventosa. E dovrebbe essere chiaro che non c'è nessuna ragione di rallegrarsi delle difficoltà americane, visto che una crisi finanziaria negli Stati Uniti, la cui possibilità si fa sempre più concreta, avrebbe pesanti ripercussioni ovunque. Per questo in tutto il mondo si sta correndo ai ripari, cercando di rafforzare la domanda interna senza compromettere l'equilibrio finanziario, e di pilotare la crisi americana nel modo più indolore possibile.
Un abbassamento dei tassi da parte della Fed sarà inevitabile, il che potrà innescare dei rischi di inflazione, ma per lo meno abbasserà il peso del debito e darà nuovo fiato all'economia; ciò probabilmente comporterà anche una pausa nella politica rialzista della Bce, il che dovrebbe favorire la ripresa europea, mentre la Cina si troverà, probabilmente, in una posizione più difficile, vista la sua dipendenza dalle importazioni americane. Ad ogni modo, la causa profonda di questi problemi è, con ogni probabilità, l'eccesso mondiale di liquidità, prodotto dalla spaventosa crescita dei profitti aziendali avuta in questi anni: la risposta corretta, sostenibile nel lungo periodo e più efficace, sarebbe un'inversione di tendenza, con l'introduzione di massicce politiche redistributive. Ma, chissà perché, non sembra che il mondo stia imboccando questa strada.


Il Manifesto 19-7-2007"Al massimo una ripresina", dice il capo della Fed. Per colpa del petrolio E la fame di greggio colpisce l'America Maurizio Galvani

 

La ripresa negli Stati uniti? "Sarà una ripresina". Parola di Ben Bernanke, presidente della Federal reserve (Fed), la banca centrale americana. Il prodotto interno lordo - che è la vera misura della crescita di un paese - sarà quest'anno del 2,25-2,5%, quindi più lenta del 2,5%-3% previsto a febbraio. Anche il tasso di inflazione quest'anno rimane fisso al 2-2,25%, contro l'1,75%-2% che si prevede verrà registrato solamente alla fine del 2008. Il punto sull'economia statunitense fatto dal presidente Bernanke durante un'audizione davanti alla commissione per i servizi finanziari della Camera, è stato sia confuso che, soprattutto, preoccupante. Preoccupante perchè gli Stati uniti non si presentano più come la "locomotiva economica mondiale", le stime sono ogni volta più basse delle previsioni e sono spesso sbagliate, e inoltre non ammettono che il paese sta vivendo una crisi più profonda di quello che il banchiere centrale cerca di far credere. Ieri, tra le altre cose, il Dipartimento all'energia ha reso noto che "le scorte di greggio sono calate circa di 500mila barili, quelle di benzina addirittura di 2,3 milioni di barili (gli stock sono attualmente arrivati a 203,3 milioni di barili) e anche i prodotti distillati sono dimimuiti di 200mila unità". L'effetto immediato è arrivato subito: i prezzi alla pompa per il rifornimento di gasoline (carburanti) per i cittadini americani sono ormai aumentati di un dollaro a gallone e il petrolio al mercato di New York è salito di un altro dollaro: il light crude è stato scambiato a 75 dollari a barile sulle quotazioni future. Il punto del presidente Ben Bernanke è stato confuso, invece, per una altro motivo: perchè non ha saputo essere rassicurante, ad esempio dichiarando definitivamente concluso il tracollo dei fondi subprime (quelli impegnati nei mutui) che in una settimana hanno già bruciato 18 miliardi di dollari; perchè non ha detto che la bolla immobiliare si è chiusa o che al prossimo incontro del Comitato monetario la Federal reserve diminuirà i tassi di interesse - fermi ormai da mesi al 5,25% - per poter rilanciare la ripresa a fronte di un costo della vita ancora sotto controllo. Senza aiuti e stimoli, però, sarà difficile avere una crescita meno che zoppicante. Inoltre gli inaspettati aumenti del costo del petrolio si stanno scaricando sul consumatore statunitense e stanno erodendo la sua fiducia. Il cittadino comune è già colpito dalla svalutazione del dollaro e dai rimborsi dei mutui, molti dei quali diventati ormai inesigibili. La reazione a catena ha fatto scattare all'insù il valore dell'euro, che ieri ha toccato un altro record arrivando a 1,3811 dollari, mentre i mercati borsistici hanno immediatamente risentito del dato sulla dimuizione delle scorte petrolifere Usa. Gli indici delle principali piazze europee hanno perso tutti, tra l'1-1,5%; il Mib-tel della borsa di Milano ha perduto lo 0,76%. Il petrolio Brent - che si riferisce all'indice del crude scambiato a Londra - ha guadagnato un dollaro secco portandosi a 76,53 dollari a barile. A Wall street - la piazza più "vicina" all'economia Usa e ultima a chiudersi per ragioni di tempo - i due principali indici a due ore dalla chiusura delle contrattazioni perdevano quasi l'1% (il Dow jones) e quasi l'1,29%, il Nasdaq.


Liberoreporter.it 13-7-2007 Senza America Gilberto Borzini

Inserito il 11 luglio 2007 alle 10:30:00 da webmaster. IT

 

Alla debolezza del Dollaro statunitenze si accompagna una grave crisi produttiva e un crollo delle esportazioni. Il mondo multipolare, la crisi energetica, il modello sociale, i nuovi miti: molti gli elementi che fanno presagire che entro breve vivremo senza America.

Nei primi anni '80 il dollaro valeva più o meno 2000 lire italiane, la Sterlina inglese 2500 lire e il franco svizzero 1200 lire.
Il cambio attuale dell'Euro vede il dollaro a 1,35 (circa 1400 lire), la sterlina a 0,68 (2850 lire) e il franco svizzero a 1,65 (1180 lire).
In sostanza il franco svizzero ha mantenuto le posizioni rispetto, la sterlina si è rivalutata, il dollaro ha perso parecchio.
Ma nel ventennio il mondo è cambiato, passando da bipolare a multipolare.
All'epoca esistevano i petrodollari, fantasiosa costruzione del tandem Kennedy - McNamara secondo la quale gli USA compravano petrolio dagli Arabi, gli Arabi prendevano i soldi e li reinvestivano in Buoni del Tesoro USA e, con gli interessi maturati, acquistavano consulenze e materiali per la difesa dagli USA. Un sistema ingegnoso, particolarmente vivace dal punto di vista finanziario, che rese bene per almeno trent'anni.
Khomeini fu il primo a mandare all'aria il giochino, sostituendo ai petrodollari dello Shah Reza Palevi il Corano.
Saddam Hussein, invece, ci stava (all'epoca) tant'è che, casualmente, seguirono anni di guerra tra Iraq e Iran.
Per farla breve: il sistema dei "petrodollari" non regge più nè in medio oriente, nè in Nigeria né in Sud America (Brasile, Venezuela e Ecuador), e gli USA vedono declinare pericolosissimamente la curva delle vendite e delle esportazioni di materiale e consulenza bellica, ai primi posti nella scala economica della produzione USA.
Nel frattempo la Russia si è imposta come leader energetico e sta attuando quella che si chiama OPEC del Gas, con alleanze strategiche, in primis con l'Algeria.
In Afghanistan, che ci piaccia o no, il contendere concreto è tra due progetti di gasdotto, uno sponsorizzato dai russi e uno dagli americani. Del burka, in sostanza,non interessa nulla a nessuno.
Come noto oggi oltre il 60% del debito pubblico americano (bond) è in mano al Governo Cinese, governo che potremmo dire in tono poetico "tiene saldamente per le palle" l'amministrazione USA.
Malgrado il dollaro a valore di saldo le merci made-in-USA non riescono ad esportare (calo di oltre 20 punti percentuali in un anno solare), il debito pubblico è "stellare" ben più dello scudo missilistico che l'amministrazione Bush cerca di vendere ai polacchi e ai cechi.
Il sistema previdenziale è nelle mani di fondi speculativi che ogni tanto implodono lasciando nella bazza i risparmiatori e i pensionandi. Il sistema medico è un'indecente follia.
Una volta i miti americani erano rappresentati da John Wayne (la legge), Humphrey Bogart (uomo misterioso ma d'onore), RinTinTin (coraggioso e fedele), Superman (il bene per la gente comune contro la delinquenza).
Oggi i "miti" made-in-USA sono L'Uomo Ragno (uno sfigato maniaco depresso che prima salva sé stesso e la sua amica dalle follie di un altro maniaco, poi si astiene dal fare sesso con la donna dei suoi sogni, infine impazzisce del tutto trovando se stesso per nemico e combattendosi all'ultimo spruzzo di tela: un delirio !), Walker Texas Ranger (per carità), ER (dove il sistema sanitario funziona !), CSI e simili (dove la polizia investiga e capisce, mica manda al creatore innocenti provati dai test del DNA), e - meraviglia delle meraviglie - Donne nevrotiche e i Simpson.
Aggiungete all'autoritratto americano The Mask e il Dottor Doolittle e provate a immaginare un futuro con meno belinate.
Ovvero: un futuro SenzAmerica.
Che dite, rischiamo di stare tutti un po' meglio ?


Trend-online.com 13-7-2007 Euro/dollaro poco mosso a 1,3785

All'apertura delle contrattazioni nelle piazze finanziarie del Vecchio Continente la moneta unica viene scambiata a 1,3785 rispetto al biglietto verde, in linea sia con le ultime rilevazioni della Banca Centrale Europea (1,3785) sia con i valori registrati in tarda serata di ieri a New York (1,3785). Sale lievemente la divisa europea rispetto alla moneta giapponese, l’euro vale 168,60 yen dai 168,40 yen delle indicative della BCE della giornata scorsa. Il biglietto verde è stabile rispetto alla valuta nipponica, il rapporto di cambio tra dollaro/yen quota, infatti, in area 122,30 da 122,35 dell'ultima chiusura di Wall Street.
L’euro si muove poco nei confronti del dollaro in attesa della pubblicazione dei dati macroeconomici statunitensi.
Le cifre macro annunciate ieri non hanno particolarmente influenzato l’andamento del rapporto di cambio fra moneta unica e biglietto verde.
Ieri il Dipartimento del Commercio ha reso noto che il deficit commerciale si è allargato, nel mese di maggio, a 60 miliardi di dollari dai 58,67 del mese precedente, in perfetta linea con le attese degli analisti. Il Dipartimento del Lavoro ha comunicato che le richieste settimanali di sussidi di disoccupazione sono scese di 12 mila unità a quota 308 mila, inferiori alle stime degli economisti che si aspettavano un valore di 315 mila.
La giornata odierna si presenta molto ricca d’appuntamenti macroeconomici di particolare rilevanza. Gli addetti ai lavori attendono dagli Stati Uniti alle 14,30 italiane i prezzi alle importazioni di giugno e le vendite al dettaglio di giugno (attese degli analisti fissate su un aumento dello 0,1% dell'indice grezzo e dello 0,2% dell'indice core, ovvero escluso il settore dei trasporti); alle 16,00 le scorte delle imprese di maggio (consensus +0,3%) e l’indice preliminare sulla fiducia dei consumatori di luglio, calcolato dall'Università del Michigan (stima degli economisti per una crescita dell'indicatore a 86 punti dai 85,3 del mese precedente).

 


Reuters 13-7-2007 Mercato cambi, Almunia (Ue) ribadisce messaggio G7

 

BRUXELLES (Reuters) - Il commissario europeo agli Affari economici e monetari torna sul messaggio G7 in materia di mercato valutario, utilizzato la formula ormai consolidata secondo cui l'eccesso di volatilità e i movimenti disordinati del forex sono indesiderabili per la crescita economica.

Il commissario mette inoltre in luce come la valuta unica europea sia già arrivata in passato sui livelli attuali e che l'apprezzamento del cambio sta avvenendo sullo sfondo di una domanda interna robusta e partite correnti in ottima salute.

L'accelerazione dell'euro/dollaro non ha infine avuto un impatto negativo sulle esportazioni europee.

© Reuters 2007. Tutti i diritti assegna a Reuters.


+ Il Sole 24 Ore 13-7-2007 Wall Street sfida la paura derivati di Morya Longo

Proprio nel giorno in cui Moody's ha comunicato che si aspetta maggiori perdite sui bond legati ai mutui americani subprime, Wall Street ha deciso di rialzare la testa. E di lasciare alle spalle le tensioni. Anche grazie alla spinta delle numerose fusioni societarie annunciate ieri e nei giorni scorsi, l'indice Dow Jones ha realizzato il nuovo record storico, chiudendo con un rialzo del 2,09% a 13.861,73 punti: in punti è il balzo più consistente dal 2002, in termini percentuali è il maggiore dall'ottobre 2003. Anche l'S&P 500 ha guadagnato terreno: +1,91%. E i listini europei hanno seguito la scia, realizzando ieri il rialzo più consistente dell'ultimo mese: Londra +1,25%, Parigi +1,70%, Francoforte +1,96% e Milano + 0,83%. Il tutto mentre i titoli di Stato hanno perso quota e rialzato i rendimenti: il T-Bond decennale americano ha aumentato il tasso d'interesse di 4 centesimi a 5,13 per cento. Certo, i fattori di rischio non mancano. Innanzitutto i mutui americani concessi a persone poco abbienti potrebbero subire nuove perdite. Inoltre il mercato dei derivati cresciuto fino alla cifra monstre di 327mila miliardi di euro è guardato con apprensione dalle banche centrali. Ma i mercati finanziari, pur volatili, continuano a correre. In effetti, analizzando gli elementi di rischio, si scopre che allostato attuale appaiono tutti gestibili e non eclatanti. Iniziamo dalla questione dei mutui subprime americani (quelli concessi a persone poco abbienti e dunque ad alto rischio di rimborso), che nelle scorse settimane avevano causato l'aumento della volatilità sui mercati dopo un allarme lanciato da Bear Stearns. È vero che questo mercato è sempre più in crisi: anche ieri l'agenzia di valutazione Moody's — che martedì aveva declassato il rating di 399 cartolarizzazioni costruite sui mutui subprime — ha annunciato che prevede un aumento delle perdite nell'ordine del 10% per i nuovi mutui e del 25% per quelli vecchi.
Ma se l'allarme sui subprime è elevato, è anche vero che questa particolare fetta del mercato è piccola rispetto al totale dei mutui americani: rappresenta solo l'11% di un mercato che vale 9mila miliardi di dollari. Una crisi in questo settore — sottolineano intanti — potrebbe non avere impatti violenti sul resto dei mercati. «Fin che il credito si restringe in questa particolare fetta del mercato non vedo particolari rischi per il sistema —osserva per esempio Vincenzo Guzzo, senior strategist europeo di Morgan Stanley —. Il problema si presenterebbe se il razionamento del credito si propagasse anche sulle personee sulle aziende affidabili, ma questo rischio non è allo stato attuale concreto». Un po' più cauta, ma non allarmista, è Jennifer Bridwell di Pimco: «Non si può prevedere che effetto potrebbe avere la crisi del mercato subprime — afferma —. Di certo ora la percezione del rischio è maggiore».
Se i mutui subprime per ora non impensieriscono più di tanto i mercati, anche la "montagna" dei derivati non è percepita come un reale pericolo. Certo, le banche centrali (dalla Bce alla Fed) hanno sollevato il problema più volte:i derivati sul credito —aveva detto solo pochi mesi fa il presidente della Bce Jean-Claude Trichet — stanno cambiando il sistema finanziario e rappresentano un rischio per la stabilità dei mercati. In effetti il fenomeno dei derivati è letteralmente esploso negli ultimi anni. A fine 2006 — secondo i dati dell'Isda — sul mercato c'erano contratti per un valore nominale totale di 327mila miliardi di dollari: il triplo rispetto a quattro anni prima. Ma soprattutto i derivati sul credito (strumenti che servono per "assicurarsi" contro il default di qualunque emittente obbligazionario) sono esplosi: dai 2mila miliardi di dollari del 2006 ai 34mila miliardi di fine 2006. Non solo: anche i Cdo (obbligazioni costruite su portafogli di debiti o di derivati di credito) sono cresciuti in modo abnorme, tanto che solo nel 2006 in America ne sono stati emessi per 320 miliardi di dollari.
Ebbene: di fronte a queste cifre è normale che le banche centrali si mostrino allarmate.
«Credoche lancino l'allarme per cercare di calmare il mercato — osserva Antonio Cesarano, capo economista di Mps Finance —. Ma il mercato è tranquillo, anche perché il rischio è polverizzato su moltissimi investitori». Così le Borse riprendono a correre. E non solo: gli investitori si stanno indebitando al livello record di 353 miliardi di dollari per acquistare azioni.


Il Sole 24 Ore 26-4-2007 L'euro ai massimi, crescita tedesca più forte di Riccardo Sorrentino

 

Se non è stato record, ci è mancato poco. L'euro, secondo la Reuters, ha toccato ieri 1,3665 dollari, a un soffio dal massimo storico a quota 1,3667 segnato nel dicembre 2004. Questa volta, però, nessuno sembra preoccuparsi, e il motivo c'è. L'exploit era annunciato. È da settimane da mesi... che il valutario si muove seguendo uno schema che prevede la flessione del dollaro e il rafforzamento dell'euro. La valuta americana è "penalizzata" dal rallentamento dell'economia del 2006, dalle attuali difficoltà del settore immobiliare e dalla prospettiva di un prossimo taglio dei tassi; quella di Eurolandia è invece sostenuta dalla continua ripresa e dalla quasi certezza che la stretta monetaria continuerà. Anche ieri il mercato si è mosso seguendo queste linee guida, malgrado le apparenze. L'indice Ifo sul sentiment delle aziende salito a 108,6,a un passo dal massimo da quindici anni ha mostrato che l'economia tedesca va bene, e questo ha portato in alto l'euro. Poi gli ordini americani di beni durevoli hanno segnato a marzo un aumento del 3,4% mensile, in accelerazione,dando qualche segnale negativo su come è andato il primo trimestre e qualche buona prospettiva per il resto dell'anno; e il dollaro ha potuto recuperare terreno. La fragilità dell'immobiliare, il calo delle vendite americane di nuove case a marzo e le limitate richieste di permessi per aprile hanno riportato l'euro verso l'alto, fino a un passo dal massimo. In serata il beige book non proprio ottimistanon ha sostanzialmente modificato la situazione. L'euro si è così avviato alla conclusione della seduta scambiato a 1,3640. La forza di Wall Street, invece, sembra non aver emozionato gli investitori sul valutario. La Borsa si è mossa per motivi "interni", la forza dei profitti aziendali americani, ed è stata in fondo sostenuta daglistessi motivi che hanno animato i cambi: il buon andamento degli ordini aziendali e la prospettiva di un taglio dei tassi. Nessuna sorpresa, dunque, e nessuna contraddizione. Il trend di debolezza del dollaro dovrebbe ora continuare, almeno fino a quando non sarà più chiara quale sarà la durata del ciclo di strette della Banca centrale europea, la quale in occasione dell'ultimo rialzo ha fatto capire che i tassi sono quasi arrivati al livello neutrale e non sono ancora in territorio restrittivo.Il cambio,però, modifica queste valutazioni: il rialzo della valuta si comporta quasi come un aumento del costo del denaro e tende, sia pure attraverso un diverso canale, a rallentare l'inflazione. Quello che può sorprendere, piuttosto, è l'assenza di grandi proteste da parte del mondo politico e imprenditoriale. Ci sono stati alcuni richiami, è vero, ma in termini molto tecnici: non è il livello del cambio a suscitare preoccupazione, ma la rapidità del rialzo e la tendenza del mercato a comportarsi come se non ci fossero alternative. Lo schema di politica valutaria adottato dall'Unione monetaria puntaalmeno ufficialmente a contrastare unicamente questi due fenomeni. Il ministro dell'economia tedesco Michael Glos, ieri,ha così spiegato che «la Germania sta naturalmente affrontando bene l'attuale cambio euro/dollaro. Se ci fossero ulteriori rialzi potrebbe sorgere qualche rischio, ma attualmente la situazione è sostenibile come mostra l'andamento delle esportazioni. D'altra parte alleggerisce il peso di quanto dobbiamo pagare per le importazioni di energia». La ragione di questa apparente tranquillità è semplice. L'euro è ai massimi sul dollaro e ha da poco tempo segnato l'ennesimo record sullo yen; ma non esistono soltanto queste due valute.Il cambio effettivo, che tiene conto di tutte le monete dei principali partner dell'Unione non è ancora al record: ieri era a quota 107,31 mentre a fine 2004 aveva raggiunto 108,27. Allora, inoltre, il rialzo fu decisamente più rapido: in tre mesi il valore effettivo dell'euro salì del 6%,mentre nella situazione attuale è salito del 6,7% in quattordici mesi. E la velocità conta.


Da finanzaonline.com 13-4-2007  Trichet lancia l’euro sopra 1,35 contro il dollaro

Finanzaonline.com - 13.4.07/09:05

La valuta unica europea è tornata sopra la soglia di 1,35 contro il dollaro statunitense dopo la riunione della Banca centrale europea conclusasi, ieri, con un nulla di fatto sui tassi di interesse di Eurolandia. Tutto come previsto. Il board della Bce ha lasciato invariato il tasso Refi al 3,75% ma sono state molto più significative le parole pronunciate dal presidente Jean-Claude Trichet nella tradizionale conferenza stampa seguita alla sessione. “Non dirò nulla che sia diretto a modificare le aspettative per il mese di giugno” ha affermato il numero uno di Francoforte. E le attese sono ormai da tempo per un ritocco dei tassi di interesse a giugno dello 0,25% al 4%.

 

Nella zona euro la politica monetaria rimane “tendenzialmente accomodante” e di stimolo alla crescita dell’economia secondo la Banca centrale europea mentre la dinamica inflazionistica presenta dei rischi verso l’alto che richiedono un “attento monitoraggio”, un espressione giudicata dagli analisti di mercato meno pressante rispetto alla forte vigilanza che solitamente precede un rialzo dei tassi. Ancora una conferma che il prossimo ritocco dovrebbe essere effettuato in giugno piuttosto che in maggio.

 

Sul mercato delle valute il movimento di rafforzamento dell’euro è però solo in parte spiegabile con il sentiero di politica monetaria tracciato ieri da Trichet con riferimento alle due prossime riunioni atteso, come detto, dal mercato. A spingere la valuta dell’Unione europea le attese crescenti perché il livello del tasso di riferimento europeo superi quota 4% per portarsi al 4,25% nel corso del terzo trimestre. E’ destinato a restringersi ancora quindi il differenziale con i tassi Fed che si attestano ora al 5,25% quota alla quale sembrano destinati a rimanere ancora per un po’. Ciò non favorisce di converso il dollaro, indebolitosi nella seduta di ieri anche nei confronti dello yen giapponese.

 

Il raffronto tra le due economie, quella europea che prosegue nella sua forte crescita e quella americana dove aumenta l’incertezza sull’impatto che avrà la crisi del comparto immobiliare sul rallentamento economico in corso spostano ancora la bilancia in favore dell’euro.

 

Le posizioni degli operatori sul mercato si sono mosse infine anche in vista del vertice dei ministri delle Finanze dei Paesi del G7 che inizierà oggi a Washington e durante il quale il mercato delle valute sarà uno degli argomenti affrontati.

 

Questa mattina la divisa europea ha toccato nuovi massimi da gennaio 2005 contro il dollaro a 1,3524.


Il Giornale di Brescia 7-4-2007 FMI Continua il momento positivo dell'economia: il Pil mondiale salirà nel 2007 di quasi il 5% Eurolandia accelera, gli Usa frenano

 

Il Fondo monetario rivede al rialzo le stime per l'Italia: quest'anno crescerà dell'1,8% NEW YORK La crescita economica in Italia salirà all'1,8% nel 2007 (+1,7% nel 2008), in rialzo sull'1,4% di novembre e sul "circa 1,5%" che ha accompagnato le conclusioni della visita "Articolo 4" di febbraio, mentre Eurolandia con il 2,3% si prepara a superare gli Stati Uniti in frenata dal 2,6% al 2,2%. Sono alcune delle stime del Fondo Monetario Internazionale contenute nell'ultima bozza del World Economic Outlook (Weo) di metà anno, i cui due capitoli principali saranno diffusi mercoledì prossimo. Miglioramenti dei conti pubblici italiani, in base ad alcuni dati anticipati dal Financial Times Deutschland (integrati da altre fonti), si avranno anche sul deficit, visto che, grazie all'accelerata dell'economia (che però è attesa sotto il 2% stimato dal governo italiano nella Trimestrale di cassa), si delinea una discesa nel 2007 al 2,2% (2,3% nella trimestrale di cassa) rispetto al 4,4% del 2006 (ma era già al 2,4% eliminando le misure straordinarie), per la prima volta sotto la soglia del 3% di Maastricht superata per quattro anni di fila. Rialzo, anche se minimo, nel 2008 al 2,3%. Buone notizie pure sul fronte del debito, in discesa dopo la risalita del 2004-2006: nel 2007, per gli esperti di Washington, l'avanzo primario farà scivolare il rapporto al 104,8% del pil, fino a quota 104,1% nel 2008. Nel 2006 era stato pari al 106,8% del pil. Un trend ipotizzato in calo almeno fino al 101,8% del 2012. Per quanto riguarda Eurolandia, il Fondo stima una crescita del 2,3% nel biennio 2007-08, mentre la sorpresa, sulla scia delle turbolenze immobiliari (timori per i mutui subprime inclusi), giunge dagli Stati Uniti, con un taglio della crescita del Pil dello 0,4% sulle previsioni precedenti, al nuovo 2,2% (al 2,8% nel 2008 e contro il 3,2% del 2006) malgrado, come osservato giovedì dal nuovo capo economista del Fondo Simon Johnson, lo scenario su scala mondiale si confermi "senz'altro positivo". Non a caso, la crescita su scala globale è stimata ora al 4,9% quest'anno e al 4,8% nel 2008 (in calo rispetto al 5,3% del 2006). I fondamentali economici sono "solidi", dice il direttore generale del Fondo, Rodrigo de Rato, con un Pil complessivo nell'anno in corso "vicino ancora al 5%", contribuendo a determinare "la più forte serie quinquennale mai misurata dalla fine degli anni Sessanta", che con le previsioni attuali si proiettano a delineare almeno a 7-8 anni, come mai avvenuto nella storia.


Il Giornale 4-4-2007 Sorpasso: Borse europee più ricche di Wall Street di Rodolfo Parietti -

da Milano

Ventiquattro Borse contro una per effettuare un sorpasso che - com’è d’uso definire in questi casi - è storico: per la prima volta dal termine della Prima guerra mondiale, la scorsa settimana la capitalizzazione dei mercati finanziari europei (Est compreso) ha superato quella dei listini statunitensi. Tradotto in cifre, quelle estrapolate da uno studio di Thomson Financial, l’allungo è espresso dai 15.720 miliardi di dollari di ricchezza borsistica del Vecchio continente contro i 15.640 miliardi di Wall Street.
L’Europa ha insomma dovuto aspettare quasi 90 anni per riappropriarsi di un primato che aveva detenuto fino al 1918. In seguito, con l’introduzione della catena di montaggio di Henry Ford, la messa in pratica dei principi tayloristici sull’organizzazione del lavoro, uniti all’enorme flusso migratorio verso l’America, all’istituzione della Fed come strumento per coadiuvare il mondo degli affari e ai debiti di guerra contratti da Italia, Francia e Gran Bretagna, l’economia a stelle e strisce avrebbe preso un tale vantaggio competitivo da rendere inattaccabile la supremazia di Wall Street sulle piazze borsistiche europee per quasi un secolo.
Il sorpasso è dunque indice di un cambiamento non irrilevante, ma è anche il punto terminale di un cammino intrapreso nel gennaio 2003, da quando cioè il passo dei listini europei è diventato più spedito, grazie a una crescita della capitalizzazione del 160% da allora a oggi, contro il 70,5% degli Usa. Non a caso, l’interesse più manifesto nei confronti dell’Europa è stato espresso dal New York Stock Exchange, che ha fortemente voluto l’aggregazione con Euronext. Le cause? Senz’altro l’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro (più 26% in poco più di quattro anni), riconducibile alla politica commerciale americana, agli irrisolti squilibri strutturali Usa e in parte a una revisione dei portafogli finanziari (compreso quelli delle banche centrali), che a sua volta ha avuto ricadute positive sulla capitalizzazione delle Borse continentali.
Ma, soprattutto, lo studio individua nella crescita dei mercati dell’Est il fattore decisivo nel superamento della Borsa americana. In particolare del listino russo, che dai 330 punti del 2003 è passato ai 1.920 di oggi, con un balzo del 66% nel 2006. L’umiliazione subìta con il default dell’agosto 1998 per non aver onorato un debito da 40 miliardi di dollari, è un ricordo: ora Mosca, forte dei ricchi introiti assicurati da gas e petrolio, punta entro un biennio a scavalcare Italia, Francia e Regno Uniti nella classifica del Pil mondiale, insediandosi al sesto posto, mentre la stabilità politica e il miglioramento del debito pubblico stanno attirando sempre più investimenti internazionali. Un fenomeno che interessa anche la Polonia, dove i flussi di capitali stranieri sono stati pari l’anno scorso a 10 miliardi di dollari, consentendo alla Borsa di Varsavia di guadagnare il 25%. Altra benzina per effettuare un sorpasso storico.


Da Il Denaro 29-3-2007 Fmi: Cresce il peso dell'euro , dollaro più forte nei commerci

 

Mercati mondo Fmi: Cresce il peso dell'euro , dollaro più forte nei commerci A otto anni dalla sua introduzione l'euro è "riuscito a qualificarsi come la seconda moneta più importante e solida a livello internazionale, realizzando un grande successo dal punto di vista tecnico". Tuttavia, per acquisire un'influenza ancora più vasta, posizionandosi come vera "moneta di scambio globale al di là delle immediate vicinanze della eurozona", l'euro dovrà affrontare nuove sfide. E' questa la valutazione contenuta in un'analisi del Fondo monetario internazionale pubblicata sulla rivista specializzata interna "Finance & development". Secondo lo studio, la "preminenza acquisita dall'euro è fuori discussione e, nonostante la Banca centrale europea non stia attivamente cercando di promuoverne l'uso all'estero, il suo ruolo continua a crescere". Facendo il punto dell'attuale utilizzo dell'euro, la ricerca osserva come la moneta del Vecchio Continente ha registrato i progressi più ampi nel campo delle transazioni finanziarie internazionali, ma non nei commerci. A livello globale-ufficiale, l'euro è oggi usato come moneta-ancora da un terzo dei Paesi del mondo, tra cui gli Stati africani di lingua francese e altri aspiranti membri dell'Ue, mentre due terzi dei Paesi continuano a utilizzare il dollaro. Ma l'euro ha sorpassato il dollaro come moneta principale per l'emissione di obbligazioni internazionali. Per quanto riguarda i mercati finanziari, l'euro risulta la seconda moneta dopo il dollaro e l'abbinata dollaro-euro è la più usata negli scambi. Ma per estendere i suoi confini di influenza, sostiene il rapporto, l'euro deve superare ancora una serie di scogli. Anzitutto è necessaria una crescita economica di Eurolandia che attragga investimenti; i mercati finanziari europei devono quindi integrarsi compiutamente, rimuovendo barriere regolamentari e di movimenti; sarebbe importante inoltre che l'Europa aumentasse la sua capacità di parlare con una voce sola nell'arena internazionale, anche su temi finanziari. A dare un'impronta decisiva al futuro dell'euro sarà anche, predice l'analisi, il possibile futuro riequilibrio del risparmio e degli investimenti globali: "Un improvviso allontanamento dai beni Usa nelle preferenze dei portafogli internazionali potrebbe a esempio indurre una forte discesa del dollaro e spingere l'uso dell'euro". 29-03-2007.

 


Da Caffeeuropa.it 16-3-2007 Economia: dai mercati nasceva l’Unione. Marc Guillaume  con Luca Paltrinieri

 

 

Il cammino dell’Unione europea è iniziato dall’economia. Ha avuto la concorrenza e il mercato come parole d’ordine e da qui ha mosso i primi passi nel dopoguerra. L’idea del Trattato di Roma del ’57 era di creare un mercato comune per riportare la pace nel continente e scongiurare guerre future. “Fu un’astuzia geniale per accelerare la storia” dice Marc Guillaume, economista e sociologo francese, docente universitario, direttore dell’Iris (Institut de Recherches et d'Informations Socio-économiques) e autore di numerosi volumi.
“Cominciare dall’economia – continua Guillaume – era una buona idea perché effettivamente c’era il problema di ricostruire, di organizzare, di crescere, e sappiamo che quando si vuole lo sviluppo economico le regole del mercato e della concorrenza sono un mezzo efficace. Ma c’era anche l’idea che il solo punto nel quale potevano incontrarsi dei paesi con storie, culture, religioni diverse, che uscivano da uno stato di guerra pressoché continua da secoli, erano le regole del mercato. Questa è stata in fondo l’astuzia di Jean Monnet, perché se si fosse voluta creare l’Europa attraverso la politica o la cultura ci sarebbero voluti 50 anni mentre in pochi anni è stato messo in moto un meccanismo efficiente.”

La Germania del dopoguerra è stata ricostruita seguendo la stessa idea: dopo il dirigismo del nazismo la creazione del mercato doveva in primo luogo essere fonte di legittimità giuridica, consenso e infine sovranità politica. Pensa che il modello tedesco abbia influito nella creazione della comunità economica europea?

L’Europa si è costruita originariamente intorno all’alleanza franco-tedesca. Penso che dal punto di vista tedesco questa idea fosse presente ed utile, ma per Monnet, al contrario, è la concezione inglese, o americana, che prevale: l’idea che il commercio genera pace o, per dirla con Montesquieu, “ingentilisce i costumi”. Bisogna ricordare che la Germania ha commerciato con il resto del mondo fino al 1939, il commercio resiste alla guerra stessa. Ma, come afferma Michel Foucault, quest’idea è tipica della filosofia inglese ed ispira tutta la loro visione economica, che si tratti dei “vantaggi comparativi” di Ricardo o della concezione di Smith: lasciamo sviluppare liberamente l’economia e controlliamo piuttosto la sfera globale della società. Monnet, che conosceva bene il mondo anglosassone e proveniva da una famiglia di commercianti di cognac, cerca di portare quest’idea dell’unità attraverso il commercio.
D’altronde la stessa Omc era costruita seguendo la legislazione commerciale americana che pure ha le sue origini nel XVIII secolo. C’è quindi una grande tradizione anglosassone che ispira almeno una componente essenziale del mercato comune, l’altra componente era l’idea tedesca della costruzione della sovranità politica a partire dal mercato.

Arriviamo al 1972, anno della creazione dell’Mtc, il meccanismo che regola i tassi di cambio tra le valute europee che annuncia il passaggio all’euro. Dall’esigenza di avere un mercato comune cosa ha condotto alla progettazione della moneta unica?

Bisogna ricordare che nel 1971 il dollaro viene sganciato dalla convertibilità con l’oro, annullando di fatto gli accordi di Bretton Woods. Il dollaro è la moneta chiave del sistema di cambi mondiale, la moneta che permette agli Stati Uniti di mantenere un deficit considerevole e una situazione di vero e proprio imperialismo monetario: ricordiamo che il Giappone ne fece le spese alle fine degli anni ’80. Certo, la stesse legge dei “35 dollari per oncia” era un po’ fittizia, ma in fondo aveva retto per ben 30 anni, e con il suo annullamento è il sistema mondiale dei cambi e delle quotazioni ad essere compromesso. Dal momento in cui il dollaro era autorizzato a fluttuare ampiamente e gli americani potevano servirsene a scopi di deflazione competitiva, il rischio d’instabilità aumentava esponenzialmente per ogni moneta presa singolarmente: forse meno per il marco, già di più per il franco, considerevolmente per la lira o la peseta. L’intero mercato europeo si trovava così in balia delle politiche monetarie statunitensi: da qui l’idea dell’unità, del riavvicinamento delle valute europee e la definizione di un margine massimo di fluttuazione tra le monete europee, meccanismo che prende il nome di “serpente” perché la curva risultante assomiglia ad un serpente che si muove nel tunnel del margine massimo definito rispetto al dollaro. Insomma, credo che l’Mtc fosse una risposta al pericolo rappresentato dalla politica monetaria statunitense: in fondo cos’è l’euro se non il tentativo di mettere fine al monopolio del dollaro? Certo ne siamo ancora lontani, ma ci muoviamo in questa direzione.

Si può dire che ancora in questa fase la costruzione dell’Europa è puramente economica, come viene concepito e percepito in Francia il cambiamento d’equilibrio tra economia e politica con l’Atto Unico del 1987 e successivamente, nel 1992, con il Trattato di Maastricht?

Mi sembra che negli anni ’80 siano proprio i governi socialisti a giocare la carta del liberismo: sono i socialisti come François Mitterrand e Jacques Delors che attuano una politica liberale, sono loro che spingono la Francia ad accettare certe regole del mercato, fanno insomma del tatcherismo ed reaganismo senza dirlo. Delors, Rocard, Mitterand, in un certo senso Attali, si servono dell’Unione Europea per modernizzare il sistema finanziario e far accettare un po’ più di liberalismo in Francia, ma al tempo stesso c’è il problema di conservare l’ispirazione, tutta francese, ad un modello sociale europeo. Per questo si forma una vera lobby, contraria alle privatizzazioni di Edf, Telecom France e di altre imprese statali, che cerca di far passare in Europa la concezione di un servizio pubblico alla francese. Più in generale direi che tutto il sud Europa, la Francia, la Spagna, forse l’Italia, un po’ meno la Grecia cerca di negoziare questa doppia svolta: da una parte lo sforzo di creare un mercato comune, e dall’altra c’è una sorta di colbertismo europeo, la sensazione sempre più forte di dover difendere la dimensione sociale.

Mi sembra che questa tensione tra dimensione economica e politico-sociale europee sia avvertita in modo molto forte proprio in Francia. A suo avviso potrebbe essere una delle ragioni del “no” al referendum sull’adozione della costituzione europea nel 2005?

Innanzitutto c’è stata una straordinaria incapacità di svelare l’astuzia: l’idea di un mercato comune europeo era in fondo accettabile per la saggezza popolare, ma farne l’essenziale del Trattato e voler mettere in forma di Costituzione un’astuzia del mercato era una doppia provocazione. Di fatto l’accettazione della Costituzione è apparsa come una sorta di sottomissione alle leggi del mercato, mentre il mercato non ha nulla a che vedere con la legge: il mercato è un processo, un insieme di meccanismi che d’altronde, come diceva Foucault, sono stati inventati dallo Stato per delegare in un certo senso la sua potenza economica e sono quindi sempre soggetti ad un insieme di trasformazioni e d’interventi. Foucault avrebbe potuto dire: per mettere in Costituzione il mercato bisogna che ci sia uno Stato europeo. Invece il meccanismo della Commissione Europea è alquanto strano, ad esempio la commissione per la concorrenza, la Dg4, non risponde affatto al principio di sussidiarietà perché legifera in tutti i settori pur di far rispettare le regole della concorrenza. In secondo luogo, non c’è un solo liberalismo ma diversi: c’è un liberalismo colbertista nel quale l’intervento statale è determinante, c’è un liberalismo anglo-americano nel quale lo Stato è secondario (è il sistema delle public utilities), che come abbiamo visto ha impregnato le istituzioni europee. Ora, da parte di una certa corrente socialista, di cui facevo parte assieme a Fabius ed altri, c’era la sensazione che si fosse andati troppo oltre nell’accettazione di un liberalismo esclusivamente legato al mercato che sarebbe stato traumatico per la nostra cultura. Io mi dicevo: così ci stanno imponendo un mercato flaccido, un mercato nel quale non ci sarà più gente capace di dire: “facciamo delle grandi imprese comuni come il Concorde, Airbus, il Cern”. E invece quando si guarda concretamente agli Usa cosa si vede? Che hanno una politica economica colbertista, interventista, protezionista mentre a noi veniva proposta proprio la versione di facciata, le regole del mercato. Per rispettare la concorrenza le commissioni demoliscono ogni politica industriale seria con il pretesto che si tratta di un monopolio: così si rischia di consegnare agli Usa un’Europa indebolita dal liberalismo stesso, un liberalismo non più adatto alla visione mondiale, con il problema della Cina, dell’ambiente, e molti altri ancora.


La Stampa 19-3-2007 Sondaggio condotto dal Financial Times. Cittadini europei, vita peggiora dopo l'ingresso nell'Unione Europea

Ma lo stessa percentuale ritiene che potrebbe andare peggio in caso di uscita dall'Unione Europea

 

BRUXELLES
Un sondaggio condotto dal Financial Times in Italia, Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna segnala che il 44% dei cittadini europei pensa che la loro condizione di vita sia peggiorata dopo l’ingresso nella Ue, ma la stessa percentuale ritiene che le cose potrebbero andare peggio se il proprio paese lasciasse l’Unione europea.

All’idea di Europa, il 31% associa il mercato unico, mentre il 20% la burocrazia e solo il 9% la democrazia o la pace (7%).

A trascinare in alto la percentuale degli scontenti è la Gran Bretagna con il 52% degli interpellati che pensa che la loro vita sia peggiorata dopo l’ingresso nella Ue, mentre a fare da contraltare è la Spagna dove la maggioranza (53%) ritiene che le cose siano andate meglio dopo l’ingresso del paese nella Ue.

L’Italia, la Germania e la Francia si collocano alla pari, con oltre il 40% di interpellati che crede che la vita sia peggiorata. Ciò nonostante, solo il 22% nei cinque paesi ritiene che la situazione potrebbe migliorare lasciando l’Ue, a fronte di un 40% che pensa che sarebbe peggio uscire.

L’ipotesi che la Ue debba fare di più in diversi settori raccoglie un forte sostegno. In particolare, il 72% ritiene che l’Unione europea debba intervenire maggiormente nelle politiche ambientali, soprattutto nella lotta al cambiamento climatico. Il 69% chiede più interventi comuni per l’energia, il 67% nella lotta al crimine e il 64% per la sicurezza. Molto più fredda, invece, la reazione all’ipotesi di un esercito europeo, caldeggiato solo dal 38% degli interpellati (39% i contrari), anche se il 49% ritiene positivo una maggiore presenza dell’Unione europea in politica estera. Il sondaggio registra anche un ampio supporto ad una maggiore armonizzazione finanziaria e commerciale tra Ue e Usa.

Realizzata su un totale di 6.772 adulti (1.053 italiani) in occasione dei 50 anni del Trattato di Roma che ha sancito la nascita dell’unità europea, l’inchiesta rileva anche che il 35% pensa che la Costituzione possa avere un impatto positivo, contro il 27% convinto dell’opposto. La maggior parte delle risposte negative arriva anche in questo caso dagli inglesi che al 48% bocciano la carta costituzionale.

 

 

 


Il Sole 24 Ore Plus 17-3-2007 DIETRO I NUMERI di Fabrizio Galimberti

I vantaggi della forza dell'euro A vere tante valute nel mondo è bello per chi colleziona banconote con tanti disegni e colori, ma è un fastidio per gli scambi internazionali: bisogna comprare e vendere usando diverse monete, con incertezze sui movimenti dei cambi e costi delle coperture valutarie. Per questo nel mondo si è gradualmente affermata l'usanza di comprare e vendere ricorrendo a un ristretto numero di monete: di gran lunga dominante è stato finora il dollaro. La tabella mostra quale dovrebbe essere la quota del dollaro nelle esportazioni di ogni Paese: in teoria, dovrebbe equivalere alle quota delle esportazioni di quel Paese verso gli Usa. A questa quota "teorica" si contrappone la quota "effettiva", quella parte delle esportazioni del Paese fatturata in dollari. Come si vede, la differenza è sostanziale: la quota effettiva è sempre, e di molto, superiore alla quota teorica. Questa situazione, che si ripete con qualche variante anche a proposito delle transazioni di portafoglio, porta dei vantaggi agli Usa. Il fatto che la propria valuta sia usata internazionalmente procura il vantaggio del signoraggio, il "primo uso" della moneta, ed è un vantaggio che cresce con il tasso di inflazione: emettere moneta è come emettere un prestito a tasso d'interesse zero, e il vantaggio di chi emette moneta è chiaramente maggiore se il tasso di inflazione è elevato. O ra, con l'euro che si pone come alternativa al dollaro, questi vantaggi possono essere sottratti agli Usa e andare a beneficiare i paesi dell'euro. Un recente studio del Fondo monetario (On the Welfare Benefits of an International Currency, di Prakash Kannan WP/07/49) ha calcolato quali possono essere i vantaggi in capo all'euro da signoraggio, riduzione di costi di transazione e apprezzamento: i risultati sono grossi, dall'1% al 2% dei consumi privati. Peccato che si nascondano nella macroeconomia e non si possano vedere nel portafoglio.


Da La Repubblica - Lettera finanziaria 27-2-2007 Euro sempre più appetibile per le Banche centrali

 

Gli istituti bancari di tutto il mondo hanno ridotto la percentuale di riserve in dollari alla fine dell'anno scorso, a beneficio di euro e sterlina, e hanno cercato strumenti di investimento più redditizi rispetto ai tradizionali t-bonds, i buoni del tesoro Usa. MILANO - Le banche centrali a livello planetario hanno ridotto la percentuale di riserve in dollari alla fine dell'anno scorso, a beneficio di euro e sterlina, e hanno cercato strumenti di investimento più redditizi rispetto ai tradizionali t-bonds, i buoni del tesoro Usa. E' quanto emerge da un'inchiesta condotta nel quarto trimestre 2006 dalla rivista specializzata 'central banking'. Il dollaro resta, comunque, la valuta di riserva privilegiata a livello mondiale. A rispondere al questionario di 'central banking' sono state 47 banche centrali (su un totale di 129 interpellate) che controllano 1.538 Miliardi di dollari in riserve, pari al 30% del totale mondiale. Di queste, 21, con riserve per 630 miliardi di dollari, hanno detto di aver aumentato la quota in euro, di cui 15 a scapito del dollaro, mentre solo 7 l'hanno ridotta. Del totale, 19 hanno, invece, detto di aver ridotto la quota in dollari, mentre 10 le hanno aumentate nei dodici mesi a tutto agosto 2006. Il dollaro resta, comunque, la valuta privilegiata di riserva: secondo i dati dell'fmi, nel terzo trimestre 2006 il 66% del totale era in dollari contro un 25% in euro (65% e 25,5% rispettivamente nel secondo trimestre). Secondo 'central banking', a rafforzare le posizioni in euro a scapito del biglietto verde sono state, soprattutto, le banche centrali nella periferia dell'eurozona e, in misura minore, in asia (le banche centrali di asia e giappone che, con il 30% del totale, sono le più 'ricche' al mondo, non avrebbero risposto al questionario). Dopo l'euro, i banchieri centrali hanno spostato riserve anche verso la sterlina britannica (9 banche centrali hanno aumentato la quota e 4 l'hanno diminuita), mentre lo yen si conferma al quarto posto. Dopo anni di flessioni, l'oro sta ritrovando un ruolo importante con il 63% dei banchieri interpellati che lo ritiene sempre più "attraente" alla luce del recente aumento dei prezzi e della crescente liquidità del mercato. L'inchiesta sottolinea, inoltre, come la maggior parte delle banche centrali (69% del totale) sia andata alla ricerca per i prossimi 12-18 mesi di un migliore rendimento, rispetto al tradizionale strumento dei t-bonds, piuttosto che di un investimento sicuro (20%) alla luce dei rischi (rallentamento negli usa, squilibri globali, volatilità del greggio, aumento delle tensioni geopolitiche e attivismo dei fondi speculativi). Inoltre, i banchieri centrali sono praticamente concordi nel prevedere un continuo aumento delle riserve (+70% dal 2004 a oggi) che viene stimato tra il 20% e il 59% nei prossimi tre anni. (26 febbraio 2007).

Gli istituti bancari di tutto il mondo hanno ridotto la percentuale di riserve in dollari alla fine dell'anno scorso, a beneficio di euro e sterlina, e hanno cercato strumenti di investimento più redditizi rispetto ai tradizionali t-bonds, i buoni del tesoro Usa. MILANO - Le banche centrali a livello planetario hanno ridotto la percentuale di riserve in dollari alla fine dell'anno scorso, a beneficio di euro e sterlina, e hanno cercato strumenti di investimento più redditizi rispetto ai tradizionali t-bonds, i buoni del tesoro Usa. E' quanto emerge da un'inchiesta condotta nel quarto trimestre 2006 dalla rivista specializzata 'central banking'. Il dollaro resta, comunque, la valuta di riserva privilegiata a livello mondiale. A rispondere al questionario di 'central banking' sono state 47 banche centrali (su un totale di 129 interpellate) che controllano 1.538 Miliardi di dollari in riserve, pari al 30% del totale mondiale. Di queste, 21, con riserve per 630 miliardi di dollari, hanno detto di aver aumentato la quota in euro, di cui 15 a scapito del dollaro, mentre solo 7 l'hanno ridotta. Del totale, 19 hanno, invece, detto di aver ridotto la quota in dollari, mentre 10 le hanno aumentate nei dodici mesi a tutto agosto 2006. Il dollaro resta, comunque, la valuta privilegiata di riserva: secondo i dati dell'fmi, nel terzo trimestre 2006 il 66% del totale era in dollari contro un 25% in euro (65% e 25,5% rispettivamente nel secondo trimestre). Secondo 'central banking', a rafforzare le posizioni in euro a scapito del biglietto verde sono state, soprattutto, le banche centrali nella periferia dell'eurozona e, in misura minore, in asia (le banche centrali di asia e giappone che, con il 30% del totale, sono le più 'ricche' al mondo, non avrebbero risposto al questionario). Dopo l'euro, i banchieri centrali hanno spostato riserve anche verso la sterlina britannica (9 banche centrali hanno aumentato la quota e 4 l'hanno diminuita), mentre lo yen si conferma al quarto posto. Dopo anni di flessioni, l'oro sta ritrovando un ruolo importante con il 63% dei banchieri interpellati che lo ritiene sempre più "attraente" alla luce del recente aumento dei prezzi e della crescente liquidità del mercato. L'inchiesta sottolinea, inoltre, come la maggior parte delle banche centrali (69% del totale) sia andata alla ricerca per i prossimi 12-18 mesi di un migliore rendimento, rispetto al tradizionale strumento dei t-bonds, piuttosto che di un investimento sicuro (20%) alla luce dei rischi (rallentamento negli usa, squilibri globali, volatilità del greggio, aumento delle tensioni geopolitiche e attivismo dei fondi speculativi). Inoltre, i banchieri centrali sono praticamente concordi nel prevedere un continuo aumento delle riserve (+70% dal 2004 a oggi) che viene stimato tra il 20% e il 59% nei prossimi tre anni. (26 febbraio 2007).

 


Da Borsa e Finanza 24-2-2007 Il bond piace, ma solo in euro. Gabriele Petrucciani

 

FONDI & RISPARMIO Il bond piace, ma solo in euro Il mercato americano ha un minore appeal perché le incognite sono tante. A partire dal rischio di cambio. E la valuta europea nel breve periodo potrebbe raggiungere anche 1,35 dollari di Gabriele Petrucciani - 24-02-2007 STRATEGIE OBBLIGAZIONARIE/1 Negli ultimi due anni un unico motto ha guidato l'esercito dei gestori: azioni e solo azioni. Per dirla in breve, l'equity è stata sempre considerata l'unica asset class degna di nota e in grado di fornire ritorni interessanti all'investitore. Ma ora, dopo quattro anni di rialzo ininterrotto delle Borse, lo scenario sta cambiando. O meglio, potrebbe cambiare. A favore del mercato obbligazionario, dove si comincia a intravedere qualche spiraglio di luce. In Europa, ma anche in America. Il condizionale però è d'obbligo. "Anche perché ci sono ancora dei fattori di rischio - fa notare Luca Mezzomo, responsabile ricerca obbligazionaria di Intesa Sanpaolo - Soprattutto per gli investimenti in dollari, dove pesa forte la variabile cambio". Insomma, se da un lato è vero che si cominciano a intravedere condizioni interessanti per investire nell'obbligazionario, dall'altro è altrettanto vero che bisogna sempre stare allerta. EUROPA O AMERICA? L'opinione dei gestori interpellati da Borsa & Finanza è unanime. In questo momento il mercato più interessante è sicuramente l'Europa. "A noi piace soprattutto la parte breve della curva dei rendimenti - spiega Luigi Romano, responsabile obbligazionario di Monte Paschi Asset Management - Per intenderci meglio, le scadenze due-cinque anni. Il mercato sconta già due rialzi pieni dei tassi di interesse". Il primo, di 25 punti base, dovrebbe esserci il prossimo 8 marzo. E un altro, sempre di 25 punti base, è atteso nel mese di giugno, con il costo del denaro, dunque, che dovrebbe salire fino al 4 per cento. "Il premio per il rischio negli investimenti sulla parte lunga della curva non è ben remunerato - aggiunge Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest - Basti pensare che un Btp 2015 oggi rende il 4,18%, mentre un Btp scadenza 2008 rende il 3,99 per cento. Insomma, uno 0,18% di differenza che non è abbastanza per coprire il rischio di un investimento a lungo termine". Per ora, quindi, i gestori hanno la parte più consistente del portafoglio obbligazionario investita in Europa, con una duration che oscilla tra due e cinque anni. L'INCOGNITA CAMBIO. Ma nonostante alcune incognite, anche il mercato obbligazionario americano sembra crescere di interesse. Sotto il profilo del rendimento (la parte breve della curva rende attualmente il 5,25%), ma anche per puntare su un incremento dei prezzi del reddito fisso a breve scadenza. "È una strategia che stiamo valutando - sottolinea Federici - ma i tempi non sono ancora maturi. Non abbiamo alcuna certezza su quando la Fed taglierà il costo del denaro. Per ora il consensus prevede un'inversione di tendenza della politica monetaria nella seconda metà del 2007. E anche noi siamo convinti che prima di cominciare a tagliare i tassi Ben Bernanke, numero uno della Federal Reserve, aspetterà di vedere se la politica restrittiva finora adottata ha prodotto i suoi effetti". In termini di rendimento, invece, l'America è sicuramente più attraente rispetto all'Europa, ma il rischio di cambio consiglia ai gestori di stare lontano dagli States. Almeno per ora. "Personalmente non sono positivo sul futuro del dollaro - commenta Romano - Di conseguenza nel nostro portafoglio siamo sottopesati sul reddito fisso americano". D'altronde basta dare uno sguardo alle performance degli ultimi 12 mesi, con l'euro che si è apprezzato del 12% circa sulla valuta statunitense, per capire quanto la debolezza del dollaro possa incidere in termini di rendimento. Il migliore fondo a un anno, l'Ubs Dynamic Floor, ha guadagnato in dollari l'8,54%, mentre il Jpm Us Bond ha ottenuto un rendimento del 5,75 per cento. Ma considerando l'andamento del cambio le performance scendono vertiginosamente al -1,40% per l'Ubs Dynamic Floor e al -4,06% per il Jpm Us Bond. "Un problema grave quello del cambio - ammonisce Mezzomo - che non va sottovalutato. Siamo convinti infatti che nel breve periodo l'euro possa continuare ad apprezzarsi nei confronti del biglietto verde, fino a raggiungere un massimo in area 1,34-1,35". Il rischio, dunque, è che l'effetto cambio possa mangiarsi tutto il sovrarendimento offerto dai bond Usa. "Inoltre - continua Federici - il differenziale tassi non è neanche tale da poter giustificare una copertura del rischio valutario. Fuori dall'America, dunque, e fuori anche dalle piazze emergenti, a causa degli spread troppo ridotti". Negli ultimi quattro anni il bond emergente ha offerto un sovrarendimento rispetto ai mercati più maturi di circa il 4 per cento. Oggi, questo extrarendimento si aggira intorno all'1,70%, "uno spread che non giustifica il rischio di un investimento in titoli cosiddetti hi- yield", conclude Federici. Insomma, per i gestori ci sono le condizioni per un ritorno all'investimento obbligazionario. Ma in questo momento c'è una sola piazza su cui puntare. L'Europa.

FONDI & RISPARMIO. Il bond piace, ma solo in euro.

Il mercato americano ha un minore appeal perché le incognite sono tante. A partire dal rischio di cambio. E la valuta europea nel breve periodo potrebbe raggiungere anche 1,35 dollari - 24-02-2007

 

STRATEGIE OBBLIGAZIONARIE/1 Negli ultimi due anni un unico motto ha guidato l'esercito dei gestori: azioni e solo azioni. Per dirla in breve, l'equity è stata sempre considerata l'unica asset class degna di nota e in grado di fornire ritorni interessanti all'investitore. Ma ora, dopo quattro anni di rialzo ininterrotto delle Borse, lo scenario sta cambiando. O meglio, potrebbe cambiare. A favore del mercato obbligazionario, dove si comincia a intravedere qualche spiraglio di luce. In Europa, ma anche in America. Il condizionale però è d'obbligo. "Anche perché ci sono ancora dei fattori di rischio - fa notare Luca Mezzomo, responsabile ricerca obbligazionaria di Intesa Sanpaolo - Soprattutto per gli investimenti in dollari, dove pesa forte la variabile cambio". Insomma, se da un lato è vero che si cominciano a intravedere condizioni interessanti per investire nell'obbligazionario, dall'altro è altrettanto vero che bisogna sempre stare allerta.

 

EUROPA O AMERICA? L'opinione dei gestori interpellati da Borsa & Finanza è unanime. In questo momento il mercato più interessante è sicuramente l'Europa. "A noi piace soprattutto la parte breve della curva dei rendimenti - spiega Luigi Romano, responsabile obbligazionario di Monte Paschi Asset Management - Per intenderci meglio, le scadenze due-cinque anni. Il mercato sconta già due rialzi pieni dei tassi di interesse". Il primo, di 25 punti base, dovrebbe esserci il prossimo 8 marzo. E un altro, sempre di 25 punti base, è atteso nel mese di giugno, con il costo del denaro, dunque, che dovrebbe salire fino al 4 per cento. "Il premio per il rischio negli investimenti sulla parte lunga della curva non è ben remunerato - aggiunge Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest - Basti pensare che un Btp 2015 oggi rende il 4,18%, mentre un Btp scadenza 2008 rende il 3,99 per cento. Insomma, uno 0,18% di differenza che non è abbastanza per coprire il rischio di un investimento a lungo termine". Per ora, quindi, i gestori hanno la parte più consistente del portafoglio obbligazionario investita in Europa, con una duration che oscilla tra due e cinque anni.

 

L'INCOGNITA CAMBIO. Ma nonostante alcune incognite, anche il mercato obbligazionario americano sembra crescere di interesse. Sotto il profilo del rendimento (la parte breve della curva rende attualmente il 5,25%), ma anche per puntare su un incremento dei prezzi del reddito fisso a breve scadenza. "È una strategia che stiamo valutando - sottolinea Federici - ma i tempi non sono ancora maturi. Non abbiamo alcuna certezza su quando la Fed taglierà il costo del denaro. Per ora il consensus prevede un'inversione di tendenza della politica monetaria nella seconda metà del 2007. E anche noi siamo convinti che prima di cominciare a tagliare i tassi Ben Bernanke, numero uno della Federal Reserve, aspetterà di vedere se la politica restrittiva finora adottata ha prodotto i suoi effetti". In termini di rendimento, invece, l'America è sicuramente più attraente rispetto all'Europa, ma il rischio di cambio consiglia ai gestori di stare lontano dagli States. Almeno per ora. "Personalmente non sono positivo sul futuro del dollaro - commenta Romano - Di conseguenza nel nostro portafoglio siamo sottopesati sul reddito fisso americano". D'altronde basta dare uno sguardo alle performance degli ultimi 12 mesi, con l'euro che si è apprezzato del 12% circa sulla valuta statunitense, per capire quanto la debolezza del dollaro possa incidere in termini di rendimento. Il migliore fondo a un anno, l'Ubs Dynamic Floor, ha guadagnato in dollari l'8,54%, mentre il Jpm Us Bond ha ottenuto un rendimento del 5,75 per cento. Ma considerando l'andamento del cambio le performance scendono vertiginosamente al -1,40% per l'Ubs Dynamic Floor e al -4,06% per il Jpm Us Bond. "Un problema grave quello del cambio - ammonisce Mezzomo - che non va sottovalutato. Siamo convinti infatti che nel breve periodo l'euro possa continuare ad apprezzarsi nei confronti del biglietto verde, fino a raggiungere un massimo in area 1,34-1,35". Il rischio, dunque, è che l'effetto cambio possa mangiarsi tutto il sovrarendimento offerto dai bond Usa. "Inoltre - continua Federici - il differenziale tassi non è neanche tale da poter giustificare una copertura del rischio valutario. Fuori dall'America, dunque, e fuori anche dalle piazze emergenti, a causa degli spread troppo ridotti". Negli ultimi quattro anni il bond emergente ha offerto un sovrarendimento rispetto ai mercati più maturi di circa il 4 per cento. Oggi, questo extrarendimento si aggira intorno all'1,70%, "uno spread che non giustifica il rischio di un investimento in titoli cosiddetti hi- yield", conclude Federici. Insomma, per i gestori ci sono le condizioni per un ritorno all'investimento obbligazionario. Ma in questo momento c'è una sola piazza su cui puntare. L'Europa.


Da trend-online.it 13-2-2007 Euro forte contro dollaro. Probabile rialzo dei tassi in Europa a marzo

L’euro torna ad avvicinarsi al limite di 1,30 contro dollaro. All'apertura delle piazze valutarie del Vecchio Continente la moneta unica viene scambiata a 1,2990 rispetto al biglietto verde, in rialzo sia rispetto alle ultime rilevazioni della Banca Centrale Europea (1,2955) sia rispetto ai valori registrati in tarda serata di ieri a New York (1,2965). Scende la divisa europea rispetto alla moneta giapponese, l’euro vale 157,80 yen dai 157,90 yen delle indicative della Bce della giornata scorsa. Il biglietto verde perde terreno rispetto alla valuta nipponica, il rapporto di cambio tra dollaro/yen quota, infatti, in area 121,45 da 121,95 di ieri.

L’apprezzamento della moneta unica nei confronti del dollaro è legato, in prevalenza, all'aumento delle attese degli operatori dei mercati valutari su un imminente rialzo dei tassi d’interesse da parte della BCE. Gli investitori ritengono che il Consiglio Direttivo dell'istituto di Francoforte incrementerà il costo del denaro nel meeting dell'8 marzo, portando i tassi di riferimento nel Vecchio Continente al 3,75%. Il presidente della BCE, Jean Claude Trichet ha, infatti, dichiarato che il principale obiettivo della politica monetaria della banca è il controllo dell'inflazione.

A confermare questo scenario sono le aspettative positive sull'andamento dell'economia europea, in grado, quindi, di sostenere delle strategie monetarie restrittiva. In mattinata è stato reso noto che il prodotto interno lordo del quarto trimestre in Germania è salito dello 0,9%, trainato dalla forza della domanda estera e di quella interna, superiore alle stime degli analisti, che si aspettavano un incremento dello 0,6%. Incoraggianti anche le previsioni sull'indice ZEW che sarà annunciato in tarda mattinata. L’indice ZEW dovrebbe essere salito nel mese di febbraio a quota 5 punti dai -3,6 del mese precedente.

La giornata odierna si presenta abbastanza ricca d’appuntamenti macroeconomici di particolare rilevanza. Gli addetti ai lavori attendono dall'Europa alle 11,00 italiane l’indice Zew tedesco di febbraio, il PIL del quarto trimestre e la produzione industriale di dicembre della zona Euro; dagli Stati Uniti alle 14,30 la bilancia commerciale di dicembre


Da Reuters 6-2-2007 Giappone, min Finanze Omi parlerà a G7 di ripresa economica

 

TOKYO, 6 febbraio (Reuters) - Il ministro delle Finanze giapponese Koji Omi annuncia che informerà i colleghi del Gruppo dei Sette che si incontrano venerdì e sabato prossimo che l'economia nipponica è in fase di ripresa in un clima di prezzi stabili.

"Mi dicono che una riunione G7 è la sede per discutere di vari argomenti. Non so di cosa si discuterà questa volta... vorrei dire nel corso dell'incontro che l'economia giapponese si sta riprendendo sullo sfondo di prezzi stabili" dice alla stampa.

Di fatto sfuggente la risposta del ministro sulla richiesta europea di mettere la svalutazione dello yen tra i temi in agenda della prossima riunione.

"Credo si discuterà un po' di argomenti di cui ha parlato la stampa ma prediligo uno scambio di opinioni aperto e basato su quanto ho appena spiegato" dice.

Ministri finanziari e banchieri centrali G7 si incontrano a Essen, in Germania, venerdì e sabato prossimo. Omi lascerà Tokyo venerdì per partecipare ai lavori.

Numerosi esponenti del mondo politico europeo hanno espresso malumore di fronte al deprezzamento della divisa nipponica, da tempo ormai a ridosso del minimo di tutti i tempi contro euro.

E' stata ieri la volta del presidente del consiglio Romano Prodi, che ha definito da Lussemburgo la correzione dello yen un "problema grave" anche di fronte alla debolezza del dollaro sollecitando un'azione comune dell'Europa sui temi valutari.

I timori europei sembrano tuttavia finora aver avuto scarsa risonanza negli Usa, in Canada e nello stesso Giappone.

Le autorità nipponiche hanno invece finora tentato di minimizzare le aspettative che il tasso di cambio dello yen figuri tra i temi chiave della prossima riunione.


 

Da La Repubblica 18-1-2007  Bernanke avverte: crisi in arrivo se non si riduce il deficit


MILANO – Washington deve affrontare i costi crescenti della sicurezza sociale e della sanità e il loro impatto sui conti pubblici, altrimenti gli Stati Uniti rischiano la '''crisi fiscale".

Lo ha detto oggi il presidente della Federal Reserve, Ben S. Bernanke, nel suo intervento all'audizione presso la Commissione bilancio del Senato. "Se non adotteremo importanti misure in tempi rapidi - ha detto - l'economia americana potrebbe risentirne seriamente".

"Se non si prendono misure concrete e veloci, l'economia statunitense potrebbe essere seriamente indebolita", ha detto Bernanke parlando a meno di tre settimane di distanza dalla proposta, avanzata dal Presidente George W. Bush, di portare il bilancio degli Usa in equilibrio entro il 2012.

E' la prima volta che Bernanke affronta in modo così deciso il tema delle grandi sfide che attendono gli Stati Uniti ora che la baby-boom generation (che conta 78 milioni di individui) inizia a entrare tra le fila dei pensionati. A meno di un drastico cambiamento di policy, ha detto Bernanke, il debito statale rischia di salire a livelli difficilmente sostenibili. Questo farebbe salire i tassi di interesse con conseguenze negative sia per i consumatori che per le aziende. "Si potrebbe instaurare un ciclo vizioso in cui grandi deficit portano a un'altrettanto rapida crescita del debito e degli interessi e dunque in ultima analisi a un ulteriore peggioramento dei conti".

Lo scorso anno il deficit federale si è assestato a quota 248 miliardi di dollari, il valore più basso degli ultimi quattro anni, ma le previsioni sono per un peggioramento già nel 2007. Lo stesso Bernanke ha definito il miglioramento del 2006 come "la calma prima della tempesta". Per il 2007 il Congresso prevede un deficit di 286 miliardi di dollari e la casa bianca un disavanzo ancora maggiore, pari a 339 miliardi.

Secondo Bernanke, non basta sperare nella tenuta dell'economia per risolvere il problema. Serve al contrario che Congresso e Casa Bianca prendano decisioni difficili, anche se il presidente della Fed si è ben guardato dal suggerire possibili soluzioni. "Alla fine la decisione fondamentale che il Congresso, l'amministrazione e il popolo americano devono prendere riguarda la fetta di risorse economiche nazionali da riservare ai programmi federali come social security, medicare e medicaid".

Il presidente Bush ha cercato di varare una riforma del sistema previdenziale nel 2005 ma la sua proposta è stata bocciata sia dai democratici che dai repubblicani. Bernanke non ha fatto alcun cenno nella sua testimonianza al congresso sulle prossime decisioni di politica monetaria della Fed.


Da Repubblica 18-1-2007 Bce: "Pronti a intervenire con fermezza per assicurare la stabilità dei prezzi"

 

Nel bollettino di gennaio l'Eurotower conferma la possibilità
di un nuovo rialzo dei tassi nella prossima riunione dell'8 marzo


FRANCOFORTE - Nel bollettino di gennaio, diffuso stamane, la Banca Centrale Europea si dice pronta "a intervenire con tempestività e fermezza per assicurare la stabilità dei prezzi nel medio periodo". L'Istituto di Francoforte conferma così di fatto la possibilità di un nuovo rialzo dei tassi di interesse, peraltro ampiamente atteso dagli analisti, nella prossima riunione, fissata per l'8 marzo. Attualmente i tassi di riferimento sono al 3,50 per cento.
La necessità di un eventuale nuovo rialzo, spiegano gli economisti della Bce, è collegata alle attuali tendenze inflazionistiche diffuse nei Paesi europei. L'inflazione dell'area euro, si legge infatti nel bollettino, dovrebbe "oscillare intorno al 2% nell'anno in corso e nel prossimo". Ma Francoforte ritiene "che le prospettive per l'andamento dei prezzi restino soggette a rischi al rialzo, derivanti in particolare da una trasmissione dei passati rincari del greggio ai prezzi al consumo superiore al previsto, da ulteriori aumenti dei prezzi amministrati e delle imposte indirette" e "da possibili nuovi rincari del petrolio".
E quindi, oltre ad annunciare "interventi fermi e tempestivi", la Bce invita alla moderazione salariale. "Tenuto conto del favorevole ritmo di crescita del pil negli ultimi trimestri e dell'evoluzione positiva del mercato del lavoro, la dinamica salariale potrebbe risultare più vigorosa rispetto alle attese correnti", avverte l'Eurotower. Da qui dunque l'invito alle parti sociali a "mostrare senso di responsabilità" con accordi salariali "che tengano conto dell'andamento della produttività ma anche del livello tuttora elevato della disoccupazione e delle condizioni di competitività di prezzo".

In generale la Bce, segnalando la presenza di rischi al rialzo nel medio termine, sottolinea l'importanza di "seguire con molta attenzione tutti gli sviluppi per evitare che si concretizzino rischi per la stabilità dei prezzi nel medio periodo". "In tal modo - conclude Francoforte - le aspettative di inflazione a medio-lungo nell'area dell'euro potranno restare saldamente ancorate a livelli coerenti con la stabilità dei prezzi".

Per il resto, la Bce invita per l'ennesima volta i governi europei a utilizzare questo momento di crescita per avviare le riforme strutturali necessarie "a rafforzare l'integrazione dei mercati, attenuare le rigidità dei mercati del lavoro e aumentare la flessibilità salariale per continuare a promuovere la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro".

Inoltre la Bce invita a "un ulteriore miglioramento dell'utilizzo delle forze di lavoro nell'area", attraverso "la prosecuzione delle riforme tributarie e previdenziali, ivi compresi una minore imposizione fiscale sul lavoro e correzioni dei sussidi al reddito corrisposti ai disoccupati, laddove questi riducono gli incentivi alla ricerca di un posto di lavoro". Gli esperti di Francoforte ricordano che già altri paesi dell'area dell'euro hanno agito in tal senso, e l'età media del pensionamento è ora arrivata a 60,7 anni. Ma per la Bce è necessario anche aumentare la flessibilità: "Accordi di lavoro flessibile - si legge nel Bollettino - possono aumentare l'offerta di lavoro".




(18 gennaio 2007)Da Almanacco della scienza (almanacco.rm.cnr.it) L'Europa sotto la lente del Cnr. L'euro? Conviene, ma nessuno lo sa

 

Il processo di integrazione economica europea si è articolato in 5 grandi fasi. La prima riguarda l’eliminazione dei dazi interni, avvenuta tra il 1957 ed il 1968. La successiva, la creazione dell’unione doganale europea (1968) e del mercato unico europeo (1992). La quarta fase dell’integrazione è quella della moneta unica, realizzata nel 1999, che favorisce gli scambi tra i paesi membri del club dell’euro (che dal primo gennaio 2007 è salito a 13, con l’ingresso della Slovenia avvenuto nell’ambito della quinta fase, l’allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Est).
“Le imprese e i consumatori che trattano con gli operatori appartenenti all’Unione economica e monetaria non subiscono più il rischio della fluttuazione del cambio e i costi bancari per gestire la valuta estera, a tutto vantaggio dell’efficienza economica (minori costi) e dello sviluppo (maggiori scambi)”, spiega Giampaolo Vitali, ricercatore dell’Istituto di ricerca sull’impresa e lo sviluppo (Ceris) del Cnr e segretario del Gei-Gruppo economisti d’impresa.
“Con l’integrazione economica, poi, l’orizzonte di riferimento di imprese che operavano quasi esclusivamente sul mercato nazionale, e in maggioranza sul semplice mercato locale-regionale, si dischiude all’intero del grande mercato comune europeo, comprendente milioni di consumatori che aumentano considerevolmente con il recente allargamento ad Est dell’Unione europea. Anche i consumatori hanno forti benefici dall’integrazione: il più importante è quello di poter acquistare le merci e i servizi dai produttori più efficienti, che offrono prodotti a prezzi minori e/o qualità maggiori”.
Eppure, questi benefici sono stati messi in ombra da un generale ‘europessimismo’ dei cittadini e dei media, dovuto al processo inflattivo attivato dalla moneta unica. “In effetti, la presunzione che il semestre iniziale col doppio prezzo bastasse si è rivelata infondata, il mercato ha dimostrato di avere memoria corta e almeno alcuni prodotti e servizi sono notevolmente aumentati di prezzo”.
E c’è un’altra ragione che dovrebbe farci sentire più ‘orgogliosi’ del nostro euro, cioè il suo ormai affermato primato planetario. “Gli euro, in cinque anni, hanno battuto i dollari come banconote più usate al mondo. Il volume della valuta europea in circolazione ha sorpassato quello statunitense, toccando quota 610 miliardi. Gli euro circolanti sono quasi triplicati rispetto ai 221 miliardi messi in circolazione nel gennaio 2002”. Un ‘sorpasso’ di cui è complice anche il recente indebolimento del dollaro, precisa Vitali: “In effetti, il rapporto di cambio euro-dollaro è oggetto dell’attenzione degli operatori valutari, avendo subito un completo ciclo di deprezzamento-apprezzamento. Nel 1999 il rapporto era più o meno sulla parità, ed è progressivamente scivolato a favore di un dollaro forte per tutto il 2000 e il 2001, con un minimo storico raggiunto nel 2000 (un euro valeva 0,82 dollari). Dal 2002 in poi c’è stata una netta ripresa, l’euro ha abbondantemente superato la parità e nel 2007 siamo all’incirca su 1,3 dollari per ogni euro”. Con effetti molto importanti: “Le esportazioni europee sono avvantaggiate sui mercati statunitensi e internazionali che usano il dollaro, in particolare sull’importante mercato del petrolio, dove la rivalutazione dell’euro ha consentito all’Europa di non subire troppo il rincaro del 2005 e del 2006. E’ un altro beneficio nell’uso della moneta unica di cui, talvolta, ci si dimentica”.
Che l’Europa se la passi meglio di come a volte appare, peraltro, lo dimostra anche il boom di quotazioni che ha portato le Borse del Vecchio Continente a ‘doppiare’ Wall Street grazie all’ingresso di ben 651 matricole durante il 2006, 21 delle quali a Piazza Affari. Il controvalore complessivo è di 66 miliardi di euro, contro gli appena 36 miliardi dei 224 debutti negli Stati Uniti.

 


 

Da swissinfo.org (16-1-2007)  Un'isola in un mare di euro. Il franco svizzero difende la sua supremazia sul territorio elvetico (Keystone)

 

Altri sviluppi

Il franco vittima delle sue virtù. Nuovo giro di vite della banca centrale

Da ormai cinque anni la Svizzera è completamente circondata dalla zona euro, il gigante valutario che coinvolge gran parte dell'Unione europea. E la convivenza funziona.

L'euro è entrato nel quotidiano degli svizzeri senza stravolgere l'economia locale ed il suo rapporto con il franco è più stabile rispetto agli scossoni che caratterizzano il passato

All'epoca, numerosi economisti lo avevano definito "uno degli avvenimenti economici più importanti della storia d'Europa".
L'entrata in scena dell'euro, che il 1. giugno 2002 aveva rimpiazzato le valute nazionali di 12 paesi europei, ha in effetti segnato un'importante svolta nel processo di costruzione comunitario.
Dopo un titubante processo trentennale, l'Europa unita, fino ad allora un concetto astratto e lontano dalla gente comune, si faceva palpabile ed entrava prepotentemente nella vita di 300 milioni di cittadini sotto forma di una moneta unica.
La tappa ha avuto conseguenze importanti anche per "l'isola" elvetica nel cuore dell'Europa. Crocevia dei transiti, destinazione turistica, centro finanziario e paese esportatore, la Svizzera ha in effetti dovuto fare i conti immediatamente con la nuova valuta.

 

Supremazia del franco

Oggi, a cinque anni di distanza, l'utilizzo di euro è sempre più comune anche nella Confederazione. Molti negozi e praticamente tutti gli hotel del paese accettano pagamenti nella valuta europea. Sono nel contempo sempre di più gli svizzeri che tengono anche euro nel borsellino, per la spesa oltre frontiera o in previsione della prossima vacanza nel continente.
"Ma nel paese il franco ha chiaramente mantenuto la sua supremazia", dice a swissinfo Jérôme Schupp, analista e responsabile delle ricerche presso la Banca Syz di Ginevra. "Non si può dunque parlare di un'economia svizzera caratterizzata da due valute parallele".
Perché la valuta europea minacciasse il franco sul suo territorio, notava la Banca nazionale svizzera (BNS) in un recente rapporto, occorrerebbe che l'euro fosse la divisa di riferimento anche per importanti contratti di lavoro, di credito o di affitto. Tuttavia, sottolinea la BNS, tali contratti continuano ad essere conclusi quasi esclusivamente in franchi svizzeri.
"Anche per quel che riguarda il settore finanziario, l'impatto è stato significativo ma non rivoluzionario", prosegue Schupp. "È però vero che l'euro ha guadagnato credibilità ed ha in sostanza ripreso il ruolo che fu del marco tedesco".

 

I vantaggi della stabilità

Mentre in molti paesi europei (Italia, Francia e Germania su tutti) l'euro ha suscitato (e continua a suscitare) più mugugni che applausi, inizialmente soprattutto a causa dei suoi effetti inflazionistici, l'economia e la finanza elvetiche hanno invece beneficiato della situazione. Non soltanto per la semplificazione che ne è derivata.
Da una parte la relativa stabilità tra euro e franco ha sostituito un quadro valutario precedentemente composto anche da divise molto più "ballerine", come la lira italiana, la peseta spagnola o il franco francese.
Per un'economia come quella elvetica, molto orientata all'esportazione verso i paesi dell'Unione europea, la stabilità (soprattutto se si considerano i valori attuali, con un franco "debole" nei confronti dell'euro) è una vera e propria manna.
"La sparizione di numerose divise europee, convolate nell'euro, ha inoltre rinforzato il franco svizzero quale strumento di diversificazione sui mercati finanziari", aggiunge Jérôme Schupp. "Oggi, accanto a dollaro, euro, yen e sterlina inglese, il franco figura tra le cinque monete più importanti al mondo".

Timori smentiti per il turismo

"L'euro si è rivelato piuttosto vantaggioso anche per il settore turistico svizzero", dice a swissinfo Véronique Kanel, portavoce di Svizzera Turismo. "I paesi della zona euro continuano ad essere i principali paesi di provenienza dei turisti. E grazie al corso attuale dell'euro, il 2006 si chiuderà con degli ottimi risultati".
Nel 2002 non erano pochi gli operatori del settore a temere di perdere parte degli ospiti europei, a causa dell'indiretto calo della trasparenza del mercato svizzero (in franchi) a confronto di concorrenti diretti come l'Austria, dove ormai i prezzi erano espressi in euro.
"In realtà il problema non è mai esistito", conclude Kanel. "Quando organizziamo delle promozioni in Europa, le nostre offerte sono ovviamente espresse in euro. E nelle nostre località di villeggiatura, i turisti possono utilizzare i loro euro per praticamente ogni tipo di acquisto".
swissinfo, Marzio Pescia

 


 

Da Panorama 15/1/2007  All'Italia il supereuro può costare 7 miliardi. Di  Anna Maria Angelone                                                                                                                                                                                                                              
                                                                                                                                                                                                                              

Mundell, premio Nobel 1999, ha invitato le autorità europee a interrompere l'apprezzamento dell'euro, fissando un limite al rialzo rispetto al dollaro

Nel 2006 il dollaro ha perso circa il 12 per cento del valore. Conseguenze: un risparmio nell'acquisto di materie prime ma un freno alla crescita economica


 
Il dollaro debole fa risparmiare molti soldi agli europei nell'acquisto di petrolio e materie prime, ma potrebbe frenare la crescita. In che misura?
Fino allo 0,5 per cento in meno di aumento del pil nel 2007 e altrettanto nel 2008.
Sono così quantificate le possibili ricadute sull'economia dell'area euro di un rallentamento economico negli Usa unito al rafforzamento dell'euro, secondo una stima dell'istituto di ricerche Isae.
Elaborando i dati, sugli 8.027 miliardi di euro di pil totale dei 13 paesi euro questo mix di fattori si tradurrebbe in una perdita di 40 miliardi l'anno. Per l'Italia il costo, in termini di mancata crescita, sarebbe di 7,09 miliardi di euro.

Come tutti i principali istituti di analisi economiche, anche l'Isae prevede per il 2007 un moderato rallentamento del ciclo internazionale, dovuto per lo più alla frenata degli Usa e in seconda battuta alla minore crescita dei consumi in Germania. «Abbiamo fatto una serie di simulazioni, applicando un nostro modello macroeconomico» spiega Sergio De Nardis, direttore dell'unità di ricerca di economia nazionale e internazionale dell'Isae e autore dello studio.

«Ebbene, pur immaginando una crescita americana contenuta ad appena l'1,3-1,5 per cento, l'impatto su Asia ed Europa sarebbe pressoché neutro. Le cose cambiano se a questo si somma un dollaro che continua a indebolirsi sull'euro».
L'Isae ipotizza un apprezzamento dell'euro per il 2007 in una forchetta compresa tra 1,30 e 1,35 dollari.
In tal caso, senza un cambio di strategia della Banca centrale europea rispetto alla politica dei tassi tenuta finora, ci sarebbero forti ripercussioni sulla crescita del pil: un calo di mezzo punto percentuale che potrebbe far arretrare quella dell'Italia sotto l'1 per cento.

Primo a mettere in guardia gli europei dalla forza eccessiva della moneta unica è stato l'economista Robert Mundell, premio Nobel 1999 e docente alla Columbia University, che ha invitato le autorità europee a fissare un tetto all'apprezzamento. La salita dell'euro era cominciata a novembre 2000, quando aveva toccato il minimo storico, pari a 0,838 sul dollaro. A fine dicembre 2004 la valuta europea sfondò quota 1,358, poi negli ultimi due anni il cambio era rimasto stabile fra 1,18 e 1,29. Nella seconda metà 2006 la marcia è ricominciata fino a tornare a quota 1,30 o più.

Il dollaro in un anno ha perso circa il 12 per cento del suo valore. Sebbene un rialzo della moneta americana in questi primi giorni del 2007 possa far pensare a un riequilibrio delle quotazioni, molti esperti scommettono che la moneta americana scenderà ancora. L'ipotesi è sostenuta da vari fattori.
Intanto la convenienza che gli Usa hanno a mantenere il dollaro debole per favorire l'export e soprattutto per scoraggiare l'import arginando l'enorme deficit commerciale accumulato. Inoltre l'economia europea sembra crescere più lentamente ma più stabilmente di quella americana, sulla quale gravano l'incognita del mercato immobiliare e il forte disavanzo commerciale con la Cina.

Stanno poi avvenendo cambiamenti strutturali. Come già Saddam Hussein nel 2000, che chiese di essere pagato in euro anziché in dollari per il petrolio iracheno, anche il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha annunciato di voler adottare la moneta unica. E, secondo i calcoli di Bruxelles, a cinque anni dalla sua introduzione il totale delle euro banconote è quasi triplicato: da 221 miliardi di gennaio 2002 a 595 miliardi a ottobre 2006.
Il Financial Times ha perfino sancito un altro primato: con l'apprezzamento di dicembre le banconote in euro avrebbero oltrepassato i 610 miliardi in valore e superato i biglietti verdi in circolazione.

 


Da Repubblica 15-1-2007-01-12Se l’Europa cresce più degli Usa  MARCELLO DE CECCO

Forse il 2007 ci riporterà un’eco del passato, la divaricazione ciclica tra Stati Uniti ed Europa. Quelli che erano in età di ragione alla fine degli anni ‘60 forse ricorderanno quando questo accadeva spesso, nell’ultima fase della travagliata vita del sistema cosiddetto di Bretton Woods, che stabiliva cambi fissi tra i paesi che ne facevano parte. Poiché il sistema stava in piedi solo a furia di misure ad hoc e di rappezzi, dato che allora come oggi, il deficit estero americano si allargava ogni anno di più, una continua e spesso acre battaglia di parole infuriava tra le due sponde dell’Atlantico, avendo come protagonisti ufficiali i francesi, che mettevano in dubbio la legittimità del sistema, e gli americani, che ne erano il centro ma avevano crescenti difficoltà nel gestirlo. La vera protagonista era in realtà, insieme agli Usa, la Germania, che accumulava enormi riserve in dollari (col mal di pancia, perché vedeva gli italiani comprare oro e a lei non era veramente permesso senza irritare gli americani) per non essere costretta a rivalutare il marco.
A quei tempi l’unico altro paese importante in surplus era il Giappone e anche nei suoi confronti gli americani usavano una politica di recriminazioni e di inviti pressanti ad acquistare titoli di stato in dollari invece di oro. Ma il Giappone non aveva problemi a farlo, per il suo stato di sovranità limitata derivante dalla sconfitta e perché, forse elemento più importante, gli USA erano il suo maggior partner commerciale e tutto il commercio del Giappone era denominato e fatturato in dollari.
La disputa con gli europei, in attesa della svalutazione del dollaro, che quasi tutti ritenevano inevitabile ma della quale gli americani e anche gli europei cercavano di rimandare la data per ragioni di mutua convenienza, verteva sulla interpretazione da dare alla divaricazione del ciclo in Europa e negli Stati Uniti. Germania e Italia crescevano in quegli anni a tassi che non avrebbero più rivisto dopo il 1973, e avevano necessità di politiche che frenassero gli ardori dei loro imprenditori (bei tempi) e le richieste dei loro lavoratori. Gli Stati Uniti, invece, si erano cacciati, come hanno fatto di nuovo in questi anni, in un circolo vizioso nel quale la crescita era ottenuta creando moneta e determinava un deficit di bilancia dei pagamenti, da sommarsi a quello causato dai loro investimenti all’estero e dalle spese militari. Di conseguenza, gli europei accusavano gli americani di creare e far circolare troppa moneta rispetto a quanta ne servisse al buon funzionamento del sistema economico mondiale. Gli americani, al contrario, accusavano gli europei di gestire la propria economia al disotto di quel che erano le sue possibilità e dicevano che, comunque, il mondo aveva bisogno di ampia liquidità, e quindi la loro offerta di dollari era un servizio reso da loro all’economia mondiale.
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Nel caso si verifichi di nuovo una discrasia tra cicli economici, tale che l’Europa cresca di più degli Stati Uniti, la tendenza attuale alla divaricazione tra tassi di interesse in aumento in Europa e in diminuzione in America porterà ad assai minori dispute transatlantiche, rispetto a quelle degli anni sessanta. E’ cambiato infatti un elemento importante nel sistema monetario internazionale: i cambi sono oggi liberi di oscillare, e lo fanno dal 1971, dalla prima svalutazione del dollaro, con grande frequenza. Così, ad esempio, il dollaro si è svalutato verso l’Euro in tempi recenti, mentre immediatamente prima si era rivalutato. Ma che l’Europa, e in particolare la Germania, cresca di più degli Stati Uniti, è un avvenimento che non si registrava dagli anni ottanta. Il giubilo degli europei, se si confermerà questa che è per ora una speranza corroborata solo da qualche semestre di dati e da inchieste sulle aspettative degli imprenditori europei che per la prima volta appaiono più ottimisti dei loro confratelli americani sarà talmente grande da relegare in secondo piano i timori di inflazione e da attenuare la paura della sopravvalutazione dell’Euro. Anche i piagnistei anticinesi sono facilmente sommersi da una ripresa della domanda in Europa.
Ma quanto è solida la ripresa in Europa? Ovviamente, il fatto nuovo è la crescita vigorosa dell’economia tedesca, che fa da locomotiva alla nostra e a tutte le altre economie europee. Osservandolo da vicino, il mini boom tedesco appare composto per la gran parte da esportazioni di prodotti manufatti ad alto valore aggiunto, che sono la vera forza dei tedeschi, ma anche da investimenti industriali, e questa è una gradita novità, mentre la ripresa dei consumi è stata direttamente causata dalla notizia che l’Iva sarà aumentata nel 2007.
La ripresa tedesca è in non trascurabile parte indotta anche dal boom delle entrate dei paesi produttori di petrolio (tra cui la Russia), che si è tradotto in una immediata crescita della loro spesa all’estero. Come sempre, hanno comprato in Germania e Giappone, mentre (e questa è una novità) hanno mandato i loro soldi in eccedenza in Gran Bretagna, più che negli Stati Uniti, il che spiega il boom della sterlina nel 2006.
La domanda chiave attiene dunque alla stabilità della ripresa tedesca. Sull’attenuarsi della crescita americana non ci sono dubbi, anche se non è ancora chiaro se l’atterraggio sarà morbido o brusco. Bisogna quindi farsi un’opinione sulla reazione dei consumatori tedeschi all’inasprimento dell’Iva. Fino a poco fa usava dire che essa sarebbe stata trasferita pari pari ai consumatori dai produttori. Ora invece si preferisce pensare che l’aumento sarà assorbito dalle grandi catene distributive, che si fanno in Germania una vigorosa concorrenza, mentre i piccoli distributori sono ormai stati messi fuori gioco. Se è vero, questa è un’altra caratteristica dell’economia tedesca che sarebbe bello che anche l’Italia, patria dei negozietti e dei grandi distributori che vanno a rimorchio dei prezzi alti dei piccoli invece di farsi e fargli concorrenza, si decidesse a imitare al più presto.
Nel frattempo, l’economia francese, che viaggia tradizionalmente più velocemente di quella tedesca, sembra rallentare; è un elemento da non trascurare. Sommando un rallentamento francese e una diminuzione del ritmo dei consumi tedeschi, il ciclo europeo tornerebbe a farsi pallido, e l’Euro non avrebbe motivo di crescere nei confronti del dollaro. Ma cosa faranno gli investimenti tedeschi? Sono finalmente in ripresa, e tuttavia forse uno spegnersi della fiammella dei consumi, unito a una marcata discesa del dollaro, può frenarli di nuovo. Questo sembra temere la Bce, se dobbiamo accreditare l’interpretazione che segnala l’assenza della parola ‘vigile’ nella conferenza stampa di Trichet dopo il nonaumento dei tassi di martedì. Vigile, nel lessico dei banchieri centrali, si associa con il loro atteggiamento quando temono una ripresa dell’inflazione.
Purtroppo l’Euro sembra destinato a crescere ancora nei confronti dello Yen, perché l’emorragia di capitali da Giappone continua senza soste, sommergendo la componente reale del tasso di cambio. Lo Yen è ampiamente sottovalutato verso l'Euro da parecchio tempo, ma l’uscita di capitali dal Giappone sembra strutturale.
Se la disputa tra russi e bielorussi dovesse riaccendersi, e si realizzassero tagli alle forniture di gas russe alla Germania, è del tutto realistico prevedere un peggioramento delle relazioni internazionali nell’Europa nordorientale, un aumento dei timori tedeschi, e una sua ripercussione sui consumi. Se peggiorano le relazioni russo tedesche, ne soffrono anche le esportazioni tedesche in Russia. Mentre i polacchi fanno del loro meglio per distruggere il clima di cordialità che si era finalmente stabilito tra loro e i tedeschi, a compensare decenni di inimicizia.
Siamo, come si vede, nella necessità di fare una somma algebrica complicata, perché difficili da calcolare sono segno e valore delle variabili da sommare, se vogliamo ottenere qualche indicazione sull’andamento del ciclo sulla sponda europea dell’Atlantico. Di sicuro, oltre i confini dell’Europa, abbiamo il rallentamento dell’economia americana, e la continuazione del boom cinese. Siamo anche certi della reazione della Federal Reserve a un serio rallentamento della crescita americana: Ben Bernanke, che ha studiato l’economia degli anni ‘30 e il ruolo deflattivo allora assunto dalla Fed, non esiterà più di un attimo prima di far scendere vigorosamente i tassi di interesse.
In tal caso, il pericolo è che la moneta americana scenda troppo, aldilà della soglia del dolore per le imprese europee. Magari accompagnata da flussi speculativi di capitali a breve che aumentino la caduta dei corsi.
La debolezza della moneta americana ha un solo merito: rallenta le tendenze protezioniste del Congresso degli Stati Uniti, che la conquista democratica di entrambe le camere ha rafforzato. Sarebbe meglio se a tale debolezza fosse permesso di manifestarsi anche nei confronti dello Yuan, sorretto dalla continuazione degli acquisti di dollari da parte delle autorità cinesi.
Nel quadrante del Pacifico si mette in scena oggi la nuova edizione del sistema di Bretton Woods. Sono i paesi asiatici a non volere accettare la rivalutazione verso il dollaro delle proprie monete. Sono loro a sorreggere il dollaro continuando ad accumulare riserve. Gli europei ora giocano in un ruolo più defilato, visto che accettano la rivalutazione dell’Euro verso il dollaro e lo Yen, dato che da cinque anni la moneta unica ha eliminato i problemi di oscillazione tra le monete europee, che andavano metà insieme al dollaro e metà contro.
La divaricazione dei cicli tra Europa e Stati Uniti, se veramente diviene marcata, non indurrà quindi le acrimoniose geremiadi che da entrambi i lati le persone della mia età ricordano di avere ascoltato nella seconda metà degli anni ‘60. Allora a preoccupare gli americani eravamo noi europei. Ora il Pacifico si è ripreso il suo ruolo storico e le dispute avvengono con chi abita lì. Per noi europei può essere un sollievo. Ma è, in fondo, il sollievo che prova una bella signora quando, avanzando negli anni, il suo ingresso in un locale non fa più sensazione. Un sentimento agrodolce, come quello che devono aver provato i vecchi ambasciatori inglesi dopo il 1945, quando il loro collega americano divenne la vera star di ogni capitale.

 

 


DA 01.net/Mercato  11-1-2007  Per l'high tech un dollaro vale un euro.  Luigi Ferro

 

Sempre più diffusa la pratica di fissare prezzi per gli Usa uguali a quelli europei. Anche se il biglietto verde vale meno

 

11 Gennaio 2007

Le mille lire per un euro hanno fatto scuola. Hanno attraversato l'oceano e riscosso un buon successo. Tanto che l'1 a 1 (un dollaro uguale un euro) è stato adottato da molti come tasso di cambio fisso. Poco importa che il biglietto verde valga oggi poco meno di 0,80 euro. Steve Jobs con la sua Apple, tanto per fare un esempio, non si pone problemi. Le canzoni su iTunes? 0,99 centesimi di dollaro e di euro. C'èst plus facile.


E gli altri prodotti della Mela smozzicata? Stessa storia. Prendete il prezzo in dollari e avrete quello in euro. Soltanto che 300 dollari al cambio attuale equivalgono a 231 euro. Ne ballano così 69 che gli europei versano ad Apple senza particolari motivi.
Ma la Mela di Cupertino non è l'unica. Kodak riesce a anche a fare peggio. La cornice digitale EasyShare Ex1011 costa 279,95 dollari al consumatore statunitense e 299 (invece di 215) a quello della vecchia Europa.


Stessa storia per gli altri modelli EasyShare, mentre per le fotocamere il prezzo è equivalente. 249,95 dollari per la V1003 contro 295 euro. Ma se decidete di comprare gli accessori sappiate che negli Usa i prezzi a seconda del modello vanno da 9,95 a 49,95 dollari contro un prezzo europeo che parte da 19 euro e arriva a 49. Ma il problema non riguarda solo le aziende americane. La finlandese Nokia propone l'Internet tablet N800 a 399 siano dollari o euro.


Motivi particolari per questi prezzi non ce ne sono. E' una scelta di politica commerciale delle aziende che non si giustifica con eventuali spese di spedizione o altro. Tempo fa qualcuno ha provato a protestare ma non è servito a nulla. Oltre 12 mila persone nel 2005 hanno siglato infatti una petizione online per protestare contro il cambio uno a uno nel caso del Mac Mini di Apple. Ma a Cupertino non hanno fatto un plissé. Hanno risposto che il prezzo già così era molto competitivo. E in via ufficiosa hanno fatto sapere che non ci sarebbero stati cambiamenti anche in caso di variazioni nel rapportodi cambio fra euro e dollaro. Da allora l'euro si è rafforzato e la cotroprova non c'è stata. Però altri hanno seguito la strada tracciata dalla Mela.  

 

 

 


Da altrenotizie.org  L’ORO DI PERSIA di Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro

 

Le recenti sanzioni contro la Repubblica Islamica dell’Iran hanno prodotto un primo effetto. Dal 1° Gennaio di questo anno, dopo la decisione dell’Alto Consiglio per l’Economia presa a metà Dicembre, il dollaro ha cessato di essere la valuta di riferimento per le transazioni finanziarie di Teheran. Quindi anche per quelle petrolifere. Già in passato era balenata l’ipotesi, poi rivelatasi una diceria, di una borsa petrolifera basata sull’Euro con sede nell’area di libero scambio dell’isola di Kish. Un progetto di impossibile realizzazione, se non altro perché richiedeva l’apporto partecipativo dei petrocaliffati del Golfo, i quali non avevano tuttavia la benché minima intenzione di sferrare un attacco così diretto ad un sistemo economico, quello USA, in cui avevano investito larga parte dei loro proventi. Questa volta la situazione è diversa. Ahmedinejad sta usando la questione atomica come la santa causa nazionale, irritando la Casa Bianca e il rispettivo alleato israeliano che invocano e ottengono le sanzioni economiche delle Nazioni Unite.

Sorgono dunque spontanee alcune domande: cosa c’entrano le sanzioni con questo progetto? Come può una moneta diventare un’arma? Non sono forse tutte uguali? La risposta a tali quesiti necessita di una breve spiegazione di alcuni meccanismi economici basilari e soprattutto di un ritorno al passato, per la precisione all'anno 2003.
A metà del 2003 l’Iran fa una mossa decisamente particolare: rompe con la tradizione, sino ad allora accettata da tutti, di farsi pagare le vendite di petrolio in dollaro e ha iniziato ad accettare Euro per il pagamento delle esportazioni ai suoi clienti dell’Unione Europea e dell’Asia.
Dobbiamo, per amore di verità, ricordare che pure Saddam Hussein aveva tentato una simile mossa audace già nel 2000, bruciando circa 270 milioni di dollari. Ulteriore dimostrazione che la moneta non è solo un velo. Inutile dire che, dopo questi anni di guerra, l’Iraq è costretto a utilizzare i dollari statunitensi per le vendite di petrolio.

L’idea iraniana, quindi, se applicata, faciliterebbe il commercio del proprio petrolio sul mercato mondiale attraverso valute diverse dal dollaro, permettendo così di bypassare le attuali sanzioni. Pare pertanto logico che a Washington, dopo la fatica fatta per ottenere una risoluzione favorevole, guardino con astio tale progetto. Una ulteriore possibile analisi di questa scelta richiede l’introduzione di un ulteriore protagonista: il debito pubblico.

Con questo termine si intende il deficit di uno Stato verso soggetti quali imprese, banche o anche semplici individui, che hanno sottoscritto obbligazioni (BOT e CCT, ad esempio) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale. Da qualche tempo quello statunitense ha l’onore di essere il più alto del mondo. Scorrendo la lista dei creditori, si scopre che ben il 38% del debito è detenuto da creditori esteri. Per una bizzarra ironia della sorte il 22% di questo è in mano alla famiglia reale saudita. Come può lo stato più indebitato del mondo mantenere la leadership mondiale?
La prima annotazione ha a che fare con quella che potremmo definire la forza fisica dei governi: essendo gli USA la principale potenza mondiale, nessuno andrà mai a chiedere la restituzione del debito.

La seconda ragione invece riguarda il mercato mondiale, in particolare quello dell’oro nero.
Si ipotizza da più parti che il dollaro statunitense sia gonfiato da qualche tempo, grazie alla posizione di monopolio dei “petrodollari” nel commercio del greggio. Con il debito nazionale ai livelli attuali, il valore della valuta statunitense è stato mantenuto artificialmente alto grazie al controllo assoluto sulle transazioni finanziarie internazionali.
Come avrete intuito, però, negli ultimi anni qualcosa è cambiato: l’Euro è diventato un mezzo di scambio un po’ più forte e stabile del dollaro statunitense. Forse è per questo che paesi "eretici" quali Russia, Venezuela e alcuni membri dell’OPEC hanno manifestato, almeno in linea teorica, un interesse a un passaggio a un sistema in “petroeuro” per le transazioni. Il passaggio dal dollaro USA all’Euro sul mercato petrolifero provocherebbe un calo della domanda di petrodollari e probabilmente una leggera flessione del valore del biglietto verde.
Ad onor del vero un tale “attacco” monetario provocherebbe solo lievi grattacapi che, per quanto fastidiosi possano essere, sono risolvibili in tempi medio-brevi.

La definitiva sconfitta dell’Impero Americano, fortemente voluta dai seguaci di Ahmedinejad, è quindi ancora assai lontana e, molto probabilmente, destinata a non avverarsi mai nei termini da loro sperati. Anche perché non saranno in molti a voler utilizzare l’Euro. Giusto per fare un esempio la nazione con maggiore cresciuta economica e fame energetica, la Cina, continuerà a utilizzare il dollaro per i suoi scambi, se non altro perché Pechino ha negli ultimi tre anni investito gran parte del proprio surplus commerciale in buoni del tesoro americano. Sarebbe stupido cambiare improvvisamente rotta e perdere grandi quantità dei propri capitali. Quindi, con buona pace di Maurizio Blondet, la scelta iraniana del cambio di valuta commerciale è da inscrivere più in una logica difensiva e di ripicca politica che in un contesto di “assalto” alla Casa Bianca.

In particolare, in tempi di embargo, diversificare le valute usate per gli scambi (di qualsiasi natura essi siano) permette di aggirare con maggiore facilità i limiti imposti. In particolare per quel che riguarda le banche americane, che già dalla fine dell’anno scorso avevano ricevuto il “niet” a intrattenere rapporti commerciali in dollari con la banca iraniana Saderat.
Stati Uniti e Iran hanno quindi deciso di parafrasare il celebre motto dello stratega Von Clausewitz, dimostrando che l’economia altro non è che la continuazione della guerra con altri mezzi.

 

 


 

D a Repubblica 4-1-2007 Il dollaro rialza la testa e  schiaccia l'euro sotto quota 1,31


MILANO - Dollaro in risalita oggi sulle piazze valutarie, con l' euro schiacciato sotto 1,31, ad un minimo di giornata a 1,3084 che si raffronta a 1,3169 degli ultimi scambi di ieri a New York. Il cross dollaro/yen ha toccato inoltre un 'top' di seduta a 119,51 rispetto a 119,39 precedente.

A spingere al rialzo la valuta statunitense ci ha pensato il dato relativo alla crescita degli ordinativi alle fabbriche a novembre, +0,9%, anche se al tempo stesso l' indice Ism per i servizi a dicembre si è posizionato in ribasso rispetto al mese prima, a 57,1 contro 58,9. Le richieste settimanali di sussidio di disoccupazione sempre negli Stati Uniti sono inoltre salite di diecimila unità, a 329mila. Le indicazioni venute oggi sull' andamento della congiuntura Usa sono in ogni caso in chiaroscuro, anche se sono bastate a far ripartire gli acquisti di dollari, dopo che ieri la diffusione dei verbali dell' ultima seduta del FOMC della Federal Reserve aveva riproposto i timori legati al rallentamento economico.

In pratica, alla luce delle ultime statistiche appare difficile ipotizzare in tempi brevi un taglio dei tassi statunitensi, anche se al riguardo l' attenzione è adesso rivolta al dato relativo alla dinamica del mercato del lavoro a dicembre, in programma domani, con gli analisti che prevedono la creazione di circa 105mila nuovi posti.

Quanto all' euro, sull' andamento della divisa unica ha pesato anche il lieve rallentamento del comparto dei servizi a dicembre, certificato dall' indice Royal Bank of Scotland, posizionatosi a 57,2 contro 57,6 precedente. Inoltre, il tasso d' inflazione sempre a dicembre si è attestato su un +1,9%, al di sotto del 'tetto' del 2,0% fissato dalla Bce. Questo significa che gli spazi per nuovi aumenti del costo del denaro nell' Eurozona potrebbero essere limitati.

04/01/2007 - 17:30


LIBERTA' di martedì 2 gennaio 2007 > Economia


Nelle riserve di valuta estera lo scettro resta al dollaro

Ma Russia e Opec tendono la mano all'euro, che avanza al galoppo: +46% sul biglietto verde, +31% sullo yen


ROMA - A cinque anni dalla diffusione dell'euro come moneta "sonante", il dollaro continua a dominare le riserve ufficiali di valuta estera, con una quota di poco inferiore al 70%, anche se la divisa unica conquista progressivamente spazio. Dal gennaio del 1999, con l'avvento dell'Unione monetaria europea, le banche centrali di molti paesi emergenti hanno riallocato le proprie riserve facendo salire la quota dell'euro nelle loro riserve dal 20% a quasi il 30%.

Economie emergenti come la Russia, e soprattutto diversi paesi dell'Opec, complice la svalutazione del dollaro (e a volte un'avversità politica al biglietto verde) stanno portando avanti una linea tesa a tendere la mano all'euro a svantaggio del dollaro. Con il risultato che la divisa unica potrebbe vedere la propria quota nelle riserve internazionali salire ulteriormente dal 25% circa attuale.
È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha dato ordine alla banca centrale del paese di sostituire i dollari con gli euro nelle riserve valutarie. Un progetto che riecheggia quello vagheggiato da Saddam Hussein, che avrebbe voluto vendere petrolio in euro anzichè dollari, progetto poi spazzato via dal conflitto iracheno. Ma Teheran, a pochi giorni dalla conferma delle imminenti sanzioni dell'Onu contro la corsa iraniana al nucleare, ha insistito sulla propria linea. E secondo la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), sono sempre più i paesi produttori di petrolio che hanno voltato le spalle al dollaro, preferendogli l'euro (oltre alla sterlina e allo yen) per i depositi delle ricche somme incassate attraverso il boom del greggio dei mesi scorsi: la quota in dollari delle riserve dei paesi Opec e della Russia, fra il primo e il secondo trimestre 2006, è scesa dal 67 al 65% (era al 70% nel 2003), con depositi scesi di 5,2 miliardi di euro per il cartello petrolifero, mentre quelli in euro sono saliti di 2,8 miliardi. E in cima alla lista dei paesi "pro-euro" c'è anche il Venezuela di Hugo Chavez, che in un anno ha aumentato dal 5% al 15% i propri depositi in euro perchè «il dollaro americano ha sofferto un lungo processo di svalutazione». Ed è della scorsa settimana la decisione degli Emirati arabi di convertire parte delle loro riserve in euro, che ha messo ulteriore pressione alle già deboli quotazioni della divisa Usa. Per il momento, comunque, a dominare le riserve ufficiali - quelle cioè che vengono accumulate dalle banche centrali in valute diverse dalla propria per poter operare sui mercati a protezione del valore della propria moneta - resta saldamente il dollaro.
Comunque per il Supereuro sono stati cinque anni di corsa da quando - ad inizio 2002 - la divisa unica europea è diventata a tutti gli effetti una realtà, con la sua introduzione fisica. Rispetto al dollaro - fino ad allora indiscussa "moneta guida" - il progresso è stato infatti nell' ordine del 46%, mentre il rialzo nei confronti dello yen ha superato il 31%. L' euro ha guadagnato inoltre anche sulla sterlina, poco più del 7%, e sul franco svizzero, poco meno dell' 8%. L' andamento dell' euro in questi ultimi anni è stato all'insegna del rialzo generalizzato su quasi tutte le valute, con la sola eccezione - relativamente all' Unione Europea - della corona svedese, sulla quale la moneta unica ha perso leggermente terreno, circa il 2,6%.
Il raffronto fra le quotazioni medie Bce del 3 gennaio 2002, all'indomani della nascita dell'euro come valuta fisica, e quelle del 22 dicembre scorso evidenzia innanzitutto che rispetto al dollaro la moneta europea era cinque anni fa largamente al di sotto della parità (a 0,9036). L' ultima quotazione dell'anno ha posizionato invece l' euro a 1,3192; un valore in ogni caso inferiore ai massimi toccati sempre nel 2006, il 12 aprile, a quota 1,3367. Il record assoluto dell' euro è stato raggiunto due anni fa esatti, il 30 dicembre del 2004, a 1,3666 dollari. Il minimo storico sempre in rapporto al dollaro è invece a 82,30 centesimi, toccato in questo caso il 26 ottobre del 2000.
L'euro ha vissuto comunque una vita movimentata nella sua ancora breve storia, che comincia il primo gennaio del 1999. A quella data la valuta unica valeva 1,16675 dollari, ma dopo 12 mesi, nel dicembre di quello stesso anno, era già scesa alla parità rispetto al biglietto verde. Il 27 gennaio dell' anno successivo per la prima volta l' euro scende sotto il rapporto di 1/1 con il dollaro. A partire da quella data per la valuta unica si apre un periodo difficile, culminato con il minimo di sempre registrato appunto a fine ottobre. L'anno seguente - con i mercati scossi dall' attentato alle Torri Gemelle dell' 11 settembre - è in saliscendi. La svolta avviene però proprio in coincidenza con la nascita dell' euro come valuta fisica, avvenuta il 2 gennaio 2002. Il 15 luglio di quell' anno, infatti, dopo ben 29 mesi, l'euro riconquista la parità rispetto alla valuta statunitense. La divisa europea continua nei mesi successivi a salire, sostenuta anche dal quadro geopolitico, con la guerra all'Iraq. Si arriva così nel 2004 alla definitiva consacrazione di Supereuro, che sfiora 1,37 dollari. Dopo un 2005 di graduale ripiegamento, nel 2006 l' euro si è posizionato a ridosso dei massimi storici, a quasi 1,34 dollari.
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Da AGI 29-12-2006  L'euro batte il dollaro, e' sorpasso.


(AGI) - Roma, 29 dic. - L'euro festeggia il quinto compleanno allargandosi alla Slovenia, che lo adottera' dall'1 gennaio 2007. E con un record: 'In cinque anni il totale delle euro banconote - scrive il Corriere della Sera - e' quasi triplicato, sorpassando probabilmente le banconote in dollari in valore. Le euro banconote sono passate infatti da 221 miliardi nel gennaio 2002, quando la moneta unica e' entrata materialmente nelle tasche dei cittadini europei, a 595 miliardi nell'ottobre 2006'. E su queste cifre rese note dalla Commissione Ue il Financial Times calcola il primato: visto il recente apprezzamento, a inizio dicembre le banconote in euro, sottolinea il Corriere della Sera, 'hanno oltrepassato i 610 miliardi in valore, per poi superare nel corso del mese i biglietti in valuta americana in circolazione'. Le cause del sorpasso? Secondo la Bce una delle ragioni e' legata alla popolazione di Eurolandia, che con i suoi 315 milioni supera quella degli Stati Uniti. Ma hanno contribuito anche i bassi tassi di interesse, spingendo gli europei a trattenere piu' contante invece di depositarlo in banca. Ma gli europei non amano l'euro: 'Ha fatto crescere i prezzi' le lamentele riportate dal quotidiano diretto da Paolo Mieli secondo il quale i piu' delusi sarebbero i francesi, anche se 'tre cittadini su quattro credono che l'Eurpoa si sia rafforzata con la divisa'. All''Eurosorpasso' La Stampa dedica una intera pagina evidenziando anche una delle altre ragioni alla base del record: 'Le banche centrali hanno tenuto riserve valutarie enormi per difendersi da un eventuale collasso' ed inoltre Cina, Svizzera e Russia hanno diversificato 'i portafogli con acquisti in euro. Il quotidiano cita anche le previsioni degli esperti: 'Dopo l' aumento iniziale il circolante doveva stabilizzarsi, invece il valore e' cresciuto senza sosta'. Il Sole 24 Ore evidenzia come l'ottima performance dell'euro sia giunta malgrado sconti 'una governance economica disomogenea, tra Bce e governi nazionali'.


 

Da L’Espresso 29-12-2006- Moneta unica in ascesa pronta a scavalcare il dollaro


MILANO - L'euro è ancora lontano dal togliere lo scettro al dollaro come maggior divisa nelle riserve ufficiali delle banche centrali. Ma la popolarità internazionale in ascesa delle banconote del 'Vecchio Continente' questo mese ha portato la divisa unica a sorpassare il biglietto verde, quanto a contanti in circolazione.

A scriverlo è il Financial Times, che ha svolto una serie di calcoli da cui arriva un verdetto amaro per il dollaro, un tempo il biglietto più ricercato in quanto giudicato il più affidabile nel conservare la ricchezza sotto forma di liquidità: "il valore delle banconote in euro in circolazione - scrive il Ft - questo mese probabilmente ha superato quello dei dollari", collocandosi secondo il quotidiano della City a oltre 800 miliardi di dollari (oltre 610 miliardi di euro), contro i 795 miliardi di dollari di biglietti emessi dal Dipartimento del Tesoro. E ai tassi di cambio di ieri il sorpasso è già avvenuto lo scorso ottobre, secondo gli esperti del Financial Times. Numeri - si legge in un articolo nella prima pagina del quotidiano finanziario - che "evidenziano la notevole crescita della diffusione delle banconote in euro dal loro lancio nel gennaio del 2002, tre anni dopo la nascita dell'Unione monetaria, che a gennaio accoglierà un nuovo membro, la Slovenia". Una diffusione vertiginosa, se si pensa che i 600 miliardi in banconote raggiunti dall'euro a inizio dicembre sono pari "a circa il doppio del valore che avevano nel 2001 le banconote dei singoli paesi membri di Eurolandia messe insieme". Diverse sono le ragioni di questa crescita, che dal lancio dell'euro cinque anni fa è viaggiata ad un ritmo pari ad almeno il 10% l'anno. Secondo Antti Heinonen, capo del direttorato della Banca centrale europea che si occupa delle banconote, una ragione del sorpasso sul dollaro è innanzitutto la popolazione di Eurolandia, che con i suoi 315 milioni supera quella degli Usa. E poi i bassi tassi d'interesse, che "hanno ridotto - spiega Hainonen - il costo-opportunità dato dal trattenere contanti anzichè farli fruttare in banca".

Ma ci sono anche altri motivi. Negli Usa i metodi di pagamento elettronico sono più diffusi, con la conseguenza che agli europei piace trattenere un pò più di contanti, per far fronte ad ogni evenienza. E poi c'è il bigliettone da 500 euro, molto popolare se si considera che si tratta del taglio che ha avuto la crescita più vistosa. Una popolarità a volte imbarazzante, visto che il taglio 'maxi' piace ai criminali, che "chiaramente - spiega Heinonen - lo privilegiano perchè è uno strumento di pagamento anonimo". E se il dollaro sembra aver mantenuto la propria popolarità come moneta più usata all'estero, anche l'euro si difende, e non solo nelle riserve delle banche centrali: molti turisti in visita in Europa - secondo il quotidiano finanziario - trattengono banconote, e l'euro è molto popolare in paesi che ambiscono ad entrare nell'Unione europea. Come il Kosovo e il Montenegro, che l'hanno adottato come divisa nazionale prima ancora di essere ammessi nel 'Club'.


 

Da Repubblica.it 29-12-2006.  Liquidità sempre elevata. La Bce alzerà ancora i tassi


MILANO - L'euro chiude l'ultima 2006 sugli scudi, spinto dalle ricoperture e dalle accresciute attese - dopo il balzo superiore al previsto registrato dalla m3 nell'eurozona - di ulteriori strette da parte della bce nei primi mesi del 2007. Nel finale la divisa unica è stata indicata vicino ai massimi del durante, a 1,3195 dollari (1,3148 ieri e 1,3170 oggi per la bce). L'euro nel durante ha segnato il nuovo top assoluto sullo yen a 157,20.

Oggi la diffusione sui dati della massa monetaria ha segnalato in novembre una crescita nettamente più celere del previsto, consolidando quindi l'analisi della Bce secondo cui i rischi inflativi nell'eurozona sono sempre elevati. Secondo la chiave di lettura del mercato, dunque, si sono rafforzate le attese di nuovi rialzi dei tassi da parte della bce nel prossimo anno. A Francoforte, tuttavia, si getta acqua sul fuoco. L'aggregato M3, sottolineano fonti autorevoli, "è solo uno degli indicatori di cui la bce tiene conto nell'adozione di decisioni di politica monetaria". C'è per esempio la fiducia dei consumatori che in Germania è prevista in calo a gennaio a causa dell'aumento dell'Iva. L'indice di fiducia a dicembre è risultato in calo anche in italia. Tuttavia, il dato di fondo è che l'economia della zona euro sta rafforzando i segnali di ripresa e andrà bene anche nel 2007. In questo quadro, "resta fondamentale per la Bce tenere sotto controllo le tensioni sui prezzi".

L'aggregato, in effetti, lo scorso mese è aumentato del 9,3% tendenziale dopo il +8,5% registrato in ottobre, contro una stima media degli esperti che non andava oltre l'8,9%. La media trimestrale (settembre-novembre), considerata più significativa perchè lima i picchi delle oscillazioni, ha registrato un progresso annuo dell'8,8%, mentre gli analisti mettevano in conto lo statu quo del dato di ottobre (8,4%).

Per la m3 dell'eurozona si tratta, rilevano gli analisti di Barclays Capital, del più forte incremento degli ultimi 16 anni (aprile 1990) che ha spinto la media trimestrale annualizzata destagionalizzata al 10,3% dal 9,5% di ottobre. Un trend che si contrappone alla stabilità dell'espansione dei crediti al settore privati, il cui andamento si è confermato in novembre a +11,2% (+11,1% le previsioni).

La m3, pur considerando che il credito nel suo complesso è aumentato più lentamente, sembra che sia stata fortemente influenzata dall'appiattimento della curva dei rendimenti (che a sua volta ha ridotto i costi dei depositi). In ogni caso, dicono a Barclays capital, la dinamica dell'aggregato resta ben al di sopra dei valori di riferimento della Bce e rivela che l'eccedenza di liquidità continua ad aumentare. Uno scenario, dice Michael Schubert di Commerzbank, "che conferma le stime della Bce, secondo cui la crescita della liquidità e del credito rivelano di rischi orientati al rialzo per la stabilità dei prezzi sul medio-lungo termine". L'esperto, pur ritenendo che il dato sulla m3 "esasperi probabilmente le reali pressioni inflative", stima un nuovo rialzo dei tassi bce (+25 pb) nel primo trimestre 2007. Sicuramente, concordano gli esperti di Barclays capital, la statistica odierna accredita ulteriormente una stretta creditizia da parte della bce, che potrebbe arrivare nel mese di marzo. Una 'scadenza', precisano, che però potrebbe essere posticipata magari a giugno (o più in là nel tempo) se l'euro dovesse stabilizzarsi attorno agli 1,35 dollari se non andare addirittura più in alto.

29/12/2006

 


Da denaro.it 29-12-2006  Emirati Arabi . L’8 per cento delle riserve sarà convertito dal dollaro all’euro

 

Gli Emirati Arabi Uniti convertiranno l’8 per cento delle loro riserve totali dal dollaro all’euro entro settembre, sulla scia dell’indebolimento registrato dalla moneta statunitense quest'anno. Lo dice il governatore della banca centrale a Bloomberg News. Gli Eau hanno iniziato “in misura limitata” a vendere parte delle loro riserve in dollari, dichiara il sultano Bin Nasser al-Suwaidi in un’intervista rilasciata ad Abu Dhabi il 24 dicembre scorso. “Accumuleremo euro ogni volta che il mercato sembrerà scendere” nel quadro del piano per portare la quota delle riserve in euro del Paese arabo al 10 per cento del totale, dal 2 per cento attuale, dice. Lo Stato del Golfo è uno dei produttori di petrolio che, come l’Iran, il Venezuela e l’Indonesia, intende trasformare le riserve valutarie in euro, o esprimere il prezzo del petrolio prodotto nella valuta europea. Il dollaro ha perso quasi il 10 per cento rispetto alla moneta europea nel 2006, mentre la crescita dell’area dell’euro superava quella degli Usa per la prima volta in cinque anni. Le riserve in valuta estera degli Eau ammontano a complessivi 24,9 miliardi di dollari, di cui il 98 per cento in dollari e il 2 per cento in euro, dice al-Suwaidi. La conversione dell’8 per cento delle riserve in euro avverrà “entro 6 o 9 mesi”, dice il governatore dal suo ufficio presso la banca centrale nella capitale degli Eau. La quota di depositi in valuta estera detenuti in dollari dai produttori di petrolio dell’Opec, compresi l’Arabia Saudita e gli Eau, è scesa al 65 per cento, minimo degli ultimi due anni, nel corso del secondo trimestre, dal 67 per cento nel primo trimestre, secondo dati della Banca per i regolamenti internazionali.   29-12-2006


 

Da Il Sole 24 Ore. Petrolio, Opec verso nuovo taglio della produzione  P. F.

 

L'Opec è preoccupata per le conseguenze sulla domanda di greggio del rallentamento dell'economia Usa, che farà calare la domanda, e non sembra affatto soddisfatta del taglio alla produzione deciso lo scorso mese, pari a circa 500mila barili al giorno. Al meeting convocato ad Abuja, in Nigeria, giovedì 14 dicembre, saranno quindi molti i Paesi che spingeranno per una nuova riduzione. Secondo l'ex numero uno del cartello, l'attuale ministro dell'Energia indonesiano Purnomo Yusgiantoro, il nuovo taglio alla produzione sarà di 1-1,5 milioni di barili. E l'attuale presidente Opec, il ministro dell'Energia nigeriano, Daukoru, ha confermato di non sentirsi «a proprio agio» con le quotazioni attuali de petrolio: «ci muoveremo per un taglio», ha tagliato corto riguardo l'esito del meeting di giovedì.
Sicuramente ci sarà l'appoggio di un bel numero di Paesi «falchi», come l'Arabia Saudita, il cui ministro del Petrolio Ali al-Naimi la scorsa settimana ha detto che «il mercato è significativamente squilibrato» perchè ci sono ben 100 milioni di barili di scorte che pesano sui prezzi. L'economia mondiale sta rallentando, quindi la domanda futura sarà più bassa e l'Opec non vuole rischiare uno scivolone dei prezzi, magari amplificato dal dollaro in ribasso. Anche perchè i record toccati quest' anno stanno consentendo alle grandi compagnie di investire grosse somme: soltanto ieri, ad esempio, gli Usa hanno dato il via libera a nuove trivellazioni nel Golfo del Messico.

 



 

Da isolapossibile.it  21-12-2006  Guerre e crollo dell’’economia mondiale

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NESSUNO LO DICE. Tutti fanno orecchie da mercante. Persino le marionette della politica, che vanno da sinistra a destra, evitano di parlarne; anzi, hanno l’ordine di non parlarne proprio in pubblico!

Mi riferisco alla possibile, e ahimé molto probabile, crisi economica mondiale legata al dollaro e all’economia statunitense. Una crisi molto pericolosa, non solo per il nuovo continente ma anche per tutta la vecchia Europa; ricordiamo infatti, che il biglietto verde è la moneta di scambio utilizzata per tutte le transazioni commerciali: uno per tutti, il petrolio.

Sarà un amaro dispiace per coloro che credono ancora al miraggio dell’american dream, ma questo sogno americano sta per diventare un incubo vero e proprio.

Quello che non viene detto da nessuno è che il debito americano, inteso come debito interno ed estero, ha superato di molto quello che all’epoca ha fatto sprofondare il paese nella crisi nera del 1929. Ma snoccioliamo qualche dato: il totale del debito pubblico sommato a quello commerciale delle corporate USA è arrivato a quota 33mila miliardi di dollari[1], che tradotto in numeri è corrisponde a 33.000.000.000.000 dollari, e in lire: 66.000.000.000.000.000, cioè 66 milioni di miliardi.

Non male come debito, vero?

Questo immenso valore che corrisponde al 294% del PIL, il Prodotto Interno Lordo, ha superato però anche il record precedente della Grande Depressione del 1929, che era del 270%. Quindi 76 anni dopo il terribile crollo di Wall Street, la situazione economica del paese ha superato di ben 24 punti in percentuale il rapporto debito/PIL dell’epoca!

Nonostante questi dati, c’è qualcuno che è molto più pessimista: il miliardario statunitense Warren Buffet ha stimato un buco di ben 180mila miliardi di dollari, pari a 17 volte il PIL.

Capirete a ben donde, che sulla situazione economica di un paese come gli Stati Uniti d’America, e cioè del paese fautore della democrazia e della libertà, vige la massima e più assoluta segretezza, o se volete, disinformazione.

Comunque sia, è sotto gli occhi di tutti come, dalla deflagrazione della bolla finanziaria speculativa della “new economy” all’inizio del 2000 che ha bruciato letteralmente moneta per 8,5 mila miliardi di dollari, la situazione è andata peggiorando, proprio durante la politica da far west del texano George Walker Bush junior. Però è anche vero che è stato proprio il presidente-guerriero a tenere su l’economia con le guerre preventive, perché se la macchina bellica si dovesse inceppare, per qualsiasi motivo, i nodi verrebbero subito al pettine. Ecco perché ogni, più o meno 2 anni, si deve mobilitare l’esercito USA!

Abbiamo avuto nel 2001 la guerra in Afghanistan - immediatamente dopo il crollo delle Torri Gemelle che hanno, guarda caso, sostituito il crollo di Wall Street -, poi nel 2003 (dopo 2 anni!) c’è stata la guerra in Irak, che continua tuttora. Per cui se il ragionamento fila, dovremo attenderci quest’anno, nel 2005, una guerra contro qualche obiettivo militare. Nella lista nera ufficiale c’era l’Irak (che adesso è una democrazia rappresentativa, sic!), e c’è Iran, Corea del Nord e Siria; nella lista, ovviamente non ufficiale, ci sarebbero tutti gli stati del mondo che vanno a toccare gli interessi economici e/o energetici degli Stati Uniti, e tra coloro ovviamente rientrano quelli che hanno avuto la bruttissima idea di passare dal dollaro all’euro: Irak (nel 2000), Corea del Nord (2002), Venezuela (2000) e Iran (2002).

Proprio quest’ultimo è un paese membro dell’OPEC, e nel corso del 2002 (secondo le dichiarazioni di un membro della Commissione Parlamentare per lo Sviluppo) ha iniziato ha convertire il 50% delle riserve della Banca Centrale Iraniana da dollari a euro, e anche la Corea del Nord, agli inizi di dicembre dello stesso anno, ha annunciato il passaggio alla valuta europea per i suoi scambi commerciali.

Non è una strana coincidenza che i paesi che hanno iniziato a scegliere l’euro al posto del dollaro sono diventati “l’Asse del Male”?

Avrete capito che non c’entra nulla la produzione di armi nucleari da parte dell’Iran e della Corea del Nord, come d’altronde non centravano assolutamente nulla le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein: sono solo scusanti mediatiche per convincere il “gregge disorientato”, come lo chiama simpaticamente Noam Chomsky[2]. L’obiettivo è invece quello di bloccare con le “armi della democrazia” USA: missili, bombe intelligenti, napalm e uranio impoverito, ogni forma di comportamento che possa mettere a repentaglio l’allarmante situazione economica statunitense, o che possa creare un precedente per altri paesi (magari agli undici paesi membri dell’OPEC).

Guerra a parte, per comprendere l’origine di tutta questa gravosa situazione bisogna tornare indietro nel tempo di quasi un secolo, per la precisione fino al 23 dicembre 1913, data questa della “federal reserve act”, e cioè della legge sulla “riserva federale” che ha stabilito il nuovo sistema bancario nazionale (assolutamente fraudolento) basato non più sull’oro ma sul niente. Questa è la più grande truffa che sia mai stata fatta.

Tale legge ha infatti creato la banca centrale, la Federal Riserve (banca privata e non governativa nelle mani dei Burattinai), che ha un enorme potere, quello di stampare carta-moneta. Da quel momento la Federal Reserve ha iniziato a stampare moneta priva di controvalore, per cui carta-straccia, e non si più fermata. Detto in parole povere: la banca privata chiamata Federal Reserve, ha stampato dal 1913 montagne di dollari privi di valore che hanno inondato il mondo intero. Tutti i vari paesi industrializzati e non, se li sono accaparrati - perché il dollaro è la moneta di scambio principale - convertendo addirittura le proprie riserve nazionali.

Morale: tutti i paesi del mondo hanno fatto riserva e incetta di questa carta-straccia, e oggi purtroppo per noi, è arrivato il momento di passare alla cassa!

Una delle soluzioni praticabili dai governi, per tentare di risolvere la crisi e economica o almeno limitarne i danni, sarebbe quella che fu messa in atto dal presidente John F. Kennedy nel 1963 (esattamente 50 anni dopo la nascita della Fed!). Con l’ordine esecutivo 11110 Kennedy dava al Ministero del Tesoro (invece della FED) il potere di “emettere certificati sull’argento contro qualsiasi riserva d’argento, argento o dollari d’argento normali che erano nel Tesoro”. In pratica, per ogni oncia d’argento contenuta nei forzieri del Tesoro, il governo poteva emettere nuova moneta; moneta con controvalore!

In tutto Kennedy fece stampare ben 4,3 miliardi di dollari (8600 miliardi di vecchie lire di allora), e questo stava per mettere fuori gioco la Federal Reserve, perché permetteva al governo di pagare il debito, liberandolo dalla stretta mortale della banca centrale! Una cosa non da poco. Infatti qualche mese dopo e nella città simbolo del denaro e del gioco d’azzardo (?), Kennedy viene assassinato deliberatamente. Un avvertimento chiaro ai futuri presidenti che avessero voluto estinguere il debito. E infatti, la prima cosa che fece il presidente Lyndon è stata proprio quella di ritirare tutte le monete emesse da Kennedy.

Monete che avevano una particolarità molto interessante: invece della scritta “Federal Reserve Note”, che sta a indicare, ieri come oggi, la “proprietà privata” dei soldi della banca privata centrale, avevano la scritta: “United States Note”, a sottolineare che i soldi erano di proprietà degli Stati Uniti e quindi dei cittadini americani. Una bella differenza!

Viene da chiedersi a questo punto chi sia l’effettivo proprietario dell’euro. Purtroppo nella moneta europea non compare la scritta: “Pagabili a vista del portatore”, per cui non sono nostri ma della banca privata centrale europea, la BCE! L’euro quindi è una moneta valida solamente perché noi ne accettiamo il valore nominale stampato sopra: un semplice numero, che non corrisponde ad alcun controvalore di oro e/o argento! Quindi dal punto di vista teorico, le banche in futuro potrebbero rifiutarsi di riconoscere e accettare questa moneta proprio perché NON è pagabile al portatore.

Probabilmente non succederà mai, ma per non saper né leggere né scrivere, è bene che ci prepariamo psicologicamente ad accettare nuove monete prive di interessi (che creano solamente il debito) e molto lontane dalle banche. Uomo avvisato...

Marcello Pamio

[1] A. Cesarano, economista Mps Finance, Monte dei Paschi di Siena, tratto da: http://www.repubblica.it/lettfin/kwfin/online/lf_le_analisi/031028cesarano/031028/031028.html [2] Noam Chomsky, autore di numerosi libri, insegna linguistica al MIT di Boston

 


 

Da soldionline 20-12-2006 Guerra al dollaro o mera diversificazione? di Pierluigi De Nittis


Aumenta la diversificazione valutaria delle banche centrali. Il Venezuela ha comunicato di voler ridurre del 15% le proprie riserve di oro e dollari, mentre l’Iran ha annunciato che sostituirà quasi drasticamente l’Euro al dollaro, mentre l’Indonesia…


Sono due fra i maggiori produttori di petrolio al mondo, paesi che fanno dei profitti derivanti dall’oro nero una risorsa fondamentale per le economie nazionali, ma sono anche grandi nemici degli Stati Uniti e, nell’attuale situazione dei mercati valutari, sembra che queste nazioni abbiano preso i classici due piccioni con una fava per fronteggiare sia il calo delle quotazioni del petrolio sia la svalutazione della valuta americana. Un cocktail di politica e religione, guarnito dal basilare ingrediente della finanza: il profitto.
Una delle caratteristiche peculiari del 2006 è rappresentata dal lento deterioramento della valuta americana, che ha perso quasi il 10% del valore contro l’Euro; e se si considera anche l’ulteriore rallentamento dell’economia USA causato dal peggioramento del mercato immobiliare, è possibile presagire un altro anno di ribassi per i cari vecchi “verdoni”. In una previsione per i prossimi tre mesi, rilasciata da BNP Paribas SA, si parla addirittura di una futura valutazione dell’Euro a 1.35$ per poi toccare 1.40$. Tale andamento, è anche stato supportato da previsioni Goldman Sachs circa un probabile futuro ribasso dei tassi USA a 4.5%.
A favorire e sicuramente accelerare la corsa verso l’Euro, c’è anche il dato positivo relativo alla Business Confidence tedesca, misurata dall’indice Ifo, balzato a 108.7 valore che non si vedeva dagli anni ’90.
In base a queste previsioni, è del tutto “normale” che si cominci a diversificare le riserve valutarie vendendo dollari – come ha già annunciato in precedenza anche il governatore della Banca Centrale Cinese Zhou Xiaochuan – soprattutto perché negli anni scorsi è stato fatto troppo poco in tal senso, ed in particolare perché i paesi produttori di petrolio sono troppo esposti al dollaro e quindi, rinunciare ai guadagni derivanti dall’apprezzamento dell’euro per fronteggiare perdite precedenti, sarebbe difficile.
In tal senso, i paesi OPEC hanno già incominciato a variare le proprie riserve in dollari aumentando al 22% i depositi in euro dal precedente livello posto al 20% ma, gli attuali movimenti diversificativi non dovrebbero portare, stando ai pareri di alcuni analisti, un eccessivo grado di debolezza per la valuta americana. Allo stato attuale sono troppo poche le movimentazioni valutarie in favore dell’euro rispetto al totale.
Se non vi sarà un forte effetto immediato, quindi, sul calo dei biglietti verdi, qualcosa è cominciato.
L’Iran ha impartito l’ordine alla propria banca centrale di effettuare qualsiasi operazione finanziaria estera utilizzando la valuta unica Europea e di abbandonare il dollaro, il Venezuela ha ridotto del 15% le proprie riserve valutarie in dollari, mentre l’Indonesia ha deciso di aumentare forse del 10% le proprie riserve in Euro.
Nuovo anno, nuove riserve.



 

Da L’Espresso 18-12-2006 L'Iran dice addio al dollaro e converte tutto in euro


MILANO - Il governo iraniano ha ordinato alla banca centrale di convertire in euro le attività denominate in dollari detenute all'estero e di rimpiazzare la divisa Usa con quella europea nelle transazioni con l'estero e negli scambi internazionali.

Lo ha annunciato il portavoce del governo Gholam Hossein Elham. La decisione è stata adottata in risposta alle pressioni degli Stati Uniti sulle Nazioni Unite per adottare sanzioni contro l'Iran per il suo controverso programma nucleare. Elham ha aggiunto che anche il budget dell'Iran sarà calcolato in euro.

'Le risorse dall'estero e le entrate petrolifere saranno calcolate in euro e le riceveremo in euro per mettere fine alla dipendenza dal dollaro", precisa un portavoce del governo iraniano, secondo il quale "procederemo anche al cambio dei nostri averi all'estero, il che include sia le entrate delle esportazioni, sia le fonti di finanziamento internazionali".

Per ora l'euro resta stabile sul mercato valutario, attorno a 1,31 dollari. La moneta europea passa di mano a 1,3098 contro 1,3106 dollari delle indicative della Bce di venerdì scorso. In calo il dollaro/yen a 117,96, in attesa delle decisioni della Boj sui tassi d'interesse giapponesi. Euro/yen a 154,5 contro 155.04 delle rilevazioni ufficiali.

 


 

Da Il Sole 24 Ore 18-12-2006  Euro: Bruxelles non incoraggia uso come petromoneta                                                                                                           

 

 

 

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Bruxelles, 18 dic - La Commissione Europea "non incoraggia" l'utilizzo dell'euro quale petromoneta o valuta di riserva internazionale. Lo ha affermato la portavoce del responsabile Ue agli Affari Econimici Joaquin Almunia in relazione alle notizie di stampa su l'idea dell'Iran di utilizzare la moneta europea come valuta di fatturazione per gli scambi di petrolio. "In effetti ancora non e' chiarito che cosa voglia fare il governo iraniano - ha detto la portavoce - dal momento che le notizie parlano della volonta' di calcolare in euro le entrate petrolifere e, a quanto sembra, non adottare l'euro come valuta di fatturazione". In ogni caso resta la posizione della Commissione Europea che e' quella di "non commentare questioni relative all'euro" e in ogni caso di "non incoraggiarne l'uso da parte di soggetti esterni" all'eurozona. Aps-rd

 


 

Da positanonews.it [15/12/2006] Lo scivolone del dollaro

 

Negli ultimi tempi, i segnali di sfiducia nel dollaro come moneta di riferimento si sono moltiplicati e per i Paesi produttori di petrolio, così come per le banche centrali, la diversificazione valutaria è diventata un’esigenza. Con il baricentro economico che si sposta verso Est, meglio investire in euro o nei mercati dell’Asia. Attenzione, però, perché ai listini emergenti si accede comunque attraverso il dollaro.
Dicembre, tempo di bilanci e previsioni. Quest’anno, a complicare un po’ lo scenario ci pensa il dollaro. La valuta americana è arrivata a perdere il 3% in meno di 10 giorni, mettendo in agitazione mercati e operatori.
In realtà, gli economisti avevano previsto un nuovo scossone sui mercati valutari e non ne sono sorpresi: la debolezza della moneta di scambio più importante nel mondo è il segnale atteso che qualcosa sta cambiando nel mondo e che il baricentro dell’economia si sta spostando da Ovest verso Est.
Dei nuovi orizzonti sui mercati mondiali, dei rischi e delle opportunità del cambiamento si è ampiamente dibattuto nei giorni scorsi a Praga all’interno degli European Colloquia, un convegno organizzato da Pioneer Investment, la società italiana di asset management del gruppo Unicredit.
Il parere più critico, nei confronti della valuta americana e delle prospettive dell’economia Usa, è venuto da Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia nel 2001, che ha sottolineato con forza che il sistema mondiale di riserve valutarie basato sul dollaro sta franando. L’indebolimento della fiducia nel biglietto verde come valuta di riserva potrebbe costringere le Banche Centrali a dismettere parte dei loro stock, innescando una crisi.
I segnali internazionali si moltiplicano: l’Iran ha appena fatto sapere di voler vendere il petrolio in euro e non più solo in dollari, mentre la Russia e l’Opec (l’organizzazione dei paesi esportatori) tra il primo e il secondo trimestre dell’anno, hanno diminuito gli asset denominati in dollari dal 67% del totale al 65% nel secondo, aumentando dal 20 al 22% quelli in euro e yen.
Se il dollaro dunque comincia a vacillare come valuta di riserva, e ancora di più, come moneta di scambio internazionale, suggerisce Stiglitz, si potrebbe pensare a una divisa comune nella quale effettuare le transazioni, in modo che gli squilibri di bilancia commerciale non vadano poi a influenzare il tasso di cambio del paese importatore.
Ma il problema non è solo la Cina, il cui surplus è contenuto rispetto allo squilibrio commerciale americano. Secondo Stiglitz, eliminando l’avanzo cinese il deficit Usa resterebbe pressoché invariato, perché gli Usa prendono a prestito dall’estero quasi 3 miliardi di dollari al giorno, e non sono tutti soldi cinesi.
In sintesi, se non si adottano misure importanti o si riequilibrano le sorti commerciali dell’America, la crisi valutaria potrebbe essere dietro l’angolo e il dollaro scendere fino a vedere quota 1,50 contro un euro.
Anche per questo motivo, per un investitore europeo, puntare sul mercato americano diventa una scelta controversa a meno che non si scelga un prodotto che escluda del tutto la componente di rischio legata al cambio. Basti pensare che Wall Street è salita del 15,5% da inizio anno, (Msci Nord America in dollari, al 14 dicembre), ma un risparmiatore del Vecchio Continente sta guadagnando solo il 3,5%, perché buona parte del rialzo è stato ridotto dal deprezzamento (circa il 12% da inizio anno).
Ma anche chi ha deciso di escludere l’investimento in America focalizzandosi sull’Europa o, soprattutto, sui Paesi dell’Asia emergente deve stare attento.
Investire in India o in Cina, significa comunque fare i conti nel biglietto verde, cui le valute locali, dal dollaro di Hong Kong, fino allo yuan, sono legate a vario titolo. E’ vero che si sono apprezzate negli ultimi mesi, ma, spiega Marcello Civitella, responsabile per i mercati emergenti di BG sgr, “le fluttuazioni di tali valute contro il dollaro sono ancora minime rispetto a quanto avviene, invece, al cambio euro/dollaro. Basti pensare che la moneta cinese si è rivalutata del 2% da inizio anno, ma contro euro è al di sotto di 10 punti. Per beneficiare appieno del trend strutturale di rivalutazione delle valute emergenti bisognerà aspettare tempi più lunghi”.
Allo stesso modo, i fondi specializzati sui mercati emergenti fanno acquisti in valuta locale e guadagnano dalla conversione degli asset nella valuta americana, in cui sono denominati. Un profitto di breve durata, però, perché il risparmiatore europeo che successivamente valorizza in euro vedrà vanificato il suo profitto.

 



Da trend-online.com 15-12-2006  M.Briganti (Morningstar): regali in euro sotto l’albero

Negli ultimi tempi, i segnali di sfiducia nel dollaro come moneta di riferimento si sono moltiplicati e per i Paesi produttori di petrolio, così come per le banche centrali, la diversificazione valutaria è diventata un’esigenza. Con il baricentro economico che si sposta verso Est, meglio investire in euro o nei mercati dell’Asia. Attenzione, però, perché ai listini emergenti si accede comunque attraverso il dollaro.
Dicembre, tempo di bilanci e previsioni. Quest’anno, a complicare un po’ lo scenario ci pensa il dollaro. La valuta americana è arrivata a perdere il 3% in meno di 10 giorni, mettendo in agitazione mercati e operatori.
In realtà, gli economisti avevano previsto un nuovo scossone sui mercati valutari e non ne sono sorpresi: la debolezza della moneta di scambio più importante nel mondo è il segnale atteso che qualcosa sta cambiando nel mondo e che il baricentro dell’economia si sta spostando da Ovest verso Est.
Dei nuovi orizzonti sui mercati mondiali, dei rischi e delle opportunità del cambiamento si è ampiamente dibattuto nei giorni scorsi a Praga all’interno degli European Colloquia, un convegno organizzato da Pioneer Investment, la società italiana di asset management del gruppo Unicredit.
Il parere più critico, nei confronti della valuta americana e delle prospettive dell’economia Usa, è venuto da Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia nel 2001, che ha sottolineato con forza che il sistema mondiale di riserve valutarie basato sul dollaro sta franando. L’indebolimento della fiducia nel biglietto verde come valuta di riserva potrebbe costringere le Banche Centrali a dismettere parte dei loro stock, innescando una crisi.
I segnali internazionali si moltiplicano: l’Iran ha appena fatto sapere di voler vendere il petrolio in euro e non più solo in dollari, mentre la Russia e l’Opec (l’organizzazione dei paesi esportatori) tra il primo e il secondo trimestre dell’anno, hanno diminuito gli asset denominati in dollari dal 67% del totale al 65% nel secondo, aumentando dal 20 al 22% quelli in euro e yen.
Se il dollaro dunque comincia a vacillare come valuta di riserva, e ancora di più, come moneta di scambio internazionale, suggerisce Stiglitz, si potrebbe pensare a una divisa comune nella quale effettuare le transazioni, in modo che gli squilibri di bilancia commercialenon vadano poi a influenzare il tasso di cambio del paese importatore.
Ma il problema non è solo la Cina, il cui surplus è contenuto rispetto allo squilibrio commerciale americano. Secondo Stiglitz, eliminando l’avanzo cinese il deficit Usa resterebbe pressoché invariato, perché gli Usa prendono a prestito dall’estero quasi 3 miliardi di dollari al giorno, e non sono tutti soldi cinesi.
In sintesi, se non si adottano misure importanti o si riequilibrano le sorti commerciali dell’America, la crisi valutaria potrebbe essere dietro l’angolo e il dollaro scendere fino a vedere quota 1,50 contro un euro.
Anche per questo motivo, per un investitore europeo, puntare sul mercato americano diventa una scelta controversa a meno che non si scelga un prodotto che escluda del tutto la componente di rischio legata al cambio. Basti pensare che Wall Street è salita del 15,5% da inizio anno, (Msci Nord America in dollari, al 14 dicembre), ma un risparmiatore del Vecchio Continente sta guadagnando solo il 3,5%, perché buona parte del rialzo è stato ridotto dal deprezzamento (circa il 12% da inizio anno).
Ma anche chi ha deciso di escludere l’investimento in America focalizzandosi sull’Europa o, soprattutto, sui Paesi dell’Asia emergente deve stare attento.
Investire in India o in Cina, significa comunque fare i conti nel biglietto verde, cui le valute locali, dal dollaro di Hong Kong, fino allo yuan, sono legate a vario titolo. E’ vero che si sono apprezzate negli ultimi mesi, ma, spiega Marcello Civitella, responsabile per i mercati emergenti di BG sgr, “le fluttuazioni di tali valute contro il dollaro sono ancora minime rispetto a quanto avviene, invece, al cambio euro/dollaro. Basti pensare che la moneta cinese si è rivalutata del 2% da inizio anno, ma contro euro è al di sotto di 10 punti. Per beneficiare appieno del trend strutturale di rivalutazione delle valute emergenti bisognerà aspettare tempi più lunghi”.
Allo stesso modo, i fondi specializzati sui mercati emergenti fanno acquisti in valuta locale e guadagnano dalla conversione degli asset nella valuta americana, in cui sono denominati. Un profitto di breve durata, però, perché il risparmiatore europeo che successivamente valorizza in euro vedrà vanificato il suo profitto.
*A cura di MariaGrazia Briganti, Redattrice di Morningstar

 


 

Da aprileonline.it 7-12-2006  La linea tedesca

Nane Cantatore,  07 dicembre 2006

Il nuovo rialzo dei tassi della Bce segna il divorzio dalla politica della Fed e soddisfa le aspettative tedesche, forti di un'elevata competitività e della continua crescita delle esportazioni, ma i francesi cominciano a preoccuparsi per gli effetti del super euro

 

Quando si parla di euro, dovremmo tutti ricordarci in che modo è nata la valuta unica: si è trattato di una sorta di scambio politico tra la Germania e il resto dell'Unione, che ha appoggiato la riunificazione turbo del principale sconfitto della seconda guerra mondiale in cambio della convergenza valutaria, che a sua volta avrebbe spalmato la grande forza intrinseca del marco sulle altre divise, facendo nascere una nuova moneta. Ciò ha comportato la sostanziale germanizzazione della politica monetaria europea, sottolineata sul piano simbolico anche dall'Eurotower, la sede centrale della Bce, che si trova a Francoforte, patria della Bundesbank e della principale Borsa tedesca.
È chiaro che un'istituzione comunitaria deve fare i conti con i bisogni di tutti i Paesi membri, ma è evidente che Berlino ha sempre avuto una posizione dominante nell'indirizzo della Banca centrale, che è poi l'organismo comunitario di gran lunga più incisivo, e forse l'unico dotato di reali poteri. Lo si vede bene in questi giorni, con un nuovo rialzo dei tassi che non è il primo, e che quasi certamente non sarà l'ultimo, e che ricorda molto da vicino la Buba della Germania locomotiva economica europea, sempre pronta a stringere i cordoni ogni volta che la crescita economica sembrava sufficientemente solida.

In effetti, in Germania le cose vanno bene: risanati i conti dopo lo sforamento dei parametri di Maastricht dovuto essenzialmente a una massiccia politica di investimenti e all'attivazione decisa degli ammortizzatori sociali nel recente periodo di stagnazione, il Pil cresce più del previsto, attestandosi al 2,3 per cento su base annua. Dato ancora più significativo, questa crescita è dovuta certamente alle esportazioni (e qui si tratta di un dato di lungo periodo, visto che si è passati da un valore complessivo di 383 miliardi di euro nel 1995 agli attuali 786), ma anche da una ripresa dei consumi, che senga un nuovo ottimismo, probabilmente anche in grado di assorbire senza danni il previsto aumento dell'Iva. A queste condizioni, l'euro forte è un dato decisamente positivo, visto che le esportazioni sono spinte dalla competitività dell'economia, dovuta più alla produttività che alla leva valutaria, dalla qualità dei prodotti e dalla geografia dei flussi commerciali, che ormai si snodano in gran parte sulla dorsale eurasiatica, a tutto vantaggio della Germania: in compenso, la forza della valuta attrae i capitali mondiali, in fuga dal deprezzamento del dollaro, fornendo così la materia prima per nuovi investimenti che possano continua a sostenere la competitività e la qualità dell'offerta, mentre l'effetto di controllo sull'inflazione aiuta la stabilità dello scenario.

Tutto bene per i tedeschi e per le altre economie europee che corrono; decisamente meno per chi è in affanno, o in mezzo al guado: Francia e Italia hanno discreti indicatori macroeconomici e sembra in atto una certa ripresa, ma entrambe devono ancora portare avanti grosse ristrutturazioni e lanciare una forte politica di investimenti a lungo termine, e in questi casi l'effetto dell'euro forte potrebbe essere prevalentemente negativo. In particolare, le esportazioni francesi sono già in affanno, mentre in Italia l'aumento dei tassi potrebbe essere sentito con un certo disagio dalle famiglie, che in questi anni si sono lanciate con grande veemenza nei mutui a tasso variabile: secondo le stime di Adiconsum, un mutuo di 100.000 euro a tasso variabile sottoscritto nel 2001 oggi costa 105 euro all'anno in più se la durata è di 15 anni, 124 se a 20 anni, 151 se a 30. Considerati i prezzi del mercato immobiliare, gli importi medi sono probabilmente molto superiori, e si tratta di cifre che possono decisamente cominciare a farsi sentire. Certo, si tratta ancora di effetti facilmente gestibili, ma ulteriori aumenti potrebbero rivelarsi più onerosi che vantaggiosi, almeno in alcuni Paesi europei; ma la Germania ha le spalle più larghe, ed è lei che decide.

 


 

Da Repubblica 30-11-2006  Il declino del dollaro

 

Resta da capire se la valuta americana si schianterà o planerà con un deprezzamento graduale verso un livello più ragionevole

di LUIGI SPAVENTA

 

Wile (Willy, Vil) il coyote, nel solito frenetico inseguimento del suo storico nemico Beep Beep (personaggi noti di cartoni animati), varca l’orlo di un precipizio; continua per un po’ a correre in aria, fin quando si accorge di trovarsi nel vuoto e si schianta per terra. Così il dollaro, nella vivida immagine di Paul Krugman, eccellente economista americano: solo che la corsa nel vuoto del dollaro, in sfida alla legge di gravità, dura da anni.

Il deprezzamento, graduale nei mesi scorsi e acceleratosi negli ultimi giorni (sull’euro da circa 1,19 a inizio anno a 1,26 a giugno a circa 1,32) segna l’inizio della caduta in verticale del coyote?

Le ragioni, note, che da tempo inducono a prevedere l’inevitabile collasso sono riassunte dall’etichetta "squilibri globali": un quindicennio di disavanzi crescenti nel saldo della bilancia dei pagamenti correnti degli Stati Uniti, con l’accumulo di un debito estero che supera il 30% del prodotto; in contropartita, saldi di segno opposto, con accumulo di crediti dei paesi emergenti, soprattutto asiatici, e del Giappone.

Le cause apparenti di questi squilibri sono parimenti note (anche se non sempre coerenti): eccesso di spesa, e basso risparmio, negli Stati Uniti; nelle economie emergenti bassa spesa rispetto ai risparmi e spinta prepotente, grazie ai minori costi, delle loro esportazioni. Tutti concordano comunque che squilibri siffatti non sono alla lunga sostenibili.

È meno ovvio quali forze abbiano bilanciato sinora la legge di gravità, consentendo al coyote-dollaro di mantenersi in aria, con oscillazioni tutto sommato moderate. La contabilità torna: l’eccesso di pagamenti verso l’estero degli Stati Uniti è stato compensato da flussi di capitali in entrata (circa 6.300 miliardi di dollari fra il 2000 e il 2005).

Ma perché investire in dollari - una moneta di cui, almeno alla lunga, si ritiene inevitabile una svalutazione? Nessuna delle tante spiegazioni è di per sé sufficiente, anche se ciascuna contiene un pezzo di verità: interventi delle banche centrali asiatiche (soprattutto di quella cinese), che acquistano dollari per impedire un apprezzamento delle loro valute; eccesso mondiale di risparmio; attrazione esercitata sui capitali dalla crescita vigorosa dell’economia americana e da mercati finanziari ampi e liquidi; miopia degli investitori, convinti che il destino del dollaro fosse inevitabile ma non prossimo.

Di qui una prima domanda: è cambiato qualcosa negli ultimi tempi che attenua la contro-spinta alla forza di gravità? Forse sì. La crescita americana si è indebolita e quella europea si è rafforzata; si sono esaurite alcune cause del divario nella dinamica della produttività (la ristrutturazione negli Stati Uniti del commercio e di alcuni servizi); in prospettiva, i tassi d’interesse aumenteranno in Europa, rimarranno stabili o diminuiranno negli Stati Uniti. Si avvertono segni di una diversificazione (più euro e meno dollari) delle riserve delle banche centrali dei paesi emergenti.

Segue una seconda domanda. Il deprezzamento degli ultimi mesi e degli ultimi giorni è un fenomeno temporaneo, destinato a rientrare, come è avvenuto in episodi precedenti? Probabilmente no. Forse l’incanto si è rotto, proprio perché sono venute meno alcune ragioni che lo favorivano.

Terza domanda, e più delicata: il dollaro si schianterà come il coyote o planerà con un deprezzamento graduale verso un più ragionevole livello? Azzardo, pur consapevole della quasi inevitabile fallacia di ogni previsione sul cambio non banale (del tipo "presto o tardi il dollaro cadrà": solo un orologio fermo segna l’ora esatta due volte al giorno). Forse esistono condizioni perché si avveri il secondo esito. L’economia americana, pur rallentando, è ancora in buona salute. Le banche centrali asiatiche nella desiderata riduzione delle posizioni in dollari devono procedere con cautela per non evitare le perdite ingenti di una caduta rovinosa. Le condizioni finanziarie sono più solide che in altre occasioni; anche grazie alle innovazioni della finanza, la gestione di un declino graduale è più agevole.

Speriamo che sia così: il primo esito, quello dello schianto, provocherebbe condizioni destabilizzanti di disordine valutario. La saggezza dei governi e delle banche centrali deve aiutare. Opporsi a un declino del dollaro per salvaguardare le proprie esportazioni (posizione francese) sarebbe vacuo. Aumentare ancora i tassi d’interesse europei, al di là dei rialzi già scontati, sarebbe dannoso: la rivalutazione dell’euro già esercita effetti restrittivi. Aiutiamo il coyote a compiere un atterraggio morbido.