HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO
di DOCUMENTAZIONE. DOSSIERE EURO-DOLLARO.
INIZIA LA GUERRA |
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INDICE Il Sole 24 Ore 8-2-2008 A
Manhattan i commercianti accettano euro INDICE del 27 novembre al 18
dicembre 2007 INDICE
dal 27 ottobre al 26 novembre 2007 L’Unità 28-9- L’Espresso 28-9-2007 Quel dollaro salva
Usa di Massimo Riva Il Sole
24 Ore 22-9-2007 Il dollaro sul filo del rasoio di Mario Margiocco Milano
Finanza 6-9-2007 Nella stagione dei subprime il dollaro resterà mini.
Giuseppe Pennisi. Aprileonline 5-9-2007
La bolla dei mutui, una crisi ovvia Liberoreporter.it 13-7-2007 Senza America Gilberto Borzini Trend-online.com
13-7-2007 Euro/dollaro poco mosso a 1,3785 Reuters 13-7-2007 Mercato cambi, Almunia (Ue) ribadisce messaggio G7 Il Sole 24
Ore 13-7-2007 Wall Street sfida la paura derivati di Morya Longo Il Sole 24 Ore 26-4-2007 L'euro ai
massimi, crescita tedesca più forte di Riccardo Sorrentino Da finanzaonline.com 13-4-2007 Trichet lancia l’euro sopra 1,35 contro il
dollaro Il Giornale 4-4-2007 Sorpasso: Borse europee
più ricche di Wall Street di Rodolfo Parietti - Da Il Denaro 29-3-2007 Fmi: Cresce il peso dell'euro , dollaro più forte nei commerci Il Sole 24
Ore Plus 17-3-2007 DIETRO I NUMERI di Fabrizio Galimberti Da La
Repubblica - Lettera finanziaria 27-2-2007 Euro sempre più appetibile
per le Banche centrali Da Borsa e
Finanza 24-2-2007 Il bond piace, ma solo in euro di Gabriele Petrucciani Da trend-online.it 13-2-2007 Euro forte contro dollaro. Probabile rialzo dei tassi in Europa a marzo Da
Reuters 6-2-2007 Giappone, min Finanze Omi parlerà a G7 di ripresa economica Da La
Repubblica 18-1-2007 Bernanke avverte:
crisi in arrivo se non si riduce il deficit Da
Panorama 15/1/2007 All'Italia il supereuro può costare 7
miliardi. Di Anna Maria Angelone Da
Repubblica 15-1-2007-01-12Se l’Europa cresce più degli Usa MARCELLO DE CECCO DA
01.net/Mercato 11-1-2007 Per l'high tech un dollaro vale un
euro. Luigi Ferro Da
altrenotizie.org L’ORO DI PERSIA di
Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro D a
Repubblica 4-1-2007 Il dollaro rialza la testa e schiaccia l'euro sotto quota 1,31 Nelle
riserve di valuta estera lo scettro resta al dollaro Da AGI
29-12-2006 L'euro batte il dollaro, e'
sorpasso. Da
L’Espresso 29-12-2006- Moneta unica in ascesa pronta a scavalcare il dollaro Da
Repubblica.it 29-12-2006.
Liquidità sempre elevata. La Bce alzerà ancora i tassi Da Il
Sole 24 Ore. Petrolio, Opec verso nuovo taglio della produzione P. F. Da
isolapossibile.it 21-12-2006 Guerre e crollo dell’’economia mondiale Da
soldionline 20-12-2006 Guerra al dollaro o mera diversificazione? di
Pierluigi De Nittis Da
L’Espresso 18-12-2006 L'Iran dice addio al dollaro e converte tutto in euro Da Il
Sole 24 Ore 18-12-2006 Euro: Bruxelles
non incoraggia uso come petromoneta Da
trend-online.com 15-12-2006 M.Briganti
(Morningstar): regali in euro sotto l’albero Da
aprileonline.it 7-12-2006 La linea tedesca Da
Repubblica 30-11-2006 Il declino del
dollaro Il Sole 24 Ore 8-2-
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Fino a quando il
mondo vorrà comperare dollari, cosa che da anni sta facendo al ritmo
di non meno 2-2,5 miliardi al giorno? Non ne ha abbastanza? E poiché il dollaro
scenderà ancora, asiatici e arabi soprattutto assisteranno a un calo
di ricchezza senza vendere, almeno parte, i titoli in dollari?
Per la prima economia del mondo, detentrice della valuta-principe negli
scambi internazionali e finora sia pure con alterne vicende store of value
globale, il livello di indebitamento possibile è pari alla
disponibilità dei creditori a investire in quella valuta. Anche gli
Stati Uniti cioè hanno il credito che il resto del mondo è
disposto a riconoscergli. Ne hanno avuto tanto, soprattutto negli ultimi
dieci e ancor più cinque anni. Da questo indebitamento devono
gradatamente rientrare. La fiducia, di fronte alla massa di dollari si sta
assottigliando. La crisi finanziaria innescata dai mutui subprime e dalle
insolvibilità che ne sono seguite rischia di rendere il rientro
disordinato e pericoloso per tutti.
Nel 2005, riepilogava a inizio estate l'ultima analisi del Congressional
Budget Office americano, gli investimenti stranieri totali negli Stati Uniti
erano di 13 mila 600 miliardi, il 109% del Pil , pari a circa 11mila
miliardi. Si trattava del 9% in più rispetto al 2004 e del 52% in
più rispetto al 2000. Nel 2003 i titoli del Tesoro in mano estera
erano a 1.450 miliardi e a fine
Il Giappone ha il 31% della quota estera , la Cina il 19, i Paesi Ue il 15 e
i Paesi del Golfo il 5 per cento, in parte rilevante come riserve delle
rispettive banche centrali. Sono almeno due anni che sono sempre più
pressanti i dubbi sulla capacità di tenuta di un sistema a ciclo
integrale dove gli americani acquistano a pieno ritmo prodotti asiatici e
petrolio e il denaro ritorna negli Stati Uniti sotto forma di investimenti di
portafoglio e altro, ma finora ha retto. Tra aprile 2006 e aprile 2007 gli
americano hanno importato beni per 1.880 miliardi, ma gli stranieri hanno
acquistato titoli americani per 896miliradi, mentre nei 12 mesi conclusi a
giugno le banche centrali del mondo hanno acquistato ancora titolo del Tesoro
Usa, e altri emittenti pubblici, per 324 miliardi.
Poi è venuta l'estate del 2007 e la crisi dei mutui subprime, evidente
da marzo almeno, è esplosa. All'inizio molti hanno detto che il
nervosismo portava, come spesso in passato, a cercare rifugio nel dollaro,
che in effetti ad agosto recuperava sull'euro il 3,5% in sei sedute positive
consecutive. "Il dollaro è ancora moneta rifugio",
titolavano vari giornali, americani soprattutto. Dietro c'era l'idea che gli
investitori americani sarebbero tornati sul dollaro, cercando sicurezza,
più in fretta di quanto eventualmente altri se ne sarebbero
allontanati. "E' illusorio ritenere il dollaro un porto sicuro",
ribatteva David Woo, l'esperto di cambi di Barclays Capital, preannunciando
quello che si sarebbe verificato. E cioè che Bernanke avrebbe dovuto
abbassare i tassi, cosa che ha fatto e di ben 50 punti base il 18 settembre,
per far fronte alla crisi finanziaria interna e agevolare liquidità al
sistema bancario, e che a quel punto la prospettiva di un ulteriore e
più forte indebolimento del dollaro avrebbe spinto molti ad
alleggerire le posizioni.
"Mai la Fed non si era imbarcata prima in un allentamento monetario con
una dipendenza dell'economia americana così legata alla
disponibilità estera di finanziare un deficit così alto delle
partite correnti", dice Woo. Un deficit più che raddoppiato rispetto
agli inizi dell'attuale ciclo espansivo americano nel 2002-2003. Il brusco
peggioramento del cambio dollaro-euro dice che ci sono consistenti vendite di
dollari, e il fatto che il cambio dollaro-yen sia stabile non è molto
indicativo, fanno osservare vari operatori, perché sullo yen pesano le
operazione del carry trade, l'indebitamento a tassi bassissimi in yen per
investimenti in altre valute più remunerative.
La Federal reserve ha tagliato i tassi per far fronte alla crisi finanziaria
interna e ai rischi di bancarotta dopo che dal 2004 aumentava - lo ha fatto
per ben 17 volte consecutive dal giugno 2004 - per preparare il soft landing
dell'indebitamento americano, pilotare un dollaro che subiva spinte al
ribasso, evitare che fossero troppo rapide e forti, e avviare un graduale
risanamento dagli eccessi di debito estero. Ora, saranno più forti le
spinte anti crisi finanziaria e anti recessione o quelle in difesa del valore
del dollaro e per assicurare un soft landing? In un 2008 elettorale il timore
è che prevalgano le prime.
Da tempo, e ancor più nelle ultimissime settimane, un dato scrutato
con apprensione è quello del Treasury International Capital System,
gestito dalla Fed di New York che periodicamente indica l'andamento dei
titoli in dollari lasciati in affidamento dalle banche centrali di tutto il
mondo. Sono scesi per 48 miliardi da luglio, e per 32 miliardi nelle sole due
settimane a cavallo fra agosto e settembre. E' ancora presto per trarre
conclusioni, e se la Cina sta vendendo lo sapremo solo a novembre.
Ma è anche sulla Cina, e sul suo sistema finanziario dove dal 25 al
50% dei crediti all'industria sono altamente a rischio, e ampiamente
sovvenzionati, che si punta l'attenzione. La necessità cinese di fare
cassa vendendo titoli del Tesoro Usa sarebbe esiziale per il dollaro, e per i
2 miliardi di dollari di cui gli Stati Uniti hanno ogni giorno bisogno. I
mercati monetari procedono sul filo del rasoio. Mai come dai tempi della fine
del sistema di Bretton Woods, nel 1971-1973, i rischi sono stati grandi e la
cooperazione globale necessaria. Quello che rischia di finire malamente,
infatti, come malamente finì il sistema dei cambi fissi, è un
sistema informalmente centrato sul dollaro che da almeno dieci anni regge
gran parte dell'economia globale. E per l'euro non è augurabile un
maggior ruolo internazionale, non in queste circostanze.
Borsa e Finanza
22-9-
di Redazione -
22-09-
Milano Finanza
6-9-2007 Nella stagione dei subprime il dollaro
resterà mini. Giuseppe Pennisi.
La crisi dei Cdo Usa, fondi strutturati che includono una buona dose di mutui subprime, non è ancora del tutto risolta come dimostra il forte calo delle borse nella seduta di ieri. Molti si sono chiesti quali potranno essere i suoi effetti sul ciclo economico Usa e, di rimando, sull'economia delle aree più correlate agli Stati Uniti. Pochi, almeno sulla stampa (sia generalista sia di settore), si sono domandati quali saranno le implicazioni sui cambi e se tali implicazioni potranno essere una cinghia di trasmissione particolarmente incisiva sull'economia mondiale. è un interrogativo, questo, che si pongono sia gli studiosi sia gli operatori. Max Corden, sui cui libri sul commercio internazionale hanno studiato numerosi ministri e direttori generali di dicasteri economici e finanziari, risponde con un sorriso: a suo avviso si drammatizza eccessivamente il disavanzo dei conti con l'estero Usa poiché si tratta soltanto di uno squilibrio temporaneo tra transazioni finanziarie e transazioni reali di cui le tensioni sulle borse possono accelerare la cura. Tale cura, però, può comportare un ulteriore deprezzamento del dollaro. Un lavoro del servizio studi Bce (in uscita in settembre come working paper n. 790) conclude un'attenta analisi econometrica dicendo che shock nei mercati azionari e immobiliari hanno inciso in misura significativa (sino al 32%) sulla bilancia dei pagamenti Usa nell'arco di 20 trimestri recenti. è un'incidenza notevolmente maggiore di quella da attribuirsi alla bilancia commerciale (sino al 7%).Che cosa vogliono dire queste analisi in termini pratici? Nonostante la leggera flessione del valore internazionale dell'euro nei giorni più caldi del subprime – quelli attorno a Ferragosto- la tendenza di fondo degli ultimi mesi (ossia un nuovo deprezzamento del dollaro) dovrebbe continuare, specie se la Federal Reserve ritoccasse all'ingiù l'interbancario e la Bce all'insù il pronto contro termine . Inoltre, dati ancora frammentari del Fondo monetario, indicano che i Paesi a bilancia dei pagamenti molto forte (Cina in primo luogo) stanno accelerando il processo di conversione di parte delle riserve dal dollaro Usa all'euro dal momento che hanno già perso in termini di valorizzazione dei titoli del Tesoro Usa e temono di perdere ancora di più con i movimenti dei cambi.Goldman Sachs e Merryll Lynch prevedono che l'euro arriverà a 1,42 dollari Usa entro la fine dell'anno. Lo conferma Currency Direct di Londra: nei giorni del credit crunch i cambisti sono saltati sul dollaro in quanto moneta rifugio in un trambusto che si pensava sarebbe diventato mondiale, ma adesso (dopo la forte infusione di liquidità da parte della Bce e, in misura più modesta, della Fed) si viaggia verso una stabilizzazione attorno 1,40 dollari per euro. "L'occhio del ciclone", aggiunge una lettera di Merrill Lynch ai propri investitori, "è negli Usa: quindi, le aspettative per un deprezzamento ulteriore del valore internazionale della sua moneta". Quali le implicazioni per paesi come Francia, Germania e Italia alle prese con la preparazione delle rispettive leggi di bilancio? Si può essere orgogliosi del fatto che la propria moneta acquisisca una quota maggiore delle riserve mondiali. Ma l'orgoglio costa, specialmente in termini di export, quando implica un apprezzamento del cambio. Il Fondo monetario sta mettendo a punto l'Economic Outlook (che verrà presentato tra un mese e mezzo): si parla un ritocco al ribasso per la crescita Usa (il prossimo non sfiorerebbe il 2%) e dell'area dell'euro (nel 2008 il consensus forecast è il 2,3%). Per l'Italia, il ministro dell'economia e delle finanze ha già avvertito che la crescita l'anno prossimo sarà attorno all'1,8% (non il 2% previsto nel Dpef). Nell'aggiornamento del Dpef, è verosimile che il freno all'export (dovuto in certa misura al cambio), unitamente ad altre determinanti, abbassi la crescita all'1,5%. Ciò vuol dire drastiche misure dal lato della spesa. Se si vuole mantenere la parola di non effettuare aggravi fiscali. (riproduzione riservata)Giuseppe Pennisi MF
Aprileonline 5-9-2007 La bolla dei mutui, una crisi ovvia
Nane Cantatore, 05 settembre 2007
Approfondimenti
Il caso subprime è solo la prima conseguenza,
del tutto prevedibile, della dissennatezza con cui sono state gestite le
finanze americane in questi anni; ora la sfida sarà nell'evitare che
la crisi colpisca il resto del mondo
A volte, ma solo a volte, capita che anche i banchieri parlino con sincerità: è avvenuto in questi giorni, quando Bernanke ha ammesso che la crisi dei mutui subprime è davvero grave.
A tutti capitano dei momenti in cui si perde la concentrazione, ma il capo della Fed si è subito ripreso ed è tornato al suo rapporto istituzionalmente disinvolto con la verità affermando che si trattava di un fatto "imprevisto". In realtà, di imprevisto c'è ben poco: le finanziarie e le banche americane hanno favorito in ogni modo l'indebitamento dei cittadini, in barba a ogni idea di sostenibilità e persino ad ogni elementare calcolo di prudenza.
La ragione di questo comportamento, all'apparenza folle, è, ancora, sotto gli occhi di tutti: il portafoglio dei crediti viene venduto agli investitori, sotto forma di fondi e di altri prodotti derivati, a prezzi scontati rispetto ai tassi nominali. Insomma, se il signor John Doe riceve 100.000 dollari di finanziamento per il suo mutuo ventennale subprime con rate, diciamo, di 8.000 dollari all'anno, questo debito, che produrrebbe un ritorno totale alla fine del pagamento delle rate per 160.000 dollari, viene girato dalla banca a un fondo di investimento, diciamo per 120.000 dollari subito. A queste condizioni, è chiaro che alla banca non interessa più di tanto il regolare pagamento delle rate, mentre ha ogni interesse a far salire l'indebitamento, ben oltre i limiti di sostenibilità; anzi, a questo punto conviene che si accumulino ritardi e sofferenze, che generano interessi di mora e commissioni, a tutto vantaggio della banca stessa, che continua ad essere il soggetto che riceve i pagamenti dal povero signor Doe.
Tutto ciò è avvenuto con la benedizione delle istituzioni, che in questo modo hanno registrato la costante crescita dei consumi, e dunque dell'economia, anche in un momento di notevole perdita di competitività. Per non parlare dei mercati, che si sono lanciati in vertiginosi giochetti speculativi; dei proprietari di immobili, che con una domanda così drogata hanno visto lievitare il valore dei loro beni; e delle impeccabili e azzimate agenzie di rating, riccamente pagate per dare il loro beneplacito a queste operazioni. Ma è giusto ricordare che anche le altre economie hanno inzuppato il pane in questa torbida brodaglia, visto che i consumi americani hanno sostenuto le esportazioni di più o meno tutti i Paesi industrializzati.
Oggi è
difficile non vedere quello che su queste pagine si legge da anni: che il
sistema finanziario americano è in un grave stato di dissesto, che il
dollaro è ampiamente sopravvalutato, che l'intera economia
statunitense poggia su basi estremamente fragili, e che il debito pubblico
Usa, a queste condizioni, è davvero una voragine spaventosa. E
dovrebbe essere chiaro che non c'è nessuna ragione di rallegrarsi
delle difficoltà americane, visto che una crisi finanziaria negli Stati
Uniti, la cui possibilità si fa sempre più concreta, avrebbe
pesanti ripercussioni ovunque. Per questo in tutto il mondo si sta correndo
ai ripari, cercando di rafforzare la domanda interna senza compromettere
l'equilibrio finanziario, e di pilotare la crisi americana nel modo
più indolore possibile.
Un abbassamento dei tassi da parte della Fed sarà inevitabile, il che
potrà innescare dei rischi di inflazione, ma per lo meno
abbasserà il peso del debito e darà nuovo fiato all'economia;
ciò probabilmente comporterà anche una pausa nella politica
rialzista della Bce, il che dovrebbe favorire la ripresa europea, mentre la
Cina si troverà, probabilmente, in una posizione più difficile,
vista la sua dipendenza dalle importazioni americane. Ad ogni modo, la causa
profonda di questi problemi è, con ogni probabilità, l'eccesso
mondiale di liquidità, prodotto dalla spaventosa crescita dei profitti
aziendali avuta in questi anni: la risposta corretta, sostenibile nel lungo
periodo e più efficace, sarebbe un'inversione di tendenza, con l'introduzione
di massicce politiche redistributive. Ma, chissà perché, non sembra
che il mondo stia imboccando questa strada.
Il Manifesto 19-7-2007"Al massimo una ripresina", dice il capo della Fed. Per colpa del petrolio E la fame di greggio colpisce l'America Maurizio Galvani
La ripresa negli
Stati uniti? "Sarà una ripresina". Parola di Ben Bernanke,
presidente della Federal reserve (Fed), la banca centrale americana. Il
prodotto interno lordo - che è la vera misura della crescita di un
paese - sarà quest'anno del 2,25-2,5%, quindi più lenta del
2,5%-3% previsto a febbraio. Anche il tasso di inflazione quest'anno rimane
fisso al 2-2,25%, contro l'1,75%-2% che si prevede verrà registrato
solamente alla fine del 2008. Il punto sull'economia statunitense fatto dal
presidente Bernanke durante un'audizione davanti alla commissione per i
servizi finanziari della Camera, è stato sia confuso che, soprattutto,
preoccupante. Preoccupante perchè gli Stati uniti non si presentano
più come la "locomotiva economica mondiale", le stime sono
ogni volta più basse delle previsioni e sono spesso sbagliate, e
inoltre non ammettono che il paese sta vivendo una crisi più profonda
di quello che il banchiere centrale cerca di far credere. Ieri, tra le altre
cose, il Dipartimento all'energia ha reso noto che "le scorte di greggio
sono calate circa di 500mila barili, quelle di benzina addirittura di 2,3
milioni di barili (gli stock sono attualmente arrivati a 203,3 milioni di
barili) e anche i prodotti distillati sono dimimuiti di 200mila
unità". L'effetto immediato è arrivato subito: i prezzi
alla pompa per il rifornimento di gasoline (carburanti) per i cittadini
americani sono ormai aumentati di un dollaro a gallone e il petrolio al
mercato di New York è salito di un altro dollaro: il light crude
è stato scambiato a 75 dollari a barile sulle quotazioni future. Il
punto del presidente Ben Bernanke è stato confuso, invece, per una
altro motivo: perchè non ha saputo essere rassicurante, ad esempio
dichiarando definitivamente concluso il tracollo dei fondi subprime (quelli
impegnati nei mutui) che in una settimana hanno già bruciato 18
miliardi di dollari; perchè non ha detto che la bolla immobiliare si
è chiusa o che al prossimo incontro del Comitato monetario la Federal
reserve diminuirà i tassi di interesse - fermi ormai da mesi al 5,25%
- per poter rilanciare la ripresa a fronte di un costo della vita ancora
sotto controllo. Senza aiuti e stimoli, però, sarà difficile
avere una crescita meno che zoppicante. Inoltre gli inaspettati aumenti del
costo del petrolio si stanno scaricando sul consumatore statunitense e stanno
erodendo la sua fiducia. Il cittadino comune è già colpito
dalla svalutazione del dollaro e dai rimborsi dei mutui, molti dei quali
diventati ormai inesigibili. La reazione a catena ha fatto scattare
all'insù il valore dell'euro, che ieri ha toccato un altro record
arrivando a 1,3811 dollari, mentre i mercati borsistici hanno immediatamente
risentito del dato sulla dimuizione delle scorte petrolifere Usa. Gli indici
delle principali piazze europee hanno perso tutti, tra l'1-1,5%; il Mib-tel
della borsa di Milano ha perduto lo 0,76%. Il petrolio Brent - che si
riferisce all'indice del crude scambiato a Londra - ha guadagnato un dollaro
secco portandosi a 76,53 dollari a barile. A Wall street - la piazza
più "vicina" all'economia Usa e ultima a chiudersi per
ragioni di tempo - i due principali indici a due ore dalla chiusura delle
contrattazioni perdevano quasi l'1% (il Dow jones) e quasi l'1,29%, il
Nasdaq.
Liberoreporter.it 13-7-2007
Senza America Gilberto Borzini
Inserito il 11 luglio 2007 alle 10:30:00 da webmaster. IT
Alla debolezza del
Dollaro statunitenze si accompagna una grave crisi produttiva e un crollo
delle esportazioni. Il mondo multipolare, la crisi energetica, il modello
sociale, i nuovi miti: molti gli elementi che fanno presagire che entro breve
vivremo senza America.
Nei primi anni '80 il dollaro valeva più o meno 2000 lire italiane, la
Sterlina inglese 2500 lire e il franco svizzero 1200 lire.
Il cambio attuale dell'Euro vede il dollaro a 1,35 (circa 1400 lire), la
sterlina a 0,68 (2850 lire) e il franco svizzero a 1,65 (1180 lire).
In sostanza il franco svizzero ha mantenuto le posizioni rispetto, la
sterlina si è rivalutata, il dollaro ha perso parecchio.
Ma nel ventennio il mondo è cambiato, passando da bipolare a
multipolare.
All'epoca esistevano i petrodollari, fantasiosa costruzione del tandem
Kennedy - McNamara secondo la quale gli USA compravano petrolio dagli Arabi,
gli Arabi prendevano i soldi e li reinvestivano in Buoni del Tesoro USA e,
con gli interessi maturati, acquistavano consulenze e materiali per la difesa
dagli USA. Un sistema ingegnoso, particolarmente vivace dal punto di vista
finanziario, che rese bene per almeno trent'anni.
Khomeini fu il primo a mandare all'aria il giochino, sostituendo ai
petrodollari dello Shah Reza Palevi il Corano.
Saddam Hussein, invece, ci stava (all'epoca) tant'è che, casualmente,
seguirono anni di guerra tra Iraq e Iran.
Per farla breve: il sistema dei "petrodollari" non regge più
nè in medio oriente, nè in Nigeria né in Sud America (Brasile,
Venezuela e Ecuador), e gli USA vedono declinare pericolosissimamente la
curva delle vendite e delle esportazioni di materiale e consulenza bellica,
ai primi posti nella scala economica della produzione USA.
Nel frattempo la Russia si è imposta come leader energetico e sta
attuando quella che si chiama OPEC del Gas, con alleanze strategiche, in
primis con l'Algeria.
In Afghanistan, che ci piaccia o no, il contendere concreto è tra due
progetti di gasdotto, uno sponsorizzato dai russi e uno dagli americani. Del
burka, in sostanza,non interessa nulla a nessuno.
Come noto oggi oltre il 60% del debito pubblico americano (bond) è in
mano al Governo Cinese, governo che potremmo dire in tono poetico "tiene
saldamente per le palle" l'amministrazione USA.
Malgrado il dollaro a valore di saldo le merci made-in-USA non riescono ad
esportare (calo di oltre 20 punti percentuali in un anno solare), il debito
pubblico è "stellare" ben più dello scudo
missilistico che l'amministrazione Bush cerca di vendere ai polacchi e ai
cechi.
Il sistema previdenziale è nelle mani di fondi speculativi che ogni
tanto implodono lasciando nella bazza i risparmiatori e i pensionandi. Il
sistema medico è un'indecente follia.
Una volta i miti americani erano rappresentati da John Wayne (la legge),
Humphrey Bogart (uomo misterioso ma d'onore), RinTinTin (coraggioso e
fedele), Superman (il bene per la gente comune contro la delinquenza).
Oggi i "miti" made-in-USA sono L'Uomo Ragno (uno sfigato maniaco
depresso che prima salva sé stesso e la sua amica dalle follie di un altro
maniaco, poi si astiene dal fare sesso con la donna dei suoi sogni, infine
impazzisce del tutto trovando se stesso per nemico e combattendosi all'ultimo
spruzzo di tela: un delirio !), Walker Texas Ranger (per carità), ER
(dove il sistema sanitario funziona !), CSI e simili (dove la polizia
investiga e capisce, mica manda al creatore innocenti provati dai test del
DNA), e - meraviglia delle meraviglie - Donne nevrotiche e i Simpson.
Aggiungete all'autoritratto americano The Mask e il Dottor Doolittle e
provate a immaginare un futuro con meno belinate.
Ovvero: un futuro SenzAmerica.
Che dite, rischiamo di stare tutti un po' meglio ?
Trend-online.com 13-7-2007
Euro/dollaro poco mosso a 1,3785
All'apertura delle
contrattazioni nelle piazze finanziarie del Vecchio Continente la moneta
unica viene scambiata a 1,3785 rispetto al biglietto verde, in linea sia con
le ultime rilevazioni della Banca Centrale Europea (1,3785) sia con i valori
registrati in tarda serata di ieri a New York (1,3785). Sale lievemente la
divisa europea rispetto alla moneta giapponese, l’euro vale 168,60 yen dai
168,40 yen delle indicative della BCE della giornata scorsa. Il biglietto
verde è stabile rispetto alla valuta nipponica, il rapporto di cambio
tra dollaro/yen quota, infatti, in area 122,30 da 122,35 dell'ultima chiusura
di Wall Street.
L’euro si muove poco nei confronti del dollaro in attesa della pubblicazione
dei dati macroeconomici statunitensi.
Le cifre macro annunciate ieri non hanno particolarmente influenzato
l’andamento del rapporto di cambio fra moneta unica e biglietto verde.
Ieri il Dipartimento del Commercio ha reso noto che il deficit commerciale si
è allargato, nel mese di maggio, a 60 miliardi di dollari dai 58,67
del mese precedente, in perfetta linea con le attese degli analisti. Il
Dipartimento del Lavoro ha comunicato che le richieste settimanali di sussidi
di disoccupazione sono scese di 12 mila unità a quota 308 mila,
inferiori alle stime degli economisti che si aspettavano un valore di 315
mila.
La giornata odierna si presenta molto ricca d’appuntamenti macroeconomici di
particolare rilevanza. Gli addetti ai lavori attendono dagli Stati Uniti alle
14,30 italiane i prezzi alle importazioni di giugno e le vendite al dettaglio
di giugno (attese degli analisti fissate su un aumento dello 0,1% dell'indice
grezzo e dello 0,2% dell'indice core, ovvero escluso il settore dei
trasporti); alle 16,00 le scorte delle imprese di maggio (consensus +0,3%) e
l’indice preliminare sulla fiducia dei consumatori di luglio, calcolato
dall'Università del Michigan (stima degli economisti per una crescita
dell'indicatore a 86 punti dai 85,3 del mese precedente).
Reuters 13-7-2007 Mercato cambi, Almunia (Ue) ribadisce messaggio G7
BRUXELLES (Reuters) - Il commissario europeo agli Affari economici e monetari torna sul messaggio G7 in materia di mercato valutario, utilizzato la formula ormai consolidata secondo cui l'eccesso di volatilità e i movimenti disordinati del forex sono indesiderabili per la crescita economica.
Il commissario mette inoltre in luce come la valuta unica europea sia già arrivata in passato sui livelli attuali e che l'apprezzamento del cambio sta avvenendo sullo sfondo di una domanda interna robusta e partite correnti in ottima salute.
L'accelerazione dell'euro/dollaro non ha infine avuto un impatto negativo sulle esportazioni europee.
© Reuters 2007. Tutti i diritti assegna a Reuters.
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Il Sole 24 Ore 13-7-2007 Wall Street sfida la paura derivati di Morya Longo
Proprio nel giorno
in cui Moody's ha comunicato che si aspetta maggiori perdite sui bond legati
ai mutui americani subprime, Wall Street ha deciso di rialzare la testa. E di
lasciare alle spalle le tensioni. Anche grazie alla spinta delle numerose
fusioni societarie annunciate ieri e nei giorni scorsi, l'indice Dow Jones ha
realizzato il nuovo record storico, chiudendo con un rialzo del 2,09% a
13.861,73 punti: in punti è il balzo più consistente dal
Ma se l'allarme sui subprime è elevato, è anche vero che questa
particolare fetta del mercato è piccola rispetto al totale dei mutui
americani: rappresenta solo l'11% di un mercato che vale 9mila miliardi di
dollari. Una crisi in questo settore — sottolineano intanti — potrebbe non
avere impatti violenti sul resto dei mercati. «Fin che il credito si
restringe in questa particolare fetta del mercato non vedo particolari rischi
per il sistema —osserva per esempio Vincenzo Guzzo, senior strategist europeo
di Morgan Stanley —. Il problema si presenterebbe se il razionamento del
credito si propagasse anche sulle personee sulle aziende affidabili, ma
questo rischio non è allo stato attuale concreto». Un po' più
cauta, ma non allarmista, è Jennifer Bridwell di Pimco: «Non si
può prevedere che effetto potrebbe avere la crisi del mercato subprime
— afferma —. Di certo ora la percezione del rischio è maggiore».
Se i mutui subprime per ora non impensieriscono più di tanto i
mercati, anche la "montagna" dei derivati non è percepita
come un reale pericolo. Certo, le banche centrali (dalla Bce alla Fed) hanno
sollevato il problema più volte:i derivati sul credito —aveva detto
solo pochi mesi fa il presidente della Bce Jean-Claude Trichet — stanno
cambiando il sistema finanziario e rappresentano un rischio per la
stabilità dei mercati. In effetti il fenomeno dei derivati è
letteralmente esploso negli ultimi anni. A fine 2006 — secondo i dati
dell'Isda — sul mercato c'erano contratti per un valore nominale totale di
327mila miliardi di dollari: il triplo rispetto a quattro anni prima. Ma
soprattutto i derivati sul credito (strumenti che servono per
"assicurarsi" contro il default di qualunque emittente
obbligazionario) sono esplosi: dai 2mila miliardi di dollari del 2006 ai
34mila miliardi di fine 2006. Non solo: anche i Cdo (obbligazioni costruite
su portafogli di debiti o di derivati di credito) sono cresciuti in modo
abnorme, tanto che solo nel
Ebbene: di fronte a queste cifre è normale che le banche centrali si
mostrino allarmate.
«Credoche lancino l'allarme per cercare di calmare il mercato — osserva
Antonio Cesarano, capo economista di Mps Finance —. Ma il mercato è
tranquillo, anche perché il rischio è polverizzato su moltissimi
investitori». Così le Borse riprendono a correre. E non solo: gli investitori
si stanno indebitando al livello record di 353 miliardi di dollari per
acquistare azioni.
Il Sole 24 Ore
26-4-
Se non è stato record, ci è mancato poco. L'euro, secondo la Reuters, ha toccato ieri 1,3665 dollari, a un soffio dal massimo storico a quota 1,3667 segnato nel dicembre 2004. Questa volta, però, nessuno sembra preoccuparsi, e il motivo c'è. L'exploit era annunciato. È da settimane da mesi... che il valutario si muove seguendo uno schema che prevede la flessione del dollaro e il rafforzamento dell'euro. La valuta americana è "penalizzata" dal rallentamento dell'economia del 2006, dalle attuali difficoltà del settore immobiliare e dalla prospettiva di un prossimo taglio dei tassi; quella di Eurolandia è invece sostenuta dalla continua ripresa e dalla quasi certezza che la stretta monetaria continuerà. Anche ieri il mercato si è mosso seguendo queste linee guida, malgrado le apparenze. L'indice Ifo sul sentiment delle aziende salito a 108,6,a un passo dal massimo da quindici anni ha mostrato che l'economia tedesca va bene, e questo ha portato in alto l'euro. Poi gli ordini americani di beni durevoli hanno segnato a marzo un aumento del 3,4% mensile, in accelerazione,dando qualche segnale negativo su come è andato il primo trimestre e qualche buona prospettiva per il resto dell'anno; e il dollaro ha potuto recuperare terreno. La fragilità dell'immobiliare, il calo delle vendite americane di nuove case a marzo e le limitate richieste di permessi per aprile hanno riportato l'euro verso l'alto, fino a un passo dal massimo. In serata il beige book non proprio ottimistanon ha sostanzialmente modificato la situazione. L'euro si è così avviato alla conclusione della seduta scambiato a 1,3640. La forza di Wall Street, invece, sembra non aver emozionato gli investitori sul valutario. La Borsa si è mossa per motivi "interni", la forza dei profitti aziendali americani, ed è stata in fondo sostenuta daglistessi motivi che hanno animato i cambi: il buon andamento degli ordini aziendali e la prospettiva di un taglio dei tassi. Nessuna sorpresa, dunque, e nessuna contraddizione. Il trend di debolezza del dollaro dovrebbe ora continuare, almeno fino a quando non sarà più chiara quale sarà la durata del ciclo di strette della Banca centrale europea, la quale in occasione dell'ultimo rialzo ha fatto capire che i tassi sono quasi arrivati al livello neutrale e non sono ancora in territorio restrittivo.Il cambio,però, modifica queste valutazioni: il rialzo della valuta si comporta quasi come un aumento del costo del denaro e tende, sia pure attraverso un diverso canale, a rallentare l'inflazione. Quello che può sorprendere, piuttosto, è l'assenza di grandi proteste da parte del mondo politico e imprenditoriale. Ci sono stati alcuni richiami, è vero, ma in termini molto tecnici: non è il livello del cambio a suscitare preoccupazione, ma la rapidità del rialzo e la tendenza del mercato a comportarsi come se non ci fossero alternative. Lo schema di politica valutaria adottato dall'Unione monetaria puntaalmeno ufficialmente a contrastare unicamente questi due fenomeni. Il ministro dell'economia tedesco Michael Glos, ieri,ha così spiegato che «la Germania sta naturalmente affrontando bene l'attuale cambio euro/dollaro. Se ci fossero ulteriori rialzi potrebbe sorgere qualche rischio, ma attualmente la situazione è sostenibile come mostra l'andamento delle esportazioni. D'altra parte alleggerisce il peso di quanto dobbiamo pagare per le importazioni di energia». La ragione di questa apparente tranquillità è semplice. L'euro è ai massimi sul dollaro e ha da poco tempo segnato l'ennesimo record sullo yen; ma non esistono soltanto queste due valute.Il cambio effettivo, che tiene conto di tutte le monete dei principali partner dell'Unione non è ancora al record: ieri era a quota 107,31 mentre a fine 2004 aveva raggiunto 108,27. Allora, inoltre, il rialzo fu decisamente più rapido: in tre mesi il valore effettivo dell'euro salì del 6%,mentre nella situazione attuale è salito del 6,7% in quattordici mesi. E la velocità conta.
Da
finanzaonline.com 13-4-2007 Trichet
lancia l’euro sopra 1,35 contro il dollaro
Finanzaonline.com - 13.4.07/09:05
La valuta unica europea è tornata sopra la soglia di 1,35 contro il dollaro statunitense dopo la riunione della Banca centrale europea conclusasi, ieri, con un nulla di fatto sui tassi di interesse di Eurolandia. Tutto come previsto. Il board della Bce ha lasciato invariato il tasso Refi al 3,75% ma sono state molto più significative le parole pronunciate dal presidente Jean-Claude Trichet nella tradizionale conferenza stampa seguita alla sessione. “Non dirò nulla che sia diretto a modificare le aspettative per il mese di giugno” ha affermato il numero uno di Francoforte. E le attese sono ormai da tempo per un ritocco dei tassi di interesse a giugno dello 0,25% al 4%.
Nella zona euro la politica monetaria rimane “tendenzialmente accomodante” e di stimolo alla crescita dell’economia secondo la Banca centrale europea mentre la dinamica inflazionistica presenta dei rischi verso l’alto che richiedono un “attento monitoraggio”, un espressione giudicata dagli analisti di mercato meno pressante rispetto alla forte vigilanza che solitamente precede un rialzo dei tassi. Ancora una conferma che il prossimo ritocco dovrebbe essere effettuato in giugno piuttosto che in maggio.
Sul mercato delle valute il movimento di rafforzamento dell’euro è però solo in parte spiegabile con il sentiero di politica monetaria tracciato ieri da Trichet con riferimento alle due prossime riunioni atteso, come detto, dal mercato. A spingere la valuta dell’Unione europea le attese crescenti perché il livello del tasso di riferimento europeo superi quota 4% per portarsi al 4,25% nel corso del terzo trimestre. E’ destinato a restringersi ancora quindi il differenziale con i tassi Fed che si attestano ora al 5,25% quota alla quale sembrano destinati a rimanere ancora per un po’. Ciò non favorisce di converso il dollaro, indebolitosi nella seduta di ieri anche nei confronti dello yen giapponese.
Il raffronto tra le due economie, quella europea che prosegue nella sua forte crescita e quella americana dove aumenta l’incertezza sull’impatto che avrà la crisi del comparto immobiliare sul rallentamento economico in corso spostano ancora la bilancia in favore dell’euro.
Le posizioni degli operatori sul mercato si sono mosse infine anche in vista del vertice dei ministri delle Finanze dei Paesi del G7 che inizierà oggi a Washington e durante il quale il mercato delle valute sarà uno degli argomenti affrontati.
Questa mattina la divisa europea ha toccato nuovi massimi da gennaio 2005 contro il dollaro a 1,3524.
Il Giornale di Brescia 7-4-2007 FMI Continua il momento positivo dell'economia: il Pil mondiale salirà nel 2007 di quasi il 5% Eurolandia accelera, gli Usa frenano
Il Fondo monetario rivede al
rialzo le stime per l'Italia: quest'anno crescerà dell'1,8% NEW YORK
La crescita economica in Italia salirà all'1,8% nel 2007 (+1,7% nel
2008), in rialzo sull'1,4% di novembre e sul "circa 1,5%" che ha
accompagnato le conclusioni della visita "Articolo 4" di febbraio,
mentre Eurolandia con il 2,3% si prepara a superare gli Stati Uniti in
frenata dal 2,6% al 2,2%. Sono alcune delle stime del Fondo Monetario
Internazionale contenute nell'ultima bozza del World Economic Outlook (Weo)
di metà anno, i cui due capitoli principali saranno diffusi
mercoledì prossimo. Miglioramenti dei conti pubblici italiani, in base
ad alcuni dati anticipati dal Financial Times Deutschland (integrati da altre
fonti), si avranno anche sul deficit, visto che, grazie all'accelerata
dell'economia (che però è attesa sotto il 2% stimato dal
governo italiano nella Trimestrale di cassa), si delinea una discesa nel 2007
al 2,2% (2,3% nella trimestrale di cassa) rispetto al 4,4% del 2006 (ma era
già al 2,4% eliminando le misure straordinarie), per la prima volta
sotto la soglia del 3% di Maastricht superata per quattro anni di fila.
Rialzo, anche se minimo, nel 2008 al 2,3%. Buone notizie pure sul fronte del
debito, in discesa dopo la risalita del 2004-2006: nel 2007, per gli esperti
di Washington, l'avanzo primario farà scivolare il rapporto al 104,8%
del pil, fino a quota 104,1% nel 2008. Nel 2006 era stato pari al 106,8% del
pil. Un trend ipotizzato in calo almeno fino al 101,8% del 2012. Per quanto
riguarda Eurolandia, il Fondo stima una crescita del 2,3% nel biennio
2007-08, mentre la sorpresa, sulla scia delle turbolenze immobiliari (timori
per i mutui subprime inclusi), giunge dagli Stati Uniti, con un taglio della
crescita del Pil dello 0,4% sulle previsioni precedenti, al nuovo 2,2% (al
2,8% nel 2008 e contro il 3,2% del 2006) malgrado, come osservato
giovedì dal nuovo capo economista del Fondo Simon Johnson, lo scenario
su scala mondiale si confermi "senz'altro positivo". Non a caso, la
crescita su scala globale è stimata ora al 4,9% quest'anno e al 4,8%
nel 2008 (in calo rispetto al 5,3% del 2006). I fondamentali economici sono
"solidi", dice il direttore generale del Fondo, Rodrigo de Rato,
con un Pil complessivo nell'anno in corso "vicino ancora al 5%",
contribuendo a determinare "la più forte serie quinquennale mai
misurata dalla fine degli anni Sessanta", che con le previsioni attuali
si proiettano a delineare almeno a 7-8 anni, come mai avvenuto nella storia.
Il Giornale
4-4-2007 Sorpasso: Borse europee più ricche
di Wall Street di Rodolfo Parietti -
da
Milano
Ventiquattro Borse contro una per effettuare un sorpasso
che - com’è d’uso definire in questi casi - è storico: per la
prima volta dal termine della Prima guerra mondiale, la scorsa settimana la
capitalizzazione dei mercati finanziari europei (Est compreso) ha superato
quella dei listini statunitensi. Tradotto in cifre, quelle estrapolate da uno
studio di Thomson Financial, l’allungo è espresso dai 15.720 miliardi
di dollari di ricchezza borsistica del Vecchio continente contro i 15.640
miliardi di Wall Street.
L’Europa ha insomma dovuto aspettare quasi 90 anni per
riappropriarsi di un primato che aveva detenuto fino al
Il sorpasso è dunque indice di un cambiamento non
irrilevante, ma è anche il punto terminale di un cammino intrapreso
nel gennaio 2003, da quando cioè il passo dei listini europei è
diventato più spedito, grazie a una crescita della capitalizzazione
del 160% da allora a oggi, contro il 70,5% degli Usa. Non a caso, l’interesse
più manifesto nei confronti dell’Europa è stato espresso dal
New York Stock Exchange, che ha fortemente voluto l’aggregazione con
Euronext. Le cause? Senz’altro l’apprezzamento dell’euro nei confronti del
dollaro (più 26% in poco più di quattro anni), riconducibile
alla politica commerciale americana, agli irrisolti squilibri strutturali Usa
e in parte a una revisione dei portafogli finanziari (compreso quelli delle
banche centrali), che a sua volta ha avuto ricadute positive sulla
capitalizzazione delle Borse continentali.
Ma, soprattutto, lo studio individua nella crescita dei
mercati dell’Est il fattore decisivo nel superamento della Borsa americana.
In particolare del listino russo, che dai 330 punti del 2003 è passato
ai 1.920 di oggi, con un balzo del 66% nel 2006. L’umiliazione subìta
con il default dell’agosto 1998 per non aver onorato un debito da 40 miliardi
di dollari, è un ricordo: ora Mosca, forte dei ricchi introiti
assicurati da gas e petrolio, punta entro un biennio a scavalcare Italia,
Francia e Regno Uniti nella classifica del Pil mondiale, insediandosi al
sesto posto, mentre la stabilità politica e il miglioramento del
debito pubblico stanno attirando sempre più investimenti
internazionali. Un fenomeno che interessa anche la Polonia, dove i flussi di
capitali stranieri sono stati pari l’anno scorso a 10 miliardi di dollari,
consentendo alla Borsa di Varsavia di guadagnare il 25%. Altra benzina per
effettuare un sorpasso storico.
Da Il Denaro 29-3-2007 Fmi: Cresce il peso dell'euro , dollaro più forte nei commerci
Mercati mondo Fmi: Cresce il peso dell'euro , dollaro più forte nei commerci A otto anni dalla sua introduzione l'euro è "riuscito a qualificarsi come la seconda moneta più importante e solida a livello internazionale, realizzando un grande successo dal punto di vista tecnico". Tuttavia, per acquisire un'influenza ancora più vasta, posizionandosi come vera "moneta di scambio globale al di là delle immediate vicinanze della eurozona", l'euro dovrà affrontare nuove sfide. E' questa la valutazione contenuta in un'analisi del Fondo monetario internazionale pubblicata sulla rivista specializzata interna "Finance & development". Secondo lo studio, la "preminenza acquisita dall'euro è fuori discussione e, nonostante la Banca centrale europea non stia attivamente cercando di promuoverne l'uso all'estero, il suo ruolo continua a crescere". Facendo il punto dell'attuale utilizzo dell'euro, la ricerca osserva come la moneta del Vecchio Continente ha registrato i progressi più ampi nel campo delle transazioni finanziarie internazionali, ma non nei commerci. A livello globale-ufficiale, l'euro è oggi usato come moneta-ancora da un terzo dei Paesi del mondo, tra cui gli Stati africani di lingua francese e altri aspiranti membri dell'Ue, mentre due terzi dei Paesi continuano a utilizzare il dollaro. Ma l'euro ha sorpassato il dollaro come moneta principale per l'emissione di obbligazioni internazionali. Per quanto riguarda i mercati finanziari, l'euro risulta la seconda moneta dopo il dollaro e l'abbinata dollaro-euro è la più usata negli scambi. Ma per estendere i suoi confini di influenza, sostiene il rapporto, l'euro deve superare ancora una serie di scogli. Anzitutto è necessaria una crescita economica di Eurolandia che attragga investimenti; i mercati finanziari europei devono quindi integrarsi compiutamente, rimuovendo barriere regolamentari e di movimenti; sarebbe importante inoltre che l'Europa aumentasse la sua capacità di parlare con una voce sola nell'arena internazionale, anche su temi finanziari. A dare un'impronta decisiva al futuro dell'euro sarà anche, predice l'analisi, il possibile futuro riequilibrio del risparmio e degli investimenti globali: "Un improvviso allontanamento dai beni Usa nelle preferenze dei portafogli internazionali potrebbe a esempio indurre una forte discesa del dollaro e spingere l'uso dell'euro". 29-03-2007.
Da Caffeeuropa.it 16-3-2007 Economia: dai mercati nasceva l’Unione. Marc Guillaume con Luca Paltrinieri
Il cammino
dell’Unione europea è iniziato dall’economia. Ha avuto la concorrenza
e il mercato come parole d’ordine e da qui ha mosso i primi passi nel
dopoguerra. L’idea del Trattato di Roma del ’57 era di creare un mercato
comune per riportare la pace nel continente e scongiurare guerre future. “Fu
un’astuzia geniale per accelerare la storia” dice Marc Guillaume, economista
e sociologo francese, docente universitario, direttore dell’Iris (Institut de
Recherches et d'Informations Socio-économiques) e autore di numerosi volumi.
“Cominciare dall’economia – continua Guillaume – era una buona idea perché
effettivamente c’era il problema di ricostruire, di organizzare, di crescere,
e sappiamo che quando si vuole lo sviluppo economico le regole del mercato e
della concorrenza sono un mezzo efficace. Ma c’era anche l’idea che il solo
punto nel quale potevano incontrarsi dei paesi con storie, culture, religioni
diverse, che uscivano da uno stato di guerra pressoché continua da secoli,
erano le regole del mercato. Questa è stata in fondo l’astuzia di Jean
Monnet, perché se si fosse voluta creare l’Europa attraverso la politica o la
cultura ci sarebbero voluti 50 anni mentre in pochi anni è stato messo
in moto un meccanismo efficiente.”
La Germania del dopoguerra è stata ricostruita seguendo la stessa idea: dopo il dirigismo del nazismo la creazione del mercato doveva in primo luogo essere fonte di legittimità giuridica, consenso e infine sovranità politica. Pensa che il modello tedesco abbia influito nella creazione della comunità economica europea?
L’Europa si
è costruita originariamente intorno all’alleanza franco-tedesca. Penso
che dal punto di vista tedesco questa idea fosse presente ed utile, ma per
Monnet, al contrario, è la concezione inglese, o americana, che
prevale: l’idea che il commercio genera pace o, per dirla con Montesquieu, “ingentilisce
i costumi”. Bisogna ricordare che la Germania ha commerciato con il resto del
mondo fino al 1939, il commercio resiste alla guerra stessa. Ma, come afferma
Michel Foucault, quest’idea è tipica della filosofia inglese ed ispira
tutta la loro visione economica, che si tratti dei “vantaggi comparativi” di
Ricardo o della concezione di Smith: lasciamo sviluppare liberamente
l’economia e controlliamo piuttosto la sfera globale della società.
Monnet, che conosceva bene il mondo anglosassone e proveniva da una famiglia
di commercianti di cognac, cerca di portare quest’idea dell’unità
attraverso il commercio.
D’altronde la stessa Omc era costruita seguendo la legislazione commerciale
americana che pure ha le sue origini nel XVIII secolo. C’è quindi una
grande tradizione anglosassone che ispira almeno una componente essenziale
del mercato comune, l’altra componente era l’idea tedesca della costruzione
della sovranità politica a partire dal mercato.
Arriviamo al 1972, anno della creazione dell’Mtc, il meccanismo che regola i tassi di cambio tra le valute europee che annuncia il passaggio all’euro. Dall’esigenza di avere un mercato comune cosa ha condotto alla progettazione della moneta unica?
Bisogna ricordare che nel 1971 il dollaro viene sganciato dalla convertibilità con l’oro, annullando di fatto gli accordi di Bretton Woods. Il dollaro è la moneta chiave del sistema di cambi mondiale, la moneta che permette agli Stati Uniti di mantenere un deficit considerevole e una situazione di vero e proprio imperialismo monetario: ricordiamo che il Giappone ne fece le spese alle fine degli anni ’80. Certo, la stesse legge dei “35 dollari per oncia” era un po’ fittizia, ma in fondo aveva retto per ben 30 anni, e con il suo annullamento è il sistema mondiale dei cambi e delle quotazioni ad essere compromesso. Dal momento in cui il dollaro era autorizzato a fluttuare ampiamente e gli americani potevano servirsene a scopi di deflazione competitiva, il rischio d’instabilità aumentava esponenzialmente per ogni moneta presa singolarmente: forse meno per il marco, già di più per il franco, considerevolmente per la lira o la peseta. L’intero mercato europeo si trovava così in balia delle politiche monetarie statunitensi: da qui l’idea dell’unità, del riavvicinamento delle valute europee e la definizione di un margine massimo di fluttuazione tra le monete europee, meccanismo che prende il nome di “serpente” perché la curva risultante assomiglia ad un serpente che si muove nel tunnel del margine massimo definito rispetto al dollaro. Insomma, credo che l’Mtc fosse una risposta al pericolo rappresentato dalla politica monetaria statunitense: in fondo cos’è l’euro se non il tentativo di mettere fine al monopolio del dollaro? Certo ne siamo ancora lontani, ma ci muoviamo in questa direzione.
Si può dire che ancora in questa fase la costruzione dell’Europa è puramente economica, come viene concepito e percepito in Francia il cambiamento d’equilibrio tra economia e politica con l’Atto Unico del 1987 e successivamente, nel 1992, con il Trattato di Maastricht?
Mi sembra che negli anni ’80 siano proprio i governi socialisti a giocare la carta del liberismo: sono i socialisti come François Mitterrand e Jacques Delors che attuano una politica liberale, sono loro che spingono la Francia ad accettare certe regole del mercato, fanno insomma del tatcherismo ed reaganismo senza dirlo. Delors, Rocard, Mitterand, in un certo senso Attali, si servono dell’Unione Europea per modernizzare il sistema finanziario e far accettare un po’ più di liberalismo in Francia, ma al tempo stesso c’è il problema di conservare l’ispirazione, tutta francese, ad un modello sociale europeo. Per questo si forma una vera lobby, contraria alle privatizzazioni di Edf, Telecom France e di altre imprese statali, che cerca di far passare in Europa la concezione di un servizio pubblico alla francese. Più in generale direi che tutto il sud Europa, la Francia, la Spagna, forse l’Italia, un po’ meno la Grecia cerca di negoziare questa doppia svolta: da una parte lo sforzo di creare un mercato comune, e dall’altra c’è una sorta di colbertismo europeo, la sensazione sempre più forte di dover difendere la dimensione sociale.
Mi sembra che questa tensione tra dimensione economica e politico-sociale europee sia avvertita in modo molto forte proprio in Francia. A suo avviso potrebbe essere una delle ragioni del “no” al referendum sull’adozione della costituzione europea nel 2005?
Innanzitutto c’è stata una straordinaria incapacità di svelare l’astuzia: l’idea di un mercato comune europeo era in fondo accettabile per la saggezza popolare, ma farne l’essenziale del Trattato e voler mettere in forma di Costituzione un’astuzia del mercato era una doppia provocazione. Di fatto l’accettazione della Costituzione è apparsa come una sorta di sottomissione alle leggi del mercato, mentre il mercato non ha nulla a che vedere con la legge: il mercato è un processo, un insieme di meccanismi che d’altronde, come diceva Foucault, sono stati inventati dallo Stato per delegare in un certo senso la sua potenza economica e sono quindi sempre soggetti ad un insieme di trasformazioni e d’interventi. Foucault avrebbe potuto dire: per mettere in Costituzione il mercato bisogna che ci sia uno Stato europeo. Invece il meccanismo della Commissione Europea è alquanto strano, ad esempio la commissione per la concorrenza, la Dg4, non risponde affatto al principio di sussidiarietà perché legifera in tutti i settori pur di far rispettare le regole della concorrenza. In secondo luogo, non c’è un solo liberalismo ma diversi: c’è un liberalismo colbertista nel quale l’intervento statale è determinante, c’è un liberalismo anglo-americano nel quale lo Stato è secondario (è il sistema delle public utilities), che come abbiamo visto ha impregnato le istituzioni europee. Ora, da parte di una certa corrente socialista, di cui facevo parte assieme a Fabius ed altri, c’era la sensazione che si fosse andati troppo oltre nell’accettazione di un liberalismo esclusivamente legato al mercato che sarebbe stato traumatico per la nostra cultura. Io mi dicevo: così ci stanno imponendo un mercato flaccido, un mercato nel quale non ci sarà più gente capace di dire: “facciamo delle grandi imprese comuni come il Concorde, Airbus, il Cern”. E invece quando si guarda concretamente agli Usa cosa si vede? Che hanno una politica economica colbertista, interventista, protezionista mentre a noi veniva proposta proprio la versione di facciata, le regole del mercato. Per rispettare la concorrenza le commissioni demoliscono ogni politica industriale seria con il pretesto che si tratta di un monopolio: così si rischia di consegnare agli Usa un’Europa indebolita dal liberalismo stesso, un liberalismo non più adatto alla visione mondiale, con il problema della Cina, dell’ambiente, e molti altri ancora.
La Stampa 19-3-2007 Sondaggio condotto dal Financial Times. Cittadini europei, vita peggiora dopo l'ingresso nell'Unione Europea
Ma lo stessa percentuale ritiene che potrebbe andare peggio in caso di uscita dall'Unione Europea
BRUXELLES
Un sondaggio condotto dal Financial Times in Italia, Francia, Spagna,
Germania e Gran Bretagna segnala che il 44% dei cittadini europei pensa che
la loro condizione di vita sia peggiorata dopo l’ingresso nella Ue, ma la
stessa percentuale ritiene che le cose potrebbero andare peggio se il proprio
paese lasciasse l’Unione europea.
All’idea di Europa, il 31% associa il mercato unico, mentre il 20% la
burocrazia e solo il 9% la democrazia o la pace (7%).
A trascinare in alto la percentuale degli scontenti è la Gran Bretagna
con il 52% degli interpellati che pensa che la loro vita sia peggiorata dopo
l’ingresso nella Ue, mentre a fare da contraltare è la Spagna dove la
maggioranza (53%) ritiene che le cose siano andate meglio dopo l’ingresso del
paese nella Ue.
L’Italia, la Germania e la Francia si collocano alla pari, con oltre il 40%
di interpellati che crede che la vita sia peggiorata. Ciò nonostante,
solo il 22% nei cinque paesi ritiene che la situazione potrebbe migliorare
lasciando l’Ue, a fronte di un 40% che pensa che sarebbe peggio uscire.
L’ipotesi che la Ue debba fare di più in diversi settori raccoglie un
forte sostegno. In particolare, il 72% ritiene che l’Unione europea debba
intervenire maggiormente nelle politiche ambientali, soprattutto nella lotta
al cambiamento climatico. Il 69% chiede più interventi comuni per
l’energia, il 67% nella lotta al crimine e il 64% per la sicurezza. Molto
più fredda, invece, la reazione all’ipotesi di un esercito europeo,
caldeggiato solo dal 38% degli interpellati (39% i contrari), anche se il 49%
ritiene positivo una maggiore presenza dell’Unione europea in politica
estera. Il sondaggio registra anche un ampio supporto ad una maggiore
armonizzazione finanziaria e commerciale tra Ue e Usa.
Realizzata su un totale di 6.772 adulti (1.053 italiani) in occasione dei 50
anni del Trattato di Roma che ha sancito la nascita dell’unità
europea, l’inchiesta rileva anche che il 35% pensa che la Costituzione possa
avere un impatto positivo, contro il 27% convinto dell’opposto. La maggior
parte delle risposte negative arriva anche in questo caso dagli inglesi che
al 48% bocciano la carta costituzionale.
Il Sole 24 Ore Plus 17-3-2007 DIETRO I NUMERI di Fabrizio Galimberti
I vantaggi della forza dell'euro A vere tante valute nel mondo è bello per chi colleziona banconote con tanti disegni e colori, ma è un fastidio per gli scambi internazionali: bisogna comprare e vendere usando diverse monete, con incertezze sui movimenti dei cambi e costi delle coperture valutarie. Per questo nel mondo si è gradualmente affermata l'usanza di comprare e vendere ricorrendo a un ristretto numero di monete: di gran lunga dominante è stato finora il dollaro. La tabella mostra quale dovrebbe essere la quota del dollaro nelle esportazioni di ogni Paese: in teoria, dovrebbe equivalere alle quota delle esportazioni di quel Paese verso gli Usa. A questa quota "teorica" si contrappone la quota "effettiva", quella parte delle esportazioni del Paese fatturata in dollari. Come si vede, la differenza è sostanziale: la quota effettiva è sempre, e di molto, superiore alla quota teorica. Questa situazione, che si ripete con qualche variante anche a proposito delle transazioni di portafoglio, porta dei vantaggi agli Usa. Il fatto che la propria valuta sia usata internazionalmente procura il vantaggio del signoraggio, il "primo uso" della moneta, ed è un vantaggio che cresce con il tasso di inflazione: emettere moneta è come emettere un prestito a tasso d'interesse zero, e il vantaggio di chi emette moneta è chiaramente maggiore se il tasso di inflazione è elevato. O ra, con l'euro che si pone come alternativa al dollaro, questi vantaggi possono essere sottratti agli Usa e andare a beneficiare i paesi dell'euro. Un recente studio del Fondo monetario (On the Welfare Benefits of an International Currency, di Prakash Kannan WP/07/49) ha calcolato quali possono essere i vantaggi in capo all'euro da signoraggio, riduzione di costi di transazione e apprezzamento: i risultati sono grossi, dall'1% al 2% dei consumi privati. Peccato che si nascondano nella macroeconomia e non si possano vedere nel portafoglio.
Da La Repubblica - Lettera finanziaria 27-2-2007 Euro sempre più appetibile per le Banche centrali
Gli istituti bancari di tutto il mondo hanno ridotto la percentuale di riserve in dollari alla fine dell'anno scorso, a beneficio di euro e sterlina, e hanno cercato strumenti di investimento più redditizi rispetto ai tradizionali t-bonds, i buoni del tesoro Usa. MILANO - Le banche centrali a livello planetario hanno ridotto la percentuale di riserve in dollari alla fine dell'anno scorso, a beneficio di euro e sterlina, e hanno cercato strumenti di investimento più redditizi rispetto ai tradizionali t-bonds, i buoni del tesoro Usa. E' quanto emerge da un'inchiesta condotta nel quarto trimestre 2006 dalla rivista specializzata 'central banking'. Il dollaro resta, comunque, la valuta di riserva privilegiata a livello mondiale. A rispondere al questionario di 'central banking' sono state 47 banche centrali (su un totale di 129 interpellate) che controllano 1.538 Miliardi di dollari in riserve, pari al 30% del totale mondiale. Di queste, 21, con riserve per 630 miliardi di dollari, hanno detto di aver aumentato la quota in euro, di cui 15 a scapito del dollaro, mentre solo 7 l'hanno ridotta. Del totale, 19 hanno, invece, detto di aver ridotto la quota in dollari, mentre 10 le hanno aumentate nei dodici mesi a tutto agosto 2006. Il dollaro resta, comunque, la valuta privilegiata di riserva: secondo i dati dell'fmi, nel terzo trimestre 2006 il 66% del totale era in dollari contro un 25% in euro (65% e 25,5% rispettivamente nel secondo trimestre). Secondo 'central banking', a rafforzare le posizioni in euro a scapito del biglietto verde sono state, soprattutto, le banche centrali nella periferia dell'eurozona e, in misura minore, in asia (le banche centrali di asia e giappone che, con il 30% del totale, sono le più 'ricche' al mondo, non avrebbero risposto al questionario). Dopo l'euro, i banchieri centrali hanno spostato riserve anche verso la sterlina britannica (9 banche centrali hanno aumentato la quota e 4 l'hanno diminuita), mentre lo yen si conferma al quarto posto. Dopo anni di flessioni, l'oro sta ritrovando un ruolo importante con il 63% dei banchieri interpellati che lo ritiene sempre più "attraente" alla luce del recente aumento dei prezzi e della crescente liquidità del mercato. L'inchiesta sottolinea, inoltre, come la maggior parte delle banche centrali (69% del totale) sia andata alla ricerca per i prossimi 12-18 mesi di un migliore rendimento, rispetto al tradizionale strumento dei t-bonds, piuttosto che di un investimento sicuro (20%) alla luce dei rischi (rallentamento negli usa, squilibri globali, volatilità del greggio, aumento delle tensioni geopolitiche e attivismo dei fondi speculativi). Inoltre, i banchieri centrali sono praticamente concordi nel prevedere un continuo aumento delle riserve (+70% dal 2004 a oggi) che viene stimato tra il 20% e il 59% nei prossimi tre anni. (26 febbraio 2007).
Gli istituti bancari di tutto il mondo hanno ridotto la
percentuale di riserve in dollari alla fine dell'anno scorso, a beneficio di
euro e sterlina, e hanno cercato strumenti di investimento più
redditizi rispetto ai tradizionali t-bonds, i buoni del tesoro Usa. M
Da Borsa e Finanza 24-2-2007 Il bond piace, ma solo in euro. Gabriele Petrucciani
FONDI & RISPARMIO Il bond piace, ma solo in euro Il mercato americano ha un minore appeal perché le incognite sono tante. A partire dal rischio di cambio. E la valuta europea nel breve periodo potrebbe raggiungere anche 1,35 dollari di Gabriele Petrucciani - 24-02-2007 STRATEGIE OBBLIGAZIONARIE/1 Negli ultimi due anni un unico motto ha guidato l'esercito dei gestori: azioni e solo azioni. Per dirla in breve, l'equity è stata sempre considerata l'unica asset class degna di nota e in grado di fornire ritorni interessanti all'investitore. Ma ora, dopo quattro anni di rialzo ininterrotto delle Borse, lo scenario sta cambiando. O meglio, potrebbe cambiare. A favore del mercato obbligazionario, dove si comincia a intravedere qualche spiraglio di luce. In Europa, ma anche in America. Il condizionale però è d'obbligo. "Anche perché ci sono ancora dei fattori di rischio - fa notare Luca Mezzomo, responsabile ricerca obbligazionaria di Intesa Sanpaolo - Soprattutto per gli investimenti in dollari, dove pesa forte la variabile cambio". Insomma, se da un lato è vero che si cominciano a intravedere condizioni interessanti per investire nell'obbligazionario, dall'altro è altrettanto vero che bisogna sempre stare allerta. EUROPA O AMERICA? L'opinione dei gestori interpellati da Borsa & Finanza è unanime. In questo momento il mercato più interessante è sicuramente l'Europa. "A noi piace soprattutto la parte breve della curva dei rendimenti - spiega Luigi Romano, responsabile obbligazionario di Monte Paschi Asset Management - Per intenderci meglio, le scadenze due-cinque anni. Il mercato sconta già due rialzi pieni dei tassi di interesse". Il primo, di 25 punti base, dovrebbe esserci il prossimo 8 marzo. E un altro, sempre di 25 punti base, è atteso nel mese di giugno, con il costo del denaro, dunque, che dovrebbe salire fino al 4 per cento. "Il premio per il rischio negli investimenti sulla parte lunga della curva non è ben remunerato - aggiunge Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest - Basti pensare che un Btp 2015 oggi rende il 4,18%, mentre un Btp scadenza 2008 rende il 3,99 per cento. Insomma, uno 0,18% di differenza che non è abbastanza per coprire il rischio di un investimento a lungo termine". Per ora, quindi, i gestori hanno la parte più consistente del portafoglio obbligazionario investita in Europa, con una duration che oscilla tra due e cinque anni. L'INCOGNITA CAMBIO. Ma nonostante alcune incognite, anche il mercato obbligazionario americano sembra crescere di interesse. Sotto il profilo del rendimento (la parte breve della curva rende attualmente il 5,25%), ma anche per puntare su un incremento dei prezzi del reddito fisso a breve scadenza. "È una strategia che stiamo valutando - sottolinea Federici - ma i tempi non sono ancora maturi. Non abbiamo alcuna certezza su quando la Fed taglierà il costo del denaro. Per ora il consensus prevede un'inversione di tendenza della politica monetaria nella seconda metà del 2007. E anche noi siamo convinti che prima di cominciare a tagliare i tassi Ben Bernanke, numero uno della Federal Reserve, aspetterà di vedere se la politica restrittiva finora adottata ha prodotto i suoi effetti". In termini di rendimento, invece, l'America è sicuramente più attraente rispetto all'Europa, ma il rischio di cambio consiglia ai gestori di stare lontano dagli States. Almeno per ora. "Personalmente non sono positivo sul futuro del dollaro - commenta Romano - Di conseguenza nel nostro portafoglio siamo sottopesati sul reddito fisso americano". D'altronde basta dare uno sguardo alle performance degli ultimi 12 mesi, con l'euro che si è apprezzato del 12% circa sulla valuta statunitense, per capire quanto la debolezza del dollaro possa incidere in termini di rendimento. Il migliore fondo a un anno, l'Ubs Dynamic Floor, ha guadagnato in dollari l'8,54%, mentre il Jpm Us Bond ha ottenuto un rendimento del 5,75 per cento. Ma considerando l'andamento del cambio le performance scendono vertiginosamente al -1,40% per l'Ubs Dynamic Floor e al -4,06% per il Jpm Us Bond. "Un problema grave quello del cambio - ammonisce Mezzomo - che non va sottovalutato. Siamo convinti infatti che nel breve periodo l'euro possa continuare ad apprezzarsi nei confronti del biglietto verde, fino a raggiungere un massimo in area 1,34-1,35". Il rischio, dunque, è che l'effetto cambio possa mangiarsi tutto il sovrarendimento offerto dai bond Usa. "Inoltre - continua Federici - il differenziale tassi non è neanche tale da poter giustificare una copertura del rischio valutario. Fuori dall'America, dunque, e fuori anche dalle piazze emergenti, a causa degli spread troppo ridotti". Negli ultimi quattro anni il bond emergente ha offerto un sovrarendimento rispetto ai mercati più maturi di circa il 4 per cento. Oggi, questo extrarendimento si aggira intorno all'1,70%, "uno spread che non giustifica il rischio di un investimento in titoli cosiddetti hi- yield", conclude Federici. Insomma, per i gestori ci sono le condizioni per un ritorno all'investimento obbligazionario. Ma in questo momento c'è una sola piazza su cui puntare. L'Europa.
FONDI & RISPARMIO. Il bond piace, ma solo in euro.
Il mercato americano ha un minore appeal perché le incognite sono tante. A partire dal rischio di cambio. E la valuta europea nel breve periodo potrebbe raggiungere anche 1,35 dollari - 24-02-2007
STRATEGIE OBBLIGAZIONARIE/1 Negli ultimi due anni un unico motto ha guidato l'esercito dei gestori: azioni e solo azioni. Per dirla in breve, l'equity è stata sempre considerata l'unica asset class degna di nota e in grado di fornire ritorni interessanti all'investitore. Ma ora, dopo quattro anni di rialzo ininterrotto delle Borse, lo scenario sta cambiando. O meglio, potrebbe cambiare. A favore del mercato obbligazionario, dove si comincia a intravedere qualche spiraglio di luce. In Europa, ma anche in America. Il condizionale però è d'obbligo. "Anche perché ci sono ancora dei fattori di rischio - fa notare Luca Mezzomo, responsabile ricerca obbligazionaria di Intesa Sanpaolo - Soprattutto per gli investimenti in dollari, dove pesa forte la variabile cambio". Insomma, se da un lato è vero che si cominciano a intravedere condizioni interessanti per investire nell'obbligazionario, dall'altro è altrettanto vero che bisogna sempre stare allerta.
EUROPA O AMERICA? L'opinione dei gestori interpellati da Borsa & Finanza è unanime. In questo momento il mercato più interessante è sicuramente l'Europa. "A noi piace soprattutto la parte breve della curva dei rendimenti - spiega Luigi Romano, responsabile obbligazionario di Monte Paschi Asset Management - Per intenderci meglio, le scadenze due-cinque anni. Il mercato sconta già due rialzi pieni dei tassi di interesse". Il primo, di 25 punti base, dovrebbe esserci il prossimo 8 marzo. E un altro, sempre di 25 punti base, è atteso nel mese di giugno, con il costo del denaro, dunque, che dovrebbe salire fino al 4 per cento. "Il premio per il rischio negli investimenti sulla parte lunga della curva non è ben remunerato - aggiunge Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest - Basti pensare che un Btp 2015 oggi rende il 4,18%, mentre un Btp scadenza 2008 rende il 3,99 per cento. Insomma, uno 0,18% di differenza che non è abbastanza per coprire il rischio di un investimento a lungo termine". Per ora, quindi, i gestori hanno la parte più consistente del portafoglio obbligazionario investita in Europa, con una duration che oscilla tra due e cinque anni.
L'INCOGNITA CAMBIO. Ma nonostante alcune incognite, anche il mercato obbligazionario americano sembra crescere di interesse. Sotto il profilo del rendimento (la parte breve della curva rende attualmente il 5,25%), ma anche per puntare su un incremento dei prezzi del reddito fisso a breve scadenza. "È una strategia che stiamo valutando - sottolinea Federici - ma i tempi non sono ancora maturi. Non abbiamo alcuna certezza su quando la Fed taglierà il costo del denaro. Per ora il consensus prevede un'inversione di tendenza della politica monetaria nella seconda metà del 2007. E anche noi siamo convinti che prima di cominciare a tagliare i tassi Ben Bernanke, numero uno della Federal Reserve, aspetterà di vedere se la politica restrittiva finora adottata ha prodotto i suoi effetti". In termini di rendimento, invece, l'America è sicuramente più attraente rispetto all'Europa, ma il rischio di cambio consiglia ai gestori di stare lontano dagli States. Almeno per ora. "Personalmente non sono positivo sul futuro del dollaro - commenta Romano - Di conseguenza nel nostro portafoglio siamo sottopesati sul reddito fisso americano". D'altronde basta dare uno sguardo alle performance degli ultimi 12 mesi, con l'euro che si è apprezzato del 12% circa sulla valuta statunitense, per capire quanto la debolezza del dollaro possa incidere in termini di rendimento. Il migliore fondo a un anno, l'Ubs Dynamic Floor, ha guadagnato in dollari l'8,54%, mentre il Jpm Us Bond ha ottenuto un rendimento del 5,75 per cento. Ma considerando l'andamento del cambio le performance scendono vertiginosamente al -1,40% per l'Ubs Dynamic Floor e al -4,06% per il Jpm Us Bond. "Un problema grave quello del cambio - ammonisce Mezzomo - che non va sottovalutato. Siamo convinti infatti che nel breve periodo l'euro possa continuare ad apprezzarsi nei confronti del biglietto verde, fino a raggiungere un massimo in area 1,34-1,35". Il rischio, dunque, è che l'effetto cambio possa mangiarsi tutto il sovrarendimento offerto dai bond Usa. "Inoltre - continua Federici - il differenziale tassi non è neanche tale da poter giustificare una copertura del rischio valutario. Fuori dall'America, dunque, e fuori anche dalle piazze emergenti, a causa degli spread troppo ridotti". Negli ultimi quattro anni il bond emergente ha offerto un sovrarendimento rispetto ai mercati più maturi di circa il 4 per cento. Oggi, questo extrarendimento si aggira intorno all'1,70%, "uno spread che non giustifica il rischio di un investimento in titoli cosiddetti hi- yield", conclude Federici. Insomma, per i gestori ci sono le condizioni per un ritorno all'investimento obbligazionario. Ma in questo momento c'è una sola piazza su cui puntare. L'Europa.
Da trend-online.it 13-2-2007 Euro forte contro dollaro. Probabile rialzo dei tassi in Europa a marzo
L’euro torna ad avvicinarsi al limite di 1,30 contro
dollaro. All'apertura delle piazze valutarie del Vecchio Continente la moneta
unica viene scambiata a 1,2990 rispetto al biglietto verde, in rialzo sia
rispetto alle ultime rilevazioni della Banca Centrale Europea (1,2955) sia
rispetto ai valori registrati in tarda serata di ieri a New York (1,2965).
Scende la divisa europea rispetto alla moneta giapponese, l’euro vale 157,80
yen dai 157,90 yen delle indicative della Bce della giornata scorsa. Il
biglietto verde perde terreno rispetto alla valuta nipponica, il rapporto di
cambio tra dollaro/yen quota, infatti, in area 121,45 da 121,95 di ieri.
L’apprezzamento della moneta unica nei confronti del dollaro è legato,
in prevalenza, all'aumento delle attese degli operatori dei mercati valutari
su un imminente rialzo dei tassi d’interesse da parte della BCE. Gli
investitori ritengono che il Consiglio Direttivo dell'istituto di Francoforte
incrementerà il costo del denaro nel meeting dell'8 marzo, portando i
tassi di riferimento nel Vecchio Continente al 3,75%. Il presidente della
BCE, Jean Claude Trichet ha, infatti, dichiarato che il principale obiettivo
della politica monetaria della banca è il controllo dell'inflazione.
A confermare questo scenario sono le aspettative positive sull'andamento
dell'economia europea, in grado, quindi, di sostenere delle strategie
monetarie restrittiva. In mattinata è stato reso noto che il prodotto
interno lordo del quarto trimestre in Germania è salito dello 0,9%,
trainato dalla forza della domanda estera e di quella interna, superiore alle
stime degli analisti, che si aspettavano un incremento dello 0,6%.
Incoraggianti anche le previsioni sull'indice ZEW che sarà annunciato
in tarda mattinata. L’indice ZEW dovrebbe essere salito nel mese di febbraio
a quota 5 punti dai -3,6 del mese precedente.
La giornata odierna si presenta abbastanza ricca d’appuntamenti
macroeconomici di particolare rilevanza. Gli addetti ai lavori attendono
dall'Europa alle 11,00 italiane l’indice Zew tedesco di febbraio, il PIL del
quarto trimestre e la produzione industriale di dicembre della zona Euro;
dagli Stati Uniti alle 14,30 la bilancia commerciale di dicembre
Da Reuters 6-2-2007 Giappone, min Finanze Omi parlerà a G7 di ripresa economica
TOKYO, 6 febbraio (Reuters) - Il ministro delle Finanze giapponese Koji Omi annuncia che informerà i colleghi del Gruppo dei Sette che si incontrano venerdì e sabato prossimo che l'economia nipponica è in fase di ripresa in un clima di prezzi stabili.
"Mi dicono che una riunione G7 è la sede per discutere di vari argomenti. Non so di cosa si discuterà questa volta... vorrei dire nel corso dell'incontro che l'economia giapponese si sta riprendendo sullo sfondo di prezzi stabili" dice alla stampa.
Di fatto sfuggente la risposta del ministro sulla richiesta europea di mettere la svalutazione dello yen tra i temi in agenda della prossima riunione.
"Credo si discuterà un po' di argomenti di cui ha parlato la stampa ma prediligo uno scambio di opinioni aperto e basato su quanto ho appena spiegato" dice.
Ministri finanziari e banchieri centrali G7 si incontrano a Essen, in Germania, venerdì e sabato prossimo. Omi lascerà Tokyo venerdì per partecipare ai lavori.
Numerosi esponenti del mondo politico europeo hanno espresso malumore di fronte al deprezzamento della divisa nipponica, da tempo ormai a ridosso del minimo di tutti i tempi contro euro.
E' stata ieri la volta del presidente del consiglio Romano Prodi, che ha definito da Lussemburgo la correzione dello yen un "problema grave" anche di fronte alla debolezza del dollaro sollecitando un'azione comune dell'Europa sui temi valutari.
I timori europei sembrano tuttavia finora aver avuto scarsa risonanza negli Usa, in Canada e nello stesso Giappone.
Le autorità nipponiche hanno invece finora tentato di minimizzare le aspettative che il tasso di cambio dello yen figuri tra i temi chiave della prossima riunione.
Da La Repubblica 18-1-2007 Bernanke avverte: crisi in arrivo se non si
riduce il deficit
M
Lo ha detto oggi il presidente della Federal Reserve, Ben S. Bernanke, nel suo intervento all'audizione presso la Commissione bilancio del Senato. "Se non adotteremo importanti misure in tempi rapidi - ha detto - l'economia americana potrebbe risentirne seriamente".
"Se non si prendono misure concrete e veloci, l'economia statunitense potrebbe essere seriamente indebolita", ha detto Bernanke parlando a meno di tre settimane di distanza dalla proposta, avanzata dal Presidente George W. Bush, di portare il bilancio degli Usa in equilibrio entro il 2012.
E' la prima volta che Bernanke affronta in modo così deciso il tema delle grandi sfide che attendono gli Stati Uniti ora che la baby-boom generation (che conta 78 milioni di individui) inizia a entrare tra le fila dei pensionati. A meno di un drastico cambiamento di policy, ha detto Bernanke, il debito statale rischia di salire a livelli difficilmente sostenibili. Questo farebbe salire i tassi di interesse con conseguenze negative sia per i consumatori che per le aziende. "Si potrebbe instaurare un ciclo vizioso in cui grandi deficit portano a un'altrettanto rapida crescita del debito e degli interessi e dunque in ultima analisi a un ulteriore peggioramento dei conti".
Lo scorso anno il deficit federale si è assestato a quota 248 miliardi di dollari, il valore più basso degli ultimi quattro anni, ma le previsioni sono per un peggioramento già nel 2007. Lo stesso Bernanke ha definito il miglioramento del 2006 come "la calma prima della tempesta". Per il 2007 il Congresso prevede un deficit di 286 miliardi di dollari e la casa bianca un disavanzo ancora maggiore, pari a 339 miliardi.
Secondo Bernanke, non basta sperare nella tenuta dell'economia per risolvere il problema. Serve al contrario che Congresso e Casa Bianca prendano decisioni difficili, anche se il presidente della Fed si è ben guardato dal suggerire possibili soluzioni. "Alla fine la decisione fondamentale che il Congresso, l'amministrazione e il popolo americano devono prendere riguarda la fetta di risorse economiche nazionali da riservare ai programmi federali come social security, medicare e medicaid".
Il presidente Bush
ha cercato di varare una riforma del sistema previdenziale nel 2005 ma la sua
proposta è stata bocciata sia dai democratici che dai repubblicani.
Bernanke non ha fatto alcun cenno nella sua testimonianza al congresso sulle
prossime decisioni di politica monetaria della Fed.
Nel bollettino di gennaio l'Eurotower conferma la
possibilità
di un nuovo rialzo dei tassi nella prossima riunione dell'8 marzo
FRANCOFORTE - Nel bollettino di
gennaio, diffuso stamane, la Banca Centrale Europea si dice pronta "a
intervenire con tempestività e fermezza per assicurare la
stabilità dei prezzi nel medio periodo". L'Istituto di
Francoforte conferma così di fatto la possibilità di un nuovo
rialzo dei tassi di interesse, peraltro ampiamente atteso dagli analisti,
nella prossima riunione, fissata per l'8 marzo. Attualmente i tassi di
riferimento sono al 3,50 per cento.
La necessità di un eventuale nuovo rialzo, spiegano gli economisti
della Bce, è collegata alle attuali tendenze inflazionistiche diffuse
nei Paesi europei. L'inflazione dell'area euro, si legge infatti nel
bollettino, dovrebbe "oscillare intorno al 2% nell'anno in corso e nel
prossimo". Ma Francoforte ritiene "che le prospettive per
l'andamento dei prezzi restino soggette a rischi al rialzo, derivanti in
particolare da una trasmissione dei passati rincari del greggio ai prezzi al
consumo superiore al previsto, da ulteriori aumenti dei prezzi amministrati e
delle imposte indirette" e "da possibili nuovi rincari del petrolio".
E quindi, oltre ad annunciare "interventi fermi e
tempestivi", la Bce invita alla moderazione salariale. "Tenuto
conto del favorevole ritmo di crescita del pil negli ultimi trimestri e
dell'evoluzione positiva del mercato del lavoro, la dinamica salariale
potrebbe risultare più vigorosa rispetto alle attese correnti",
avverte l'Eurotower. Da qui dunque l'invito alle parti sociali a
"mostrare senso di responsabilità" con accordi salariali
"che tengano conto dell'andamento della produttività ma anche del
livello tuttora elevato della disoccupazione e delle condizioni di
competitività di prezzo".
In generale la Bce, segnalando la presenza di rischi al rialzo nel medio
termine, sottolinea l'importanza di "seguire con molta attenzione tutti
gli sviluppi per evitare che si concretizzino rischi per la stabilità
dei prezzi nel medio periodo". "In tal modo - conclude Francoforte
- le aspettative di inflazione a medio-lungo nell'area dell'euro potranno
restare saldamente ancorate a livelli coerenti con la stabilità dei
prezzi".
Per il resto, la Bce invita per l'ennesima volta i governi europei a
utilizzare questo momento di crescita per avviare le riforme strutturali
necessarie "a rafforzare l'integrazione dei mercati, attenuare le
rigidità dei mercati del lavoro e aumentare la flessibilità
salariale per continuare a promuovere la crescita e la creazione di nuovi
posti di lavoro".
Inoltre la Bce invita a "un ulteriore miglioramento dell'utilizzo delle
forze di lavoro nell'area", attraverso "la prosecuzione delle
riforme tributarie e previdenziali, ivi compresi una minore imposizione
fiscale sul lavoro e correzioni dei sussidi al reddito corrisposti ai
disoccupati, laddove questi riducono gli incentivi alla ricerca di un posto
di lavoro". Gli esperti di Francoforte ricordano che già altri
paesi dell'area dell'euro hanno agito in tal senso, e l'età media del
pensionamento è ora arrivata a 60,7 anni. Ma per la Bce è
necessario anche aumentare la flessibilità: "Accordi di lavoro
flessibile - si legge nel Bollettino - possono aumentare l'offerta di
lavoro".
(18
gennaio 2007)Da Almanacco della scienza (almanacco.rm.cnr.it)
L'Europa sotto la lente del Cnr. L'euro? Conviene, ma nessuno lo sa
Il processo di integrazione economica europea si è
articolato in 5 grandi fasi. La prima riguarda l’eliminazione dei dazi
interni, avvenuta tra il 1957 ed il 1968. La successiva, la creazione
dell’unione doganale europea (1968) e del mercato unico europeo (1992). La
quarta fase dell’integrazione è quella della moneta unica, realizzata
nel 1999, che favorisce gli scambi tra i paesi membri del club dell’euro (che
dal primo gennaio 2007 è salito a 13, con l’ingresso della Slovenia avvenuto
nell’ambito della quinta fase, l’allargamento dell’Unione Europea ai paesi
dell’Est).
“Le imprese e i consumatori che trattano con gli operatori appartenenti
all’Unione economica e monetaria non subiscono più il rischio della
fluttuazione del cambio e i costi bancari per gestire la valuta estera, a
tutto vantaggio dell’efficienza economica (minori costi) e dello sviluppo
(maggiori scambi)”, spiega Giampaolo Vitali, ricercatore dell’Istituto di
ricerca sull’impresa e lo sviluppo (Ceris) del Cnr e segretario del Gei-Gruppo
economisti d’impresa.
“Con l’integrazione economica, poi, l’orizzonte di riferimento di imprese che
operavano quasi esclusivamente sul mercato nazionale, e in maggioranza sul
semplice mercato locale-regionale, si dischiude all’intero del grande mercato
comune europeo, comprendente milioni di consumatori che aumentano
considerevolmente con il recente allargamento ad Est dell’Unione europea.
Anche i consumatori hanno forti benefici dall’integrazione: il più
importante è quello di poter acquistare le merci e i servizi dai
produttori più efficienti, che offrono prodotti a prezzi minori e/o
qualità maggiori”.
Eppure, questi benefici sono stati messi in ombra da un generale
‘europessimismo’ dei cittadini e dei media, dovuto al processo inflattivo
attivato dalla moneta unica. “In effetti, la presunzione che il semestre
iniziale col doppio prezzo bastasse si è rivelata infondata, il
mercato ha dimostrato di avere memoria corta e almeno alcuni prodotti e
servizi sono notevolmente aumentati di prezzo”.
E c’è un’altra ragione che dovrebbe farci sentire più
‘orgogliosi’ del nostro euro, cioè il suo ormai affermato primato
planetario. “Gli euro, in cinque anni, hanno battuto i dollari come banconote
più usate al mondo. Il volume della valuta europea in circolazione ha
sorpassato quello statunitense, toccando quota 610 miliardi. Gli euro
circolanti sono quasi triplicati rispetto ai 221 miliardi messi in
circolazione nel gennaio
Che l’Europa se la passi meglio di come a volte appare, peraltro, lo dimostra
anche il boom di quotazioni che ha portato le Borse del Vecchio Continente a
‘doppiare’ Wall Street grazie all’ingresso di ben 651 matricole durante il
2006, 21 delle quali a Piazza Affari. Il controvalore complessivo è di
66 miliardi di euro, contro gli appena 36 miliardi dei 224 debutti negli
Stati Uniti.
Da swissinfo.org (16-1-2007) Un'isola
in un mare di euro. Il franco svizzero difende la sua supremazia sul
territorio elvetico (Keystone)
Il franco vittima delle sue virtù. Nuovo giro di vite della banca centrale
Da ormai cinque anni la Svizzera è completamente circondata dalla zona euro, il gigante valutario che coinvolge gran parte dell'Unione europea. E la convivenza funziona.
L'euro è entrato nel quotidiano degli svizzeri senza stravolgere l'economia locale ed il suo rapporto con il franco è più stabile rispetto agli scossoni che caratterizzano il passato
All'epoca, numerosi economisti lo avevano definito "uno
degli avvenimenti economici più importanti della storia
d'Europa".
L'entrata in scena dell'euro, che il 1. giugno 2002 aveva rimpiazzato le
valute nazionali di 12 paesi europei, ha in effetti segnato un'importante
svolta nel processo di costruzione comunitario.
Dopo un titubante processo trentennale, l'Europa unita, fino ad allora un
concetto astratto e lontano dalla gente comune, si faceva palpabile ed
entrava prepotentemente nella vita di 300 milioni di cittadini sotto forma di
una moneta unica.
La tappa ha avuto conseguenze importanti anche per "l'isola"
elvetica nel cuore dell'Europa. Crocevia dei transiti, destinazione
turistica, centro finanziario e paese esportatore, la Svizzera ha in effetti
dovuto fare i conti immediatamente con la nuova valuta.
Oggi, a cinque anni di distanza, l'utilizzo di euro è
sempre più comune anche nella Confederazione. Molti negozi e
praticamente tutti gli hotel del paese accettano pagamenti nella valuta
europea. Sono nel contempo sempre di più gli svizzeri che tengono
anche euro nel borsellino, per la spesa oltre frontiera o in previsione della
prossima vacanza nel continente.
"Ma nel paese il franco ha chiaramente mantenuto la sua
supremazia", dice a swissinfo Jérôme Schupp, analista e responsabile
delle ricerche presso la Banca Syz di Ginevra. "Non si può dunque
parlare di un'economia svizzera caratterizzata da due valute parallele".
Perché la valuta europea minacciasse il franco sul suo territorio, notava la
Banca nazionale svizzera (BNS) in un recente rapporto, occorrerebbe che
l'euro fosse la divisa di riferimento anche per importanti contratti di
lavoro, di credito o di affitto. Tuttavia, sottolinea la BNS, tali contratti
continuano ad essere conclusi quasi esclusivamente in franchi svizzeri.
"Anche per quel che riguarda il settore finanziario, l'impatto è
stato significativo ma non rivoluzionario", prosegue Schupp.
"È però vero che l'euro ha guadagnato credibilità
ed ha in sostanza ripreso il ruolo che fu del marco tedesco".
Mentre in molti paesi europei (Italia, Francia e Germania su
tutti) l'euro ha suscitato (e continua a suscitare) più mugugni che
applausi, inizialmente soprattutto a causa dei suoi effetti inflazionistici,
l'economia e la finanza elvetiche hanno invece beneficiato della situazione.
Non soltanto per la semplificazione che ne è derivata.
Da una parte la relativa stabilità tra euro e franco ha sostituito un
quadro valutario precedentemente composto anche da divise molto più
"ballerine", come la lira italiana, la peseta spagnola o il franco
francese.
Per un'economia come quella elvetica, molto orientata all'esportazione verso
i paesi dell'Unione europea, la stabilità (soprattutto se si
considerano i valori attuali, con un franco "debole" nei confronti
dell'euro) è una vera e propria manna.
"La sparizione di numerose divise europee, convolate nell'euro, ha
inoltre rinforzato il franco svizzero quale strumento di diversificazione sui
mercati finanziari", aggiunge Jérôme Schupp. "Oggi, accanto a
dollaro, euro, yen e sterlina inglese, il franco figura tra le cinque monete
più importanti al mondo".
Timori smentiti per il turismo
"L'euro si è rivelato piuttosto vantaggioso
anche per il settore turistico svizzero", dice a swissinfo Véronique
Kanel, portavoce di Svizzera Turismo. "I paesi della zona euro
continuano ad essere i principali paesi di provenienza dei turisti. E grazie
al corso attuale dell'euro, il 2006 si chiuderà con degli ottimi
risultati".
Nel 2002 non erano pochi gli operatori del settore a temere di perdere parte
degli ospiti europei, a causa dell'indiretto calo della trasparenza del
mercato svizzero (in franchi) a confronto di concorrenti diretti come
l'Austria, dove ormai i prezzi erano espressi in euro.
"In realtà il problema non è mai esistito", conclude
Kanel. "Quando organizziamo delle promozioni in Europa, le nostre
offerte sono ovviamente espresse in euro. E nelle nostre località di
villeggiatura, i turisti possono utilizzare i loro euro per praticamente ogni
tipo di acquisto".
swissinfo, Marzio Pescia
Da Panorama
15/1/2007 All'Italia il supereuro può costare 7 miliardi.
Di Anna Maria Angelone
Mundell, premio Nobel
Nel 2006 il dollaro ha perso circa il 12 per cento del
valore. Conseguenze: un risparmio nell'acquisto di materie prime ma un freno
alla crescita economica
Il dollaro debole fa risparmiare molti soldi agli europei nell'acquisto di
petrolio e materie prime, ma potrebbe frenare la crescita. In che misura?
Fino allo 0,5 per cento in meno di aumento del pil nel 2007 e altrettanto nel
2008.
Sono così quantificate le possibili ricadute sull'economia dell'area
euro di un rallentamento economico negli Usa unito al rafforzamento
dell'euro, secondo una stima dell'istituto di ricerche Isae.
Elaborando i dati, sugli 8.027 miliardi di euro di pil totale dei 13 paesi
euro questo mix di fattori si tradurrebbe in una perdita di 40 miliardi
l'anno. Per l'Italia il costo, in termini di mancata crescita, sarebbe di
7,09 miliardi di euro.
Come tutti i principali istituti di analisi economiche, anche l'Isae prevede
per il 2007 un moderato rallentamento del ciclo internazionale, dovuto per lo
più alla frenata degli Usa e in seconda battuta alla minore crescita
dei consumi in Germania. «Abbiamo fatto una serie di simulazioni, applicando
un nostro modello macroeconomico» spiega Sergio De Nardis, direttore
dell'unità di ricerca di economia nazionale e internazionale dell'Isae
e autore dello studio.
«Ebbene, pur immaginando una crescita americana contenuta ad appena l'1,3-1,5
per cento, l'impatto su Asia ed Europa sarebbe pressoché neutro. Le cose
cambiano se a questo si somma un dollaro che continua a indebolirsi
sull'euro».
L'Isae ipotizza un apprezzamento dell'euro per il
In tal caso, senza un cambio di strategia della Banca centrale europea
rispetto alla politica dei tassi tenuta finora, ci sarebbero forti
ripercussioni sulla crescita del pil: un calo di mezzo punto percentuale che
potrebbe far arretrare quella dell'Italia sotto l'1 per cento.
Primo a mettere in guardia gli europei dalla forza eccessiva della moneta
unica è stato l'economista Robert Mundell, premio Nobel 1999 e docente
alla Columbia University, che ha invitato le autorità europee a
fissare un tetto all'apprezzamento. La salita dell'euro era cominciata a
novembre 2000, quando aveva toccato il minimo storico, pari a 0,838 sul
dollaro. A fine dicembre 2004 la valuta europea sfondò quota 1,358,
poi negli ultimi due anni il cambio era rimasto stabile fra 1,18 e 1,29.
Nella seconda metà 2006 la marcia è ricominciata fino a tornare
a quota 1,30 o più.
Il dollaro in un anno ha perso circa il 12 per cento del suo valore. Sebbene
un rialzo della moneta americana in questi primi giorni del 2007 possa far
pensare a un riequilibrio delle quotazioni, molti esperti scommettono che la
moneta americana scenderà ancora. L'ipotesi è sostenuta da vari
fattori.
Intanto la convenienza che gli Usa hanno a mantenere il dollaro debole per
favorire l'export e soprattutto per scoraggiare l'import arginando l'enorme
deficit commerciale accumulato. Inoltre l'economia europea sembra crescere
più lentamente ma più stabilmente di quella americana, sulla
quale gravano l'incognita del mercato immobiliare e il forte disavanzo
commerciale con la Cina.
Stanno poi avvenendo cambiamenti strutturali. Come già Saddam Hussein
nel 2000, che chiese di essere pagato in euro anziché in dollari per il petrolio
iracheno, anche il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha annunciato di
voler adottare la moneta unica. E, secondo i calcoli di Bruxelles, a cinque
anni dalla sua introduzione il totale delle euro banconote è quasi
triplicato: da 221 miliardi di gennaio
Il Financial Times ha perfino sancito un altro primato: con
l'apprezzamento di dicembre le banconote in euro avrebbero oltrepassato i 610
miliardi in valore e superato i biglietti verdi in circolazione.
Da Repubblica 15-1-2007-01-12Se l’Europa
cresce più degli Usa MARCELLO
DE CECCO
Forse il 2007 ci riporterà un’eco del passato, la
divaricazione ciclica tra Stati Uniti ed Europa. Quelli che erano in
età di ragione alla fine degli anni ‘60 forse ricorderanno quando
questo accadeva spesso, nell’ultima fase della travagliata vita del sistema
cosiddetto di Bretton Woods, che stabiliva cambi fissi tra i paesi che ne
facevano parte. Poiché il sistema stava in piedi solo a furia di misure ad
hoc e di rappezzi, dato che allora come oggi, il deficit estero americano si
allargava ogni anno di più, una continua e spesso acre battaglia di
parole infuriava tra le due sponde dell’Atlantico, avendo come protagonisti
ufficiali i francesi, che mettevano in dubbio la legittimità del
sistema, e gli americani, che ne erano il centro ma avevano crescenti
difficoltà nel gestirlo. La vera protagonista era in realtà,
insieme agli Usa, la Germania, che accumulava enormi riserve in dollari (col
mal di pancia, perché vedeva gli italiani comprare oro e a lei non era
veramente permesso senza irritare gli americani) per non essere costretta a
rivalutare il marco.
A quei tempi l’unico altro paese importante in surplus era il Giappone e
anche nei suoi confronti gli americani usavano una politica di recriminazioni
e di inviti pressanti ad acquistare titoli di stato in dollari invece di oro.
Ma il Giappone non aveva problemi a farlo, per il suo stato di
sovranità limitata derivante dalla sconfitta e perché, forse elemento
più importante, gli USA erano il suo maggior partner commerciale e
tutto il commercio del Giappone era denominato e fatturato in dollari.
La disputa con gli europei, in attesa della svalutazione del dollaro, che
quasi tutti ritenevano inevitabile ma della quale gli americani e anche gli
europei cercavano di rimandare la data per ragioni di mutua convenienza,
verteva sulla interpretazione da dare alla divaricazione del ciclo in Europa
e negli Stati Uniti. Germania e Italia crescevano in quegli anni a tassi che
non avrebbero più rivisto dopo il 1973, e avevano necessità di
politiche che frenassero gli ardori dei loro imprenditori (bei tempi) e le
richieste dei loro lavoratori. Gli Stati Uniti, invece, si erano cacciati,
come hanno fatto di nuovo in questi anni, in un circolo vizioso nel quale la
crescita era ottenuta creando moneta e determinava un deficit di bilancia dei
pagamenti, da sommarsi a quello causato dai loro investimenti all’estero e
dalle spese militari. Di conseguenza, gli europei accusavano gli americani di
creare e far circolare troppa moneta rispetto a quanta ne servisse al buon
funzionamento del sistema economico mondiale. Gli americani, al contrario,
accusavano gli europei di gestire la propria economia al disotto di quel che
erano le sue possibilità e dicevano che, comunque, il mondo aveva
bisogno di ampia liquidità, e quindi la loro offerta di dollari era un
servizio reso da loro all’economia mondiale.
segue a pagina 8
Nel caso si verifichi di nuovo una discrasia tra cicli economici, tale che
l’Europa cresca di più degli Stati Uniti, la tendenza attuale alla
divaricazione tra tassi di interesse in aumento in Europa e in diminuzione in
America porterà ad assai minori dispute transatlantiche, rispetto a
quelle degli anni sessanta. E’ cambiato infatti un elemento importante nel
sistema monetario internazionale: i cambi sono oggi liberi di oscillare, e lo
fanno dal 1971, dalla prima svalutazione del dollaro, con grande frequenza.
Così, ad esempio, il dollaro si è svalutato verso l’Euro in
tempi recenti, mentre immediatamente prima si era rivalutato. Ma che
l’Europa, e in particolare la Germania, cresca di più degli Stati
Uniti, è un avvenimento che non si registrava dagli anni ottanta. Il
giubilo degli europei, se si confermerà questa che è per ora
una speranza corroborata solo da qualche semestre di dati e da inchieste
sulle aspettative degli imprenditori europei che per la prima volta appaiono
più ottimisti dei loro confratelli americani sarà talmente
grande da relegare in secondo piano i timori di inflazione e da attenuare la
paura della sopravvalutazione dell’Euro. Anche i piagnistei anticinesi sono
facilmente sommersi da una ripresa della domanda in Europa.
Ma quanto è solida la ripresa in Europa? Ovviamente, il fatto nuovo
è la crescita vigorosa dell’economia tedesca, che fa da locomotiva
alla nostra e a tutte le altre economie europee. Osservandolo da vicino, il
mini boom tedesco appare composto per la gran parte da esportazioni di
prodotti manufatti ad alto valore aggiunto, che sono la vera forza dei
tedeschi, ma anche da investimenti industriali, e questa è una gradita
novità, mentre la ripresa dei consumi è stata direttamente
causata dalla notizia che l’Iva sarà aumentata nel 2007.
La ripresa tedesca è in non trascurabile parte indotta anche dal boom
delle entrate dei paesi produttori di petrolio (tra cui la Russia), che si
è tradotto in una immediata crescita della loro spesa all’estero. Come
sempre, hanno comprato in Germania e Giappone, mentre (e questa è una
novità) hanno mandato i loro soldi in eccedenza in Gran Bretagna,
più che negli Stati Uniti, il che spiega il boom della sterlina nel
2006.
La domanda chiave attiene dunque alla stabilità della ripresa tedesca.
Sull’attenuarsi della crescita americana non ci sono dubbi, anche se non
è ancora chiaro se l’atterraggio sarà morbido o brusco. Bisogna
quindi farsi un’opinione sulla reazione dei consumatori tedeschi
all’inasprimento dell’Iva. Fino a poco fa usava dire che essa sarebbe stata
trasferita pari pari ai consumatori dai produttori. Ora invece si preferisce
pensare che l’aumento sarà assorbito dalle grandi catene distributive,
che si fanno in Germania una vigorosa concorrenza, mentre i piccoli
distributori sono ormai stati messi fuori gioco. Se è vero, questa
è un’altra caratteristica dell’economia tedesca che sarebbe bello che
anche l’Italia, patria dei negozietti e dei grandi distributori che vanno a
rimorchio dei prezzi alti dei piccoli invece di farsi e fargli concorrenza,
si decidesse a imitare al più presto.
Nel frattempo, l’economia francese, che viaggia tradizionalmente più
velocemente di quella tedesca, sembra rallentare; è un elemento da non
trascurare. Sommando un rallentamento francese e una diminuzione del ritmo
dei consumi tedeschi, il ciclo europeo tornerebbe a farsi pallido, e l’Euro
non avrebbe motivo di crescere nei confronti del dollaro. Ma cosa faranno gli
investimenti tedeschi? Sono finalmente in ripresa, e tuttavia forse uno
spegnersi della fiammella dei consumi, unito a una marcata discesa del
dollaro, può frenarli di nuovo. Questo sembra temere la Bce, se
dobbiamo accreditare l’interpretazione che segnala l’assenza della parola
‘vigile’ nella conferenza stampa di Trichet dopo il nonaumento dei tassi di
martedì. Vigile, nel lessico dei banchieri centrali, si associa con il
loro atteggiamento quando temono una ripresa dell’inflazione.
Purtroppo l’Euro sembra destinato a crescere ancora nei confronti dello Yen,
perché l’emorragia di capitali da Giappone continua senza soste, sommergendo
la componente reale del tasso di cambio. Lo Yen è ampiamente
sottovalutato verso l'Euro da parecchio tempo, ma l’uscita di capitali dal
Giappone sembra strutturale.
Se la disputa tra russi e bielorussi dovesse riaccendersi, e si realizzassero
tagli alle forniture di gas russe alla Germania, è del tutto
realistico prevedere un peggioramento delle relazioni internazionali
nell’Europa nordorientale, un aumento dei timori tedeschi, e una sua
ripercussione sui consumi. Se peggiorano le relazioni russo tedesche, ne
soffrono anche le esportazioni tedesche in Russia. Mentre i polacchi fanno
del loro meglio per distruggere il clima di cordialità che si era
finalmente stabilito tra loro e i tedeschi, a compensare decenni di
inimicizia.
Siamo, come si vede, nella necessità di fare una somma algebrica
complicata, perché difficili da calcolare sono segno e valore delle variabili
da sommare, se vogliamo ottenere qualche indicazione sull’andamento del ciclo
sulla sponda europea dell’Atlantico. Di sicuro, oltre i confini dell’Europa,
abbiamo il rallentamento dell’economia americana, e la continuazione del boom
cinese. Siamo anche certi della reazione della Federal Reserve a un serio
rallentamento della crescita americana: Ben Bernanke, che ha studiato
l’economia degli anni ‘30 e il ruolo deflattivo allora assunto dalla Fed, non
esiterà più di un attimo prima di far scendere vigorosamente i
tassi di interesse.
In tal caso, il pericolo è che la moneta americana scenda troppo,
aldilà della soglia del dolore per le imprese europee. Magari
accompagnata da flussi speculativi di capitali a breve che aumentino la
caduta dei corsi.
La debolezza della moneta americana ha un solo merito: rallenta le tendenze
protezioniste del Congresso degli Stati Uniti, che la conquista democratica
di entrambe le camere ha rafforzato. Sarebbe meglio se a tale debolezza fosse
permesso di manifestarsi anche nei confronti dello Yuan, sorretto dalla
continuazione degli acquisti di dollari da parte delle autorità
cinesi.
Nel quadrante del Pacifico si mette in scena oggi la nuova edizione del
sistema di Bretton Woods. Sono i paesi asiatici a non volere accettare la
rivalutazione verso il dollaro delle proprie monete. Sono loro a sorreggere
il dollaro continuando ad accumulare riserve. Gli europei ora giocano in un
ruolo più defilato, visto che accettano la rivalutazione dell’Euro
verso il dollaro e lo Yen, dato che da cinque anni la moneta unica ha
eliminato i problemi di oscillazione tra le monete europee, che andavano
metà insieme al dollaro e metà contro.
La divaricazione dei cicli tra Europa e Stati Uniti, se veramente diviene
marcata, non indurrà quindi le acrimoniose geremiadi che da entrambi i
lati le persone della mia età ricordano di avere ascoltato nella
seconda metà degli anni ‘60. Allora a preoccupare gli americani
eravamo noi europei. Ora il Pacifico si è ripreso il suo ruolo storico
e le dispute avvengono con chi abita lì. Per noi europei può
essere un sollievo. Ma è, in fondo, il sollievo che prova una bella
signora quando, avanzando negli anni, il suo ingresso in un locale non fa più
sensazione. Un sentimento agrodolce, come quello che devono aver provato i
vecchi ambasciatori inglesi dopo il 1945, quando il loro collega americano
divenne la vera star di ogni capitale.
DA 01.net/Mercato 11-1-2007 Per l'high tech un dollaro vale un euro. Luigi Ferro
Sempre più diffusa la pratica di fissare prezzi per gli Usa uguali a quelli europei. Anche se il biglietto verde vale meno
11 Gennaio 2007
Le mille lire per un euro hanno fatto scuola. Hanno
attraversato l'oceano e riscosso un buon successo. Tanto che l'
E
gli altri prodotti della Mela smozzicata? Stessa storia.
Prendete il prezzo in dollari e avrete quello in euro. Soltanto che 300
dollari al cambio attuale equivalgono a 231 euro. Ne ballano così 69
che gli europei versano ad Apple senza particolari motivi.
Ma la Mela di Cupertino non è l'unica. Kodak riesce a anche a fare
peggio. La cornice digitale EasyShare Ex1011 costa 279,95 dollari al
consumatore statunitense e 299 (invece di 215) a quello della vecchia Europa.
Stessa
storia per gli altri modelli EasyShare, mentre per le
fotocamere il prezzo è equivalente. 249,95 dollari per la V1003 contro
295 euro. Ma se decidete di comprare gli accessori sappiate che negli Usa i
prezzi a seconda del modello vanno da
Motivi
particolari per questi prezzi non ce ne sono. E' una scelta
di politica commerciale delle aziende che non si giustifica con eventuali
spese di spedizione o altro. Tempo fa qualcuno ha provato a protestare
ma non è servito a nulla. Oltre 12 mila persone nel 2005 hanno siglato
infatti una petizione online per protestare contro il cambio uno a uno nel
caso del Mac Mini di Apple. Ma a Cupertino non hanno fatto un plissé. Hanno
risposto che il prezzo già così era molto competitivo. E in via
ufficiosa hanno fatto sapere che non ci sarebbero stati cambiamenti anche in
caso di variazioni nel rapportodi cambio fra euro e dollaro. Da allora l'euro
si è rafforzato e la cotroprova non c'è stata. Però
altri hanno seguito la strada tracciata dalla Mela.
Da altrenotizie.org L’ORO DI PERSIA di Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro
Le recenti sanzioni contro la Repubblica Islamica dell’Iran
hanno prodotto un primo effetto. Dal 1° Gennaio di questo anno, dopo la
decisione dell’Alto Consiglio per l’Economia presa a metà Dicembre, il
dollaro ha cessato di essere la valuta di riferimento per le transazioni
finanziarie di Teheran. Quindi anche per quelle petrolifere. Già in
passato era balenata l’ipotesi, poi rivelatasi una diceria, di una borsa
petrolifera basata sull’Euro con sede nell’area di libero scambio dell’isola
di Kish. Un progetto di impossibile realizzazione, se non altro perché
richiedeva l’apporto partecipativo dei petrocaliffati del Golfo, i quali non
avevano tuttavia la benché minima intenzione di sferrare un attacco
così diretto ad un sistemo economico, quello USA, in cui avevano
investito larga parte dei loro proventi. Questa volta la situazione è
diversa. Ahmedinejad sta usando la questione atomica come la santa causa
nazionale, irritando la Casa Bianca e il rispettivo alleato israeliano che
invocano e ottengono le sanzioni economiche delle Nazioni Unite.
Sorgono dunque spontanee alcune domande: cosa c’entrano le sanzioni con
questo progetto? Come può una moneta diventare un’arma? Non sono forse
tutte uguali? La risposta a tali quesiti necessita di una breve spiegazione
di alcuni meccanismi economici basilari e soprattutto di un ritorno al
passato, per la precisione all'anno 2003.
A metà del 2003 l’Iran fa una mossa decisamente particolare: rompe con
la tradizione, sino ad allora accettata da tutti, di farsi pagare le vendite
di petrolio in dollaro e ha iniziato ad accettare Euro per il pagamento delle
esportazioni ai suoi clienti dell’Unione Europea e dell’Asia.
Dobbiamo, per amore di verità, ricordare che pure Saddam Hussein aveva
tentato una simile mossa audace già nel 2000, bruciando circa 270
milioni di dollari. Ulteriore dimostrazione che la moneta non è solo
un velo. Inutile dire che, dopo questi anni di guerra, l’Iraq è
costretto a utilizzare i dollari statunitensi per le vendite di petrolio.
L’idea iraniana, quindi, se applicata, faciliterebbe il commercio del proprio
petrolio sul mercato mondiale attraverso valute diverse dal dollaro,
permettendo così di bypassare le attuali sanzioni. Pare pertanto
logico che a Washington, dopo la fatica fatta per ottenere una risoluzione
favorevole, guardino con astio tale progetto. Una ulteriore possibile analisi
di questa scelta richiede l’introduzione di un ulteriore protagonista: il
debito pubblico.
Con questo termine si intende il deficit di uno Stato verso soggetti quali
imprese, banche o anche semplici individui, che hanno sottoscritto
obbligazioni (BOT e CCT, ad esempio) destinate a coprire il fabbisogno
finanziario statale. Da qualche tempo quello statunitense ha l’onore di essere
il più alto del mondo. Scorrendo la lista dei creditori, si scopre che
ben il 38% del debito è detenuto da creditori esteri. Per una bizzarra
ironia della sorte il 22% di questo è in mano alla famiglia reale
saudita. Come può lo stato più indebitato del mondo mantenere
la leadership mondiale?
La prima annotazione ha a che fare con quella che potremmo definire la forza
fisica dei governi: essendo gli USA la principale potenza mondiale, nessuno
andrà mai a chiedere la restituzione del debito.
La seconda ragione invece riguarda il mercato mondiale, in particolare quello
dell’oro nero.
Si ipotizza da più parti che il dollaro statunitense sia gonfiato da
qualche tempo, grazie alla posizione di monopolio dei “petrodollari” nel
commercio del greggio. Con il debito nazionale ai livelli attuali, il valore
della valuta statunitense è stato mantenuto artificialmente alto
grazie al controllo assoluto sulle transazioni finanziarie internazionali.
Come avrete intuito, però, negli ultimi anni qualcosa è
cambiato: l’Euro è diventato un mezzo di scambio un po’ più
forte e stabile del dollaro statunitense. Forse è per questo che paesi
"eretici" quali Russia, Venezuela e alcuni membri dell’OPEC hanno
manifestato, almeno in linea teorica, un interesse a un passaggio a un sistema
in “petroeuro” per le transazioni. Il passaggio dal dollaro USA all’Euro sul
mercato petrolifero provocherebbe un calo della domanda di petrodollari e
probabilmente una leggera flessione del valore del biglietto verde.
Ad onor del vero un tale “attacco” monetario provocherebbe solo lievi
grattacapi che, per quanto fastidiosi possano essere, sono risolvibili in
tempi medio-brevi.
La definitiva sconfitta dell’Impero Americano, fortemente voluta dai seguaci
di Ahmedinejad, è quindi ancora assai lontana e, molto probabilmente,
destinata a non avverarsi mai nei termini da loro sperati. Anche perché non
saranno in molti a voler utilizzare l’Euro. Giusto per fare un esempio la
nazione con maggiore cresciuta economica e fame energetica, la Cina,
continuerà a utilizzare il dollaro per i suoi scambi, se non altro
perché Pechino ha negli ultimi tre anni investito gran parte del proprio
surplus commerciale in buoni del tesoro americano. Sarebbe stupido cambiare
improvvisamente rotta e perdere grandi quantità dei propri capitali.
Quindi, con buona pace di Maurizio Blondet, la scelta iraniana del cambio di
valuta commerciale è da inscrivere più in una logica difensiva
e di ripicca politica che in un contesto di “assalto” alla Casa Bianca.
In particolare, in tempi di embargo, diversificare le valute usate per gli
scambi (di qualsiasi natura essi siano) permette di aggirare con maggiore
facilità i limiti imposti. In particolare per quel che riguarda le
banche americane, che già dalla fine dell’anno scorso avevano ricevuto
il “niet” a intrattenere rapporti commerciali in dollari con la banca
iraniana Saderat.
Stati Uniti e Iran hanno quindi deciso di parafrasare il celebre motto dello
stratega Von Clausewitz, dimostrando che l’economia altro non è che la
continuazione della guerra con altri mezzi.
D a Repubblica 4-1-2007 Il dollaro rialza la testa e schiaccia l'euro sotto quota 1,31
M
A spingere al rialzo la valuta statunitense ci ha pensato il dato relativo alla crescita degli ordinativi alle fabbriche a novembre, +0,9%, anche se al tempo stesso l' indice Ism per i servizi a dicembre si è posizionato in ribasso rispetto al mese prima, a 57,1 contro 58,9. Le richieste settimanali di sussidio di disoccupazione sempre negli Stati Uniti sono inoltre salite di diecimila unità, a 329mila. Le indicazioni venute oggi sull' andamento della congiuntura Usa sono in ogni caso in chiaroscuro, anche se sono bastate a far ripartire gli acquisti di dollari, dopo che ieri la diffusione dei verbali dell' ultima seduta del FOMC della Federal Reserve aveva riproposto i timori legati al rallentamento economico.
In pratica, alla luce delle ultime statistiche appare difficile ipotizzare in tempi brevi un taglio dei tassi statunitensi, anche se al riguardo l' attenzione è adesso rivolta al dato relativo alla dinamica del mercato del lavoro a dicembre, in programma domani, con gli analisti che prevedono la creazione di circa 105mila nuovi posti.
Quanto all' euro, sull' andamento della divisa unica ha pesato anche il lieve rallentamento del comparto dei servizi a dicembre, certificato dall' indice Royal Bank of Scotland, posizionatosi a 57,2 contro 57,6 precedente. Inoltre, il tasso d' inflazione sempre a dicembre si è attestato su un +1,9%, al di sotto del 'tetto' del 2,0% fissato dalla Bce. Questo significa che gli spazi per nuovi aumenti del costo del denaro nell' Eurozona potrebbero essere limitati.
04/01/2007 - 17:30
LIBERTA' di martedì 2 gennaio 2007 > Economia
Nelle riserve di valuta estera lo scettro
resta al dollaro
Ma Russia e Opec tendono la mano all'euro, che avanza al galoppo: +46% sul biglietto verde, +31% sullo yen
ROMA - A cinque anni dalla diffusione
dell'euro come moneta "sonante", il dollaro continua a dominare le
riserve ufficiali di valuta estera, con una quota di poco inferiore al 70%,
anche se la divisa unica conquista progressivamente spazio. Dal gennaio del
1999, con l'avvento dell'Unione monetaria europea, le banche centrali di
molti paesi emergenti hanno riallocato le proprie riserve facendo salire la
quota dell'euro nelle loro riserve dal 20% a quasi il 30%.
Economie emergenti come la Russia, e soprattutto diversi
paesi dell'Opec, complice la svalutazione del dollaro (e a volte un'avversità
politica al biglietto verde) stanno portando avanti una linea tesa a tendere
la mano all'euro a svantaggio del dollaro. Con il risultato che la divisa
unica potrebbe vedere la propria quota nelle riserve internazionali salire
ulteriormente dal 25% circa attuale.
È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che il presidente
iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha dato ordine alla banca centrale del
paese di sostituire i dollari con gli euro nelle riserve valutarie. Un
progetto che riecheggia quello vagheggiato da Saddam Hussein, che
avrebbe voluto vendere petrolio in euro anzichè dollari, progetto poi
spazzato via dal conflitto iracheno. Ma Teheran, a pochi giorni dalla
conferma delle imminenti sanzioni dell'Onu contro la corsa iraniana al
nucleare, ha insistito sulla propria linea. E secondo la Banca dei
regolamenti internazionali (Bri), sono sempre più i paesi produttori
di petrolio che hanno voltato le spalle al dollaro, preferendogli l'euro
(oltre alla sterlina e allo yen) per i depositi delle ricche somme incassate
attraverso il boom del greggio dei mesi scorsi: la quota in dollari delle
riserve dei paesi Opec e della Russia, fra il primo e il secondo trimestre
2006, è scesa dal 67 al 65% (era al 70% nel 2003), con depositi scesi
di 5,2 miliardi di euro per il cartello petrolifero, mentre quelli in euro
sono saliti di 2,8 miliardi. E in cima alla lista dei paesi
"pro-euro" c'è anche il Venezuela di Hugo Chavez, che
in un anno ha aumentato dal 5% al 15% i propri depositi in euro perchè
«il dollaro americano ha sofferto un lungo processo di svalutazione». Ed
è della scorsa settimana la decisione degli Emirati arabi di
convertire parte delle loro riserve in euro, che ha messo ulteriore pressione
alle già deboli quotazioni della divisa Usa. Per il momento, comunque,
a dominare le riserve ufficiali - quelle cioè che vengono accumulate
dalle banche centrali in valute diverse dalla propria per poter operare sui
mercati a protezione del valore della propria moneta - resta saldamente il
dollaro.
Comunque per il Supereuro sono stati cinque anni di corsa da quando - ad
inizio 2002 - la divisa unica europea è diventata a tutti gli effetti
una realtà, con la sua introduzione fisica. Rispetto al dollaro - fino
ad allora indiscussa "moneta guida" - il progresso è stato infatti
nell' ordine del 46%, mentre il rialzo nei confronti dello yen ha superato il
31%. L' euro ha guadagnato inoltre anche sulla sterlina, poco più del
7%, e sul franco svizzero, poco meno dell' 8%. L' andamento dell' euro in
questi ultimi anni è stato all'insegna del rialzo generalizzato su
quasi tutte le valute, con la sola eccezione - relativamente all' Unione
Europea - della corona svedese, sulla quale la moneta unica ha perso
leggermente terreno, circa il 2,6%.
Il raffronto fra le quotazioni medie Bce del 3 gennaio 2002, all'indomani
della nascita dell'euro come valuta fisica, e quelle del 22 dicembre scorso
evidenzia innanzitutto che rispetto al dollaro la moneta europea era cinque
anni fa largamente al di sotto della parità (a 0,9036). L' ultima quotazione
dell'anno ha posizionato invece l' euro a 1,3192; un valore in ogni caso
inferiore ai massimi toccati sempre nel 2006, il 12 aprile, a quota 1,3367.
Il record assoluto dell' euro è stato raggiunto due anni fa esatti, il
30 dicembre del
L'euro ha vissuto comunque una vita movimentata nella sua ancora breve
storia, che comincia il primo gennaio del
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Da
(
Da L’Espresso 29-12-2006- Moneta unica in
ascesa pronta a scavalcare il dollaro
M
A scriverlo è il Financial Times, che ha svolto una serie di calcoli da cui arriva un verdetto amaro per il dollaro, un tempo il biglietto più ricercato in quanto giudicato il più affidabile nel conservare la ricchezza sotto forma di liquidità: "il valore delle banconote in euro in circolazione - scrive il Ft - questo mese probabilmente ha superato quello dei dollari", collocandosi secondo il quotidiano della City a oltre 800 miliardi di dollari (oltre 610 miliardi di euro), contro i 795 miliardi di dollari di biglietti emessi dal Dipartimento del Tesoro. E ai tassi di cambio di ieri il sorpasso è già avvenuto lo scorso ottobre, secondo gli esperti del Financial Times. Numeri - si legge in un articolo nella prima pagina del quotidiano finanziario - che "evidenziano la notevole crescita della diffusione delle banconote in euro dal loro lancio nel gennaio del 2002, tre anni dopo la nascita dell'Unione monetaria, che a gennaio accoglierà un nuovo membro, la Slovenia". Una diffusione vertiginosa, se si pensa che i 600 miliardi in banconote raggiunti dall'euro a inizio dicembre sono pari "a circa il doppio del valore che avevano nel 2001 le banconote dei singoli paesi membri di Eurolandia messe insieme". Diverse sono le ragioni di questa crescita, che dal lancio dell'euro cinque anni fa è viaggiata ad un ritmo pari ad almeno il 10% l'anno. Secondo Antti Heinonen, capo del direttorato della Banca centrale europea che si occupa delle banconote, una ragione del sorpasso sul dollaro è innanzitutto la popolazione di Eurolandia, che con i suoi 315 milioni supera quella degli Usa. E poi i bassi tassi d'interesse, che "hanno ridotto - spiega Hainonen - il costo-opportunità dato dal trattenere contanti anzichè farli fruttare in banca".
Ma ci sono anche altri motivi. Negli Usa i metodi di pagamento elettronico sono più diffusi, con la conseguenza che agli europei piace trattenere un pò più di contanti, per far fronte ad ogni evenienza. E poi c'è il bigliettone da 500 euro, molto popolare se si considera che si tratta del taglio che ha avuto la crescita più vistosa. Una popolarità a volte imbarazzante, visto che il taglio 'maxi' piace ai criminali, che "chiaramente - spiega Heinonen - lo privilegiano perchè è uno strumento di pagamento anonimo". E se il dollaro sembra aver mantenuto la propria popolarità come moneta più usata all'estero, anche l'euro si difende, e non solo nelle riserve delle banche centrali: molti turisti in visita in Europa - secondo il quotidiano finanziario - trattengono banconote, e l'euro è molto popolare in paesi che ambiscono ad entrare nell'Unione europea. Come il Kosovo e il Montenegro, che l'hanno adottato come divisa nazionale prima ancora di essere ammessi nel 'Club'.
Da Repubblica.it 29-12-2006. Liquidità sempre elevata. La Bce
alzerà ancora i tassi
M
Oggi la diffusione sui dati della massa monetaria ha
segnalato in novembre una crescita nettamente più celere del previsto,
consolidando quindi l'analisi della Bce secondo cui i rischi inflativi
nell'eurozona sono sempre elevati. Secondo la chiave di lettura del mercato,
dunque, si sono rafforzate le attese di nuovi rialzi dei tassi da parte della
bce nel prossimo anno. A Francoforte, tuttavia, si getta acqua sul fuoco.
L'aggregato M3, sottolineano fonti autorevoli, "è solo uno degli
indicatori di cui la bce tiene conto nell'adozione di decisioni di politica
monetaria". C'è per esempio la fiducia dei consumatori che in Germania è
prevista in calo a gennaio a causa dell'aumento dell'Iva.
L'indice di fiducia a dicembre è risultato in calo anche in italia.
Tuttavia, il dato di fondo è che l'economia della zona euro sta
rafforzando i segnali di ripresa e andrà bene anche nel
L'aggregato, in effetti, lo scorso mese è aumentato del 9,3% tendenziale dopo il +8,5% registrato in ottobre, contro una stima media degli esperti che non andava oltre l'8,9%. La media trimestrale (settembre-novembre), considerata più significativa perchè lima i picchi delle oscillazioni, ha registrato un progresso annuo dell'8,8%, mentre gli analisti mettevano in conto lo statu quo del dato di ottobre (8,4%).
Per la m3 dell'eurozona si tratta, rilevano gli analisti di Barclays Capital, del più forte incremento degli ultimi 16 anni (aprile 1990) che ha spinto la media trimestrale annualizzata destagionalizzata al 10,3% dal 9,5% di ottobre. Un trend che si contrappone alla stabilità dell'espansione dei crediti al settore privati, il cui andamento si è confermato in novembre a +11,2% (+11,1% le previsioni).
La m3, pur considerando che il credito nel suo complesso è aumentato più lentamente, sembra che sia stata fortemente influenzata dall'appiattimento della curva dei rendimenti (che a sua volta ha ridotto i costi dei depositi). In ogni caso, dicono a Barclays capital, la dinamica dell'aggregato resta ben al di sopra dei valori di riferimento della Bce e rivela che l'eccedenza di liquidità continua ad aumentare. Uno scenario, dice Michael Schubert di Commerzbank, "che conferma le stime della Bce, secondo cui la crescita della liquidità e del credito rivelano di rischi orientati al rialzo per la stabilità dei prezzi sul medio-lungo termine". L'esperto, pur ritenendo che il dato sulla m3 "esasperi probabilmente le reali pressioni inflative", stima un nuovo rialzo dei tassi bce (+25 pb) nel primo trimestre 2007. Sicuramente, concordano gli esperti di Barclays capital, la statistica odierna accredita ulteriormente una stretta creditizia da parte della bce, che potrebbe arrivare nel mese di marzo. Una 'scadenza', precisano, che però potrebbe essere posticipata magari a giugno (o più in là nel tempo) se l'euro dovesse stabilizzarsi attorno agli 1,35 dollari se non andare addirittura più in alto.
29/12/2006
Da denaro.it 29-12-2006 Emirati
Arabi . L’8 per cento delle riserve sarà convertito
dal dollaro all’euro
Gli Emirati Arabi Uniti convertiranno l’8 per cento delle
loro riserve totali dal dollaro all’euro entro settembre, sulla scia
dell’indebolimento registrato dalla moneta statunitense quest'anno. Lo dice
il governatore della banca centrale a Bloomberg News. Gli Eau hanno iniziato
“in misura limitata” a vendere parte delle loro riserve in dollari, dichiara
il sultano Bin Nasser al-Suwaidi in un’intervista rilasciata ad Abu Dhabi il
24 dicembre scorso. “Accumuleremo euro ogni volta che il mercato
sembrerà scendere” nel quadro del piano per portare la quota delle
riserve in euro del Paese arabo al 10 per cento del totale, dal 2 per cento
attuale, dice. Lo Stato del Golfo è uno dei produttori di petrolio
che, come l’Iran, il Venezuela e l’Indonesia, intende trasformare le riserve
valutarie in euro, o esprimere il prezzo del petrolio prodotto nella valuta
europea. Il dollaro ha perso quasi il 10 per cento rispetto alla moneta
europea nel 2006, mentre la crescita dell’area dell’euro superava quella
degli Usa per la prima volta in cinque anni. Le riserve in valuta estera
degli Eau ammontano a complessivi 24,9 miliardi di dollari, di cui il 98 per
cento in dollari e il 2 per cento in euro, dice al-Suwaidi. La conversione
dell’8 per cento delle riserve in euro avverrà “entro 6 o 9 mesi”,
dice il governatore dal suo ufficio presso la banca centrale nella capitale
degli Eau. La quota di depositi in valuta estera detenuti in dollari dai
produttori di petrolio dell’Opec, compresi l’Arabia Saudita e gli Eau,
è scesa al 65 per cento, minimo degli ultimi due anni, nel corso del
secondo trimestre, dal 67 per cento nel primo trimestre, secondo dati della
Banca per i regolamenti internazionali. 29-12-2006
Da Il Sole 24 Ore. Petrolio, Opec verso
nuovo taglio della produzione P. F.
L'Opec è preoccupata per le conseguenze sulla domanda
di greggio del rallentamento dell'economia Usa, che farà calare la
domanda, e non sembra affatto soddisfatta del taglio alla produzione deciso
lo scorso mese, pari a circa 500mila barili al giorno. Al meeting convocato
ad Abuja, in Nigeria, giovedì 14 dicembre, saranno quindi molti i
Paesi che spingeranno per una nuova riduzione. Secondo l'ex numero uno del
cartello, l'attuale ministro dell'Energia indonesiano Purnomo Yusgiantoro, il
nuovo taglio alla produzione sarà di 1-1,5 milioni di barili. E
l'attuale presidente Opec, il ministro dell'Energia nigeriano, Daukoru, ha
confermato di non sentirsi «a proprio agio» con le quotazioni attuali de
petrolio: «ci muoveremo per un taglio», ha tagliato corto riguardo l'esito
del meeting di giovedì.
Sicuramente ci sarà l'appoggio di un bel numero di Paesi «falchi»,
come l'Arabia Saudita, il cui ministro del Petrolio Ali al-Naimi la scorsa
settimana ha detto che «il mercato è significativamente squilibrato»
perchè ci sono ben 100 milioni di barili di scorte che pesano sui
prezzi. L'economia mondiale sta rallentando, quindi la domanda futura
sarà più bassa e l'Opec non vuole rischiare uno scivolone dei
prezzi, magari amplificato dal dollaro in ribasso. Anche perchè i
record toccati quest' anno stanno consentendo alle grandi compagnie di
investire grosse somme: soltanto ieri, ad esempio, gli Usa hanno dato il via
libera a nuove trivellazioni nel Golfo del Messico.
Da isolapossibile.it 21-12-2006 Guerre
e crollo dell’’economia mondiale
-
NESSUNO LO DICE. Tutti fanno orecchie da mercante. Persino le marionette della politica, che vanno da sinistra a destra, evitano di parlarne; anzi, hanno l’ordine di non parlarne proprio in pubblico!
Mi riferisco alla possibile, e ahimé molto probabile, crisi economica mondiale legata al dollaro e all’economia statunitense. Una crisi molto pericolosa, non solo per il nuovo continente ma anche per tutta la vecchia Europa; ricordiamo infatti, che il biglietto verde è la moneta di scambio utilizzata per tutte le transazioni commerciali: uno per tutti, il petrolio.
Sarà un amaro dispiace per coloro che credono ancora al miraggio dell’american dream, ma questo sogno americano sta per diventare un incubo vero e proprio.
Quello che non viene detto da nessuno è che il debito americano, inteso come debito interno ed estero, ha superato di molto quello che all’epoca ha fatto sprofondare il paese nella crisi nera del 1929. Ma snoccioliamo qualche dato: il totale del debito pubblico sommato a quello commerciale delle corporate USA è arrivato a quota 33mila miliardi di dollari[1], che tradotto in numeri è corrisponde a 33.000.000.000.000 dollari, e in lire: 66.000.000.000.000.000, cioè 66 milioni di miliardi.
Non male come debito, vero?
Questo immenso valore che corrisponde al 294% del PIL, il Prodotto Interno Lordo, ha superato però anche il record precedente della Grande Depressione del 1929, che era del 270%. Quindi 76 anni dopo il terribile crollo di Wall Street, la situazione economica del paese ha superato di ben 24 punti in percentuale il rapporto debito/PIL dell’epoca!
Nonostante questi dati, c’è qualcuno che è molto più pessimista: il miliardario statunitense Warren Buffet ha stimato un buco di ben 180mila miliardi di dollari, pari a 17 volte il PIL.
Capirete a ben donde, che sulla situazione economica di un paese come gli Stati Uniti d’America, e cioè del paese fautore della democrazia e della libertà, vige la massima e più assoluta segretezza, o se volete, disinformazione.
Comunque sia, è sotto gli occhi di tutti come, dalla deflagrazione della bolla finanziaria speculativa della “new economy” all’inizio del 2000 che ha bruciato letteralmente moneta per 8,5 mila miliardi di dollari, la situazione è andata peggiorando, proprio durante la politica da far west del texano George Walker Bush junior. Però è anche vero che è stato proprio il presidente-guerriero a tenere su l’economia con le guerre preventive, perché se la macchina bellica si dovesse inceppare, per qualsiasi motivo, i nodi verrebbero subito al pettine. Ecco perché ogni, più o meno 2 anni, si deve mobilitare l’esercito USA!
Abbiamo avuto nel 2001 la guerra in Afghanistan - immediatamente dopo il crollo delle Torri Gemelle che hanno, guarda caso, sostituito il crollo di Wall Street -, poi nel 2003 (dopo 2 anni!) c’è stata la guerra in Irak, che continua tuttora. Per cui se il ragionamento fila, dovremo attenderci quest’anno, nel 2005, una guerra contro qualche obiettivo militare. Nella lista nera ufficiale c’era l’Irak (che adesso è una democrazia rappresentativa, sic!), e c’è Iran, Corea del Nord e Siria; nella lista, ovviamente non ufficiale, ci sarebbero tutti gli stati del mondo che vanno a toccare gli interessi economici e/o energetici degli Stati Uniti, e tra coloro ovviamente rientrano quelli che hanno avuto la bruttissima idea di passare dal dollaro all’euro: Irak (nel 2000), Corea del Nord (2002), Venezuela (2000) e Iran (2002).
Proprio quest’ultimo è un paese membro dell’OPEC, e nel corso del 2002 (secondo le dichiarazioni di un membro della Commissione Parlamentare per lo Sviluppo) ha iniziato ha convertire il 50% delle riserve della Banca Centrale Iraniana da dollari a euro, e anche la Corea del Nord, agli inizi di dicembre dello stesso anno, ha annunciato il passaggio alla valuta europea per i suoi scambi commerciali.
Non è una strana coincidenza che i paesi che hanno iniziato a scegliere l’euro al posto del dollaro sono diventati “l’Asse del Male”?
Avrete capito che non c’entra nulla la produzione di armi nucleari da parte dell’Iran e della Corea del Nord, come d’altronde non centravano assolutamente nulla le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein: sono solo scusanti mediatiche per convincere il “gregge disorientato”, come lo chiama simpaticamente Noam Chomsky[2]. L’obiettivo è invece quello di bloccare con le “armi della democrazia” USA: missili, bombe intelligenti, napalm e uranio impoverito, ogni forma di comportamento che possa mettere a repentaglio l’allarmante situazione economica statunitense, o che possa creare un precedente per altri paesi (magari agli undici paesi membri dell’OPEC).
Guerra a parte, per comprendere l’origine di tutta questa gravosa situazione bisogna tornare indietro nel tempo di quasi un secolo, per la precisione fino al 23 dicembre 1913, data questa della “federal reserve act”, e cioè della legge sulla “riserva federale” che ha stabilito il nuovo sistema bancario nazionale (assolutamente fraudolento) basato non più sull’oro ma sul niente. Questa è la più grande truffa che sia mai stata fatta.
Tale legge ha infatti creato la banca centrale, la Federal Riserve (banca privata e non governativa nelle mani dei Burattinai), che ha un enorme potere, quello di stampare carta-moneta. Da quel momento la Federal Reserve ha iniziato a stampare moneta priva di controvalore, per cui carta-straccia, e non si più fermata. Detto in parole povere: la banca privata chiamata Federal Reserve, ha stampato dal 1913 montagne di dollari privi di valore che hanno inondato il mondo intero. Tutti i vari paesi industrializzati e non, se li sono accaparrati - perché il dollaro è la moneta di scambio principale - convertendo addirittura le proprie riserve nazionali.
Morale: tutti i paesi del mondo hanno fatto riserva e incetta di questa carta-straccia, e oggi purtroppo per noi, è arrivato il momento di passare alla cassa!
Una delle soluzioni praticabili dai governi, per tentare di risolvere la crisi e economica o almeno limitarne i danni, sarebbe quella che fu messa in atto dal presidente John F. Kennedy nel 1963 (esattamente 50 anni dopo la nascita della Fed!). Con l’ordine esecutivo 11110 Kennedy dava al Ministero del Tesoro (invece della FED) il potere di “emettere certificati sull’argento contro qualsiasi riserva d’argento, argento o dollari d’argento normali che erano nel Tesoro”. In pratica, per ogni oncia d’argento contenuta nei forzieri del Tesoro, il governo poteva emettere nuova moneta; moneta con controvalore!
In tutto Kennedy fece stampare ben 4,3 miliardi di dollari (8600 miliardi di vecchie lire di allora), e questo stava per mettere fuori gioco la Federal Reserve, perché permetteva al governo di pagare il debito, liberandolo dalla stretta mortale della banca centrale! Una cosa non da poco. Infatti qualche mese dopo e nella città simbolo del denaro e del gioco d’azzardo (?), Kennedy viene assassinato deliberatamente. Un avvertimento chiaro ai futuri presidenti che avessero voluto estinguere il debito. E infatti, la prima cosa che fece il presidente Lyndon è stata proprio quella di ritirare tutte le monete emesse da Kennedy.
Monete che avevano una particolarità molto interessante: invece della scritta “Federal Reserve Note”, che sta a indicare, ieri come oggi, la “proprietà privata” dei soldi della banca privata centrale, avevano la scritta: “United States Note”, a sottolineare che i soldi erano di proprietà degli Stati Uniti e quindi dei cittadini americani. Una bella differenza!
Viene da chiedersi a questo punto chi sia l’effettivo proprietario dell’euro. Purtroppo nella moneta europea non compare la scritta: “Pagabili a vista del portatore”, per cui non sono nostri ma della banca privata centrale europea, la BCE! L’euro quindi è una moneta valida solamente perché noi ne accettiamo il valore nominale stampato sopra: un semplice numero, che non corrisponde ad alcun controvalore di oro e/o argento! Quindi dal punto di vista teorico, le banche in futuro potrebbero rifiutarsi di riconoscere e accettare questa moneta proprio perché NON è pagabile al portatore.
Probabilmente non succederà mai, ma per non saper né leggere né scrivere, è bene che ci prepariamo psicologicamente ad accettare nuove monete prive di interessi (che creano solamente il debito) e molto lontane dalle banche. Uomo avvisato...
Marcello Pamio
[1] A. Cesarano, economista Mps Finance, Monte dei Paschi di Siena, tratto da: http://www.repubblica.it/lettfin/kwfin/online/lf_le_analisi/031028cesarano/031028/031028.html [2] Noam Chomsky, autore di numerosi libri, insegna linguistica al MIT di Boston
Da soldionline 20-12-2006 Guerra al
dollaro o mera diversificazione? di
Pierluigi De Nittis
Aumenta la diversificazione valutaria delle banche centrali. Il Venezuela ha comunicato di voler ridurre del 15% le proprie riserve di oro e dollari, mentre l’Iran ha annunciato che sostituirà quasi drasticamente l’Euro al dollaro, mentre l’Indonesia…
Sono due fra i maggiori produttori di petrolio al mondo, paesi che fanno dei
profitti derivanti dall’oro nero una risorsa fondamentale per le economie
nazionali, ma sono anche grandi nemici degli Stati Uniti e, nell’attuale
situazione dei mercati valutari, sembra che queste nazioni abbiano preso i
classici due piccioni con una fava per fronteggiare sia il calo delle quotazioni
del petrolio sia la svalutazione della valuta americana. Un cocktail di
politica e religione, guarnito dal basilare ingrediente della finanza: il
profitto.
Una delle caratteristiche peculiari del 2006 è rappresentata dal lento
deterioramento della valuta americana, che ha perso quasi il 10% del valore
contro l’Euro; e se si considera anche l’ulteriore rallentamento
dell’economia USA causato dal peggioramento del mercato immobiliare, è
possibile presagire un altro anno di ribassi per i cari vecchi “verdoni”. In
una previsione per i prossimi tre mesi, rilasciata da BNP Paribas SA, si
parla addirittura di una futura valutazione dell’Euro a 1.35$ per poi toccare
1.40$. Tale andamento, è anche stato supportato da previsioni Goldman
Sachs circa un probabile futuro ribasso dei tassi USA a 4.5%.
A favorire e sicuramente accelerare la corsa verso l’Euro, c’è anche
il dato positivo relativo alla Business Confidence tedesca, misurata
dall’indice Ifo, balzato a 108.7 valore che non si vedeva dagli anni ’90.
In base a queste previsioni, è del tutto “normale” che si cominci a
diversificare le riserve valutarie vendendo dollari – come ha già
annunciato in precedenza anche il governatore della Banca Centrale Cinese
Zhou Xiaochuan – soprattutto perché negli anni scorsi è stato fatto
troppo poco in tal senso, ed in particolare perché i paesi produttori di
petrolio sono troppo esposti al dollaro e quindi, rinunciare ai guadagni
derivanti dall’apprezzamento dell’euro per fronteggiare perdite precedenti,
sarebbe difficile.
In tal senso, i paesi OPEC hanno già incominciato a variare le proprie
riserve in dollari aumentando al 22% i depositi in euro dal precedente
livello posto al 20% ma, gli attuali movimenti diversificativi non dovrebbero
portare, stando ai pareri di alcuni analisti, un eccessivo grado di debolezza
per la valuta americana. Allo stato attuale sono troppo poche le
movimentazioni valutarie in favore dell’euro rispetto al totale.
Se non vi sarà un forte effetto immediato, quindi, sul calo dei
biglietti verdi, qualcosa è cominciato.
L’Iran ha impartito l’ordine alla propria banca centrale di effettuare
qualsiasi operazione finanziaria estera utilizzando la valuta unica Europea e
di abbandonare il dollaro, il Venezuela ha ridotto del 15% le proprie riserve
valutarie in dollari, mentre l’Indonesia ha deciso di aumentare forse del 10%
le proprie riserve in Euro.
Nuovo anno, nuove riserve.
Da L’Espresso 18-12-
M
Lo ha annunciato il portavoce del governo Gholam Hossein Elham. La decisione è stata adottata in risposta alle pressioni degli Stati Uniti sulle Nazioni Unite per adottare sanzioni contro l'Iran per il suo controverso programma nucleare. Elham ha aggiunto che anche il budget dell'Iran sarà calcolato in euro.
'Le risorse dall'estero e le entrate petrolifere saranno calcolate in euro e le riceveremo in euro per mettere fine alla dipendenza dal dollaro", precisa un portavoce del governo iraniano, secondo il quale "procederemo anche al cambio dei nostri averi all'estero, il che include sia le entrate delle esportazioni, sia le fonti di finanziamento internazionali".
Per ora l'euro resta stabile sul mercato valutario, attorno a 1,31 dollari. La moneta europea passa di mano a 1,3098 contro 1,3106 dollari delle indicative della Bce di venerdì scorso. In calo il dollaro/yen a 117,96, in attesa delle decisioni della Boj sui tassi d'interesse giapponesi. Euro/yen a 154,5 contro 155.04 delle rilevazioni ufficiali.
Da Il Sole 24 Ore 18-12-2006 Euro: Bruxelles non incoraggia uso come petromoneta
(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Bruxelles, 18 dic - La Commissione Europea "non incoraggia" l'utilizzo dell'euro quale petromoneta o valuta di riserva internazionale. Lo ha affermato la portavoce del responsabile Ue agli Affari Econimici Joaquin Almunia in relazione alle notizie di stampa su l'idea dell'Iran di utilizzare la moneta europea come valuta di fatturazione per gli scambi di petrolio. "In effetti ancora non e' chiarito che cosa voglia fare il governo iraniano - ha detto la portavoce - dal momento che le notizie parlano della volonta' di calcolare in euro le entrate petrolifere e, a quanto sembra, non adottare l'euro come valuta di fatturazione". In ogni caso resta la posizione della Commissione Europea che e' quella di "non commentare questioni relative all'euro" e in ogni caso di "non incoraggiarne l'uso da parte di soggetti esterni" all'eurozona. Aps-rd
Da positanonews.it [15/12/2006] Lo scivolone del dollaro
Negli ultimi tempi, i segnali di sfiducia nel dollaro
come moneta di riferimento si sono moltiplicati e per i Paesi produttori di
petrolio, così come per le banche centrali, la diversificazione
valutaria è diventata un’esigenza. Con il baricentro economico che si
sposta verso Est, meglio investire in euro o nei mercati dell’Asia.
Attenzione, però, perché ai listini emergenti si accede comunque
attraverso il dollaro.
Dicembre, tempo di bilanci e previsioni. Quest’anno, a complicare un po’ lo
scenario ci pensa il dollaro. La valuta americana è arrivata a perdere
il 3% in meno di 10 giorni, mettendo in agitazione mercati e operatori.
In realtà, gli economisti avevano previsto un nuovo scossone sui
mercati valutari e non ne sono sorpresi: la debolezza della moneta di scambio
più importante nel mondo è il segnale atteso che qualcosa sta
cambiando nel mondo e che il baricentro dell’economia si sta spostando da
Ovest verso Est.
Dei nuovi orizzonti sui mercati mondiali, dei rischi e delle
opportunità del cambiamento si è ampiamente dibattuto nei
giorni scorsi a Praga all’interno degli European Colloquia, un convegno
organizzato da Pioneer Investment, la società italiana di asset
management del gruppo Unicredit.
Il parere più critico, nei confronti della valuta americana e delle
prospettive dell’economia Usa, è venuto da Joseph Stiglitz, Nobel per
l’economia nel 2001, che ha sottolineato con forza che il sistema mondiale di
riserve valutarie basato sul dollaro sta franando. L’indebolimento della
fiducia nel biglietto verde come valuta di riserva potrebbe costringere le
Banche Centrali a dismettere parte dei loro stock, innescando una crisi.
I segnali internazionali si moltiplicano: l’Iran ha appena fatto sapere di
voler vendere il petrolio in euro e non più solo in dollari, mentre la
Russia e l’Opec (l’organizzazione dei paesi esportatori) tra il primo e il
secondo trimestre dell’anno, hanno diminuito gli asset denominati in dollari
dal 67% del totale al 65% nel secondo, aumentando dal 20 al 22% quelli in
euro e yen.
Se il dollaro dunque comincia a vacillare come valuta di riserva, e ancora di
più, come moneta di scambio internazionale, suggerisce Stiglitz, si
potrebbe pensare a una divisa comune nella quale effettuare le transazioni,
in modo che gli squilibri di bilancia commerciale non vadano poi a influenzare
il tasso di cambio del paese importatore.
Ma il problema non è solo la Cina, il cui surplus è contenuto
rispetto allo squilibrio commerciale americano. Secondo Stiglitz, eliminando
l’avanzo cinese il deficit Usa resterebbe pressoché invariato, perché gli Usa
prendono a prestito dall’estero quasi 3 miliardi di dollari al giorno, e non
sono tutti soldi cinesi.
In sintesi, se non si adottano misure importanti o si riequilibrano le sorti
commerciali dell’America, la crisi valutaria potrebbe essere dietro l’angolo
e il dollaro scendere fino a vedere quota 1,50 contro un euro.
Anche per questo motivo, per un investitore europeo, puntare sul mercato
americano diventa una scelta controversa a meno che non si scelga un prodotto
che escluda del tutto la componente di rischio legata al cambio. Basti
pensare che Wall Street è salita del 15,5% da inizio anno, (Msci Nord
America in dollari, al 14 dicembre), ma un risparmiatore del Vecchio
Continente sta guadagnando solo il 3,5%, perché buona parte del rialzo è
stato ridotto dal deprezzamento (circa il 12% da inizio anno).
Ma anche chi ha deciso di escludere l’investimento in America focalizzandosi
sull’Europa o, soprattutto, sui Paesi dell’Asia emergente deve stare attento.
Investire in India o in Cina, significa comunque fare i conti nel biglietto
verde, cui le valute locali, dal dollaro di Hong Kong, fino allo yuan, sono
legate a vario titolo. E’ vero che si sono apprezzate negli ultimi mesi, ma,
spiega Marcello Civitella, responsabile per i mercati emergenti di BG sgr,
“le fluttuazioni di tali valute contro il dollaro sono ancora minime rispetto
a quanto avviene, invece, al cambio euro/dollaro. Basti pensare che la moneta
cinese si è rivalutata del 2% da inizio anno, ma contro euro è
al di sotto di 10 punti. Per beneficiare appieno del trend strutturale di
rivalutazione delle valute emergenti bisognerà aspettare tempi
più lunghi”.
Allo stesso modo, i fondi specializzati sui mercati emergenti fanno acquisti
in valuta locale e guadagnano dalla conversione degli asset nella valuta
americana, in cui sono denominati. Un profitto di breve durata, però,
perché il risparmiatore europeo che successivamente valorizza in euro
vedrà vanificato il suo profitto.
Da trend-online.com 15-12-2006 M.Briganti (Morningstar): regali in euro
sotto l’albero
Negli ultimi tempi, i segnali di sfiducia nel dollaro come
moneta di riferimento si sono moltiplicati e per i Paesi produttori di
petrolio, così come per le banche centrali, la diversificazione
valutaria è diventata un’esigenza. Con il baricentro economico che si
sposta verso Est, meglio investire in euro o nei mercati dell’Asia.
Attenzione, però, perché ai listini emergenti si accede comunque
attraverso il dollaro.
Dicembre, tempo di bilanci e previsioni. Quest’anno, a complicare un po’ lo
scenario ci pensa il dollaro. La valuta americana è arrivata a perdere
il 3% in meno di 10 giorni, mettendo in agitazione mercati e operatori.
In realtà, gli economisti avevano previsto un nuovo scossone sui
mercati valutari e non ne sono sorpresi: la debolezza della moneta di scambio
più importante nel mondo è il segnale atteso che qualcosa sta
cambiando nel mondo e che il baricentro dell’economia si sta spostando da
Ovest verso Est.
Dei nuovi orizzonti sui mercati mondiali, dei rischi e delle
opportunità del cambiamento si è ampiamente dibattuto nei
giorni scorsi a Praga all’interno degli European Colloquia, un convegno
organizzato da Pioneer Investment, la società italiana di asset
management del gruppo Unicredit.
Il parere più critico, nei confronti della valuta americana e delle
prospettive dell’economia Usa, è venuto da Joseph Stiglitz, Nobel per
l’economia nel 2001, che ha sottolineato con forza che il sistema mondiale di
riserve valutarie basato sul dollaro sta franando. L’indebolimento della
fiducia nel biglietto verde come valuta di riserva potrebbe costringere le
Banche Centrali a dismettere parte dei loro stock, innescando una crisi.
I segnali internazionali si moltiplicano: l’Iran ha appena fatto sapere di
voler vendere il petrolio in euro e non più solo in dollari, mentre la
Russia e l’Opec (l’organizzazione dei paesi esportatori) tra il primo e il
secondo trimestre dell’anno, hanno diminuito gli asset denominati in dollari
dal 67% del totale al 65% nel secondo, aumentando dal 20 al 22% quelli in
euro e yen.
Se il dollaro dunque comincia a vacillare come valuta di riserva, e ancora di
più, come moneta di scambio internazionale, suggerisce Stiglitz, si
potrebbe pensare a una divisa comune nella quale effettuare le transazioni,
in modo che gli squilibri di bilancia commercialenon vadano poi a influenzare
il tasso di cambio del paese importatore.
Ma il problema non è solo la Cina, il cui surplus è contenuto
rispetto allo squilibrio commerciale americano. Secondo Stiglitz, eliminando
l’avanzo cinese il deficit Usa resterebbe pressoché invariato, perché gli Usa
prendono a prestito dall’estero quasi 3 miliardi di dollari al giorno, e non
sono tutti soldi cinesi.
In sintesi, se non si adottano misure importanti o si riequilibrano le sorti
commerciali dell’America, la crisi valutaria potrebbe essere dietro l’angolo
e il dollaro scendere fino a vedere quota 1,50 contro un euro.
Anche per questo motivo, per un investitore europeo, puntare sul mercato
americano diventa una scelta controversa a meno che non si scelga un prodotto
che escluda del tutto la componente di rischio legata al cambio. Basti
pensare che Wall Street è salita del 15,5% da inizio anno, (Msci Nord
America in dollari, al 14 dicembre), ma un risparmiatore del Vecchio
Continente sta guadagnando solo il 3,5%, perché buona parte del rialzo
è stato ridotto dal deprezzamento (circa il 12% da inizio anno).
Ma anche chi ha deciso di escludere l’investimento in America focalizzandosi
sull’Europa o, soprattutto, sui Paesi dell’Asia emergente deve stare attento.
Investire in India o in Cina, significa comunque fare i conti nel biglietto
verde, cui le valute locali, dal dollaro di Hong Kong, fino allo yuan, sono
legate a vario titolo. E’ vero che si sono apprezzate negli ultimi mesi, ma,
spiega Marcello Civitella, responsabile per i mercati emergenti di BG sgr,
“le fluttuazioni di tali valute contro il dollaro sono ancora minime rispetto
a quanto avviene, invece, al cambio euro/dollaro. Basti pensare che la moneta
cinese si è rivalutata del 2% da inizio anno, ma contro euro è
al di sotto di 10 punti. Per beneficiare appieno del trend strutturale di
rivalutazione delle valute emergenti bisognerà aspettare tempi
più lunghi”.
Allo stesso modo, i fondi specializzati sui mercati emergenti fanno acquisti
in valuta locale e guadagnano dalla conversione degli asset nella valuta
americana, in cui sono denominati. Un profitto di breve durata, però,
perché il risparmiatore europeo che successivamente valorizza in euro
vedrà vanificato il suo profitto.
*A cura di MariaGrazia Briganti, Redattrice di Morningstar
Da aprileonline.it 7-12-2006 La linea tedesca
Nane Cantatore, 07 dicembre 2006
Il nuovo rialzo dei tassi della Bce segna il divorzio dalla politica della Fed e soddisfa le aspettative tedesche, forti di un'elevata competitività e della continua crescita delle esportazioni, ma i francesi cominciano a preoccuparsi per gli effetti del super euro
Quando si parla di euro, dovremmo tutti ricordarci in che
modo è nata la valuta unica: si è trattato di una sorta di
scambio politico tra la Germania e il resto dell'Unione, che ha appoggiato la
riunificazione turbo del principale sconfitto della seconda guerra mondiale
in cambio della convergenza valutaria, che a sua volta avrebbe spalmato la
grande forza intrinseca del marco sulle altre divise, facendo nascere una
nuova moneta. Ciò ha comportato la sostanziale germanizzazione della
politica monetaria europea, sottolineata sul piano simbolico anche
dall'Eurotower, la sede centrale della Bce, che si trova a Francoforte,
patria della Bundesbank e della principale Borsa tedesca.
È chiaro che un'istituzione comunitaria deve fare i conti con i
bisogni di tutti i Paesi membri, ma è evidente che Berlino ha sempre
avuto una posizione dominante nell'indirizzo della Banca centrale, che
è poi l'organismo comunitario di gran lunga più incisivo, e forse
l'unico dotato di reali poteri. Lo si vede bene in questi giorni, con un
nuovo rialzo dei tassi che non è il primo, e che quasi certamente non
sarà l'ultimo, e che ricorda molto da vicino la Buba della Germania
locomotiva economica europea, sempre pronta a stringere i cordoni ogni volta
che la crescita economica sembrava sufficientemente solida.
In effetti, in Germania le cose vanno bene: risanati i conti dopo lo sforamento dei parametri di Maastricht dovuto essenzialmente a una massiccia politica di investimenti e all'attivazione decisa degli ammortizzatori sociali nel recente periodo di stagnazione, il Pil cresce più del previsto, attestandosi al 2,3 per cento su base annua. Dato ancora più significativo, questa crescita è dovuta certamente alle esportazioni (e qui si tratta di un dato di lungo periodo, visto che si è passati da un valore complessivo di 383 miliardi di euro nel 1995 agli attuali 786), ma anche da una ripresa dei consumi, che senga un nuovo ottimismo, probabilmente anche in grado di assorbire senza danni il previsto aumento dell'Iva. A queste condizioni, l'euro forte è un dato decisamente positivo, visto che le esportazioni sono spinte dalla competitività dell'economia, dovuta più alla produttività che alla leva valutaria, dalla qualità dei prodotti e dalla geografia dei flussi commerciali, che ormai si snodano in gran parte sulla dorsale eurasiatica, a tutto vantaggio della Germania: in compenso, la forza della valuta attrae i capitali mondiali, in fuga dal deprezzamento del dollaro, fornendo così la materia prima per nuovi investimenti che possano continua a sostenere la competitività e la qualità dell'offerta, mentre l'effetto di controllo sull'inflazione aiuta la stabilità dello scenario.
Tutto bene per i tedeschi e per le altre economie europee che corrono; decisamente meno per chi è in affanno, o in mezzo al guado: Francia e Italia hanno discreti indicatori macroeconomici e sembra in atto una certa ripresa, ma entrambe devono ancora portare avanti grosse ristrutturazioni e lanciare una forte politica di investimenti a lungo termine, e in questi casi l'effetto dell'euro forte potrebbe essere prevalentemente negativo. In particolare, le esportazioni francesi sono già in affanno, mentre in Italia l'aumento dei tassi potrebbe essere sentito con un certo disagio dalle famiglie, che in questi anni si sono lanciate con grande veemenza nei mutui a tasso variabile: secondo le stime di Adiconsum, un mutuo di 100.000 euro a tasso variabile sottoscritto nel 2001 oggi costa 105 euro all'anno in più se la durata è di 15 anni, 124 se a 20 anni, 151 se a 30. Considerati i prezzi del mercato immobiliare, gli importi medi sono probabilmente molto superiori, e si tratta di cifre che possono decisamente cominciare a farsi sentire. Certo, si tratta ancora di effetti facilmente gestibili, ma ulteriori aumenti potrebbero rivelarsi più onerosi che vantaggiosi, almeno in alcuni Paesi europei; ma la Germania ha le spalle più larghe, ed è lei che decide.
Da Repubblica 30-11-2006 Il declino del dollaro
Resta da capire se la valuta americana si schianterà o planerà con un deprezzamento graduale verso un livello più ragionevole
di LUIGI SPAVENTA
Wile (Willy, Vil) il coyote, nel solito frenetico inseguimento del suo storico nemico Beep Beep (personaggi noti di cartoni animati), varca l’orlo di un precipizio; continua per un po’ a correre in aria, fin quando si accorge di trovarsi nel vuoto e si schianta per terra. Così il dollaro, nella vivida immagine di Paul Krugman, eccellente economista americano: solo che la corsa nel vuoto del dollaro, in sfida alla legge di gravità, dura da anni.
Il deprezzamento, graduale nei mesi scorsi e acceleratosi
negli ultimi giorni (sull’euro da circa
Le ragioni, note, che da tempo inducono a prevedere l’inevitabile collasso sono riassunte dall’etichetta "squilibri globali": un quindicennio di disavanzi crescenti nel saldo della bilancia dei pagamenti correnti degli Stati Uniti, con l’accumulo di un debito estero che supera il 30% del prodotto; in contropartita, saldi di segno opposto, con accumulo di crediti dei paesi emergenti, soprattutto asiatici, e del Giappone.
Le cause apparenti di questi squilibri sono parimenti note (anche se non sempre coerenti): eccesso di spesa, e basso risparmio, negli Stati Uniti; nelle economie emergenti bassa spesa rispetto ai risparmi e spinta prepotente, grazie ai minori costi, delle loro esportazioni. Tutti concordano comunque che squilibri siffatti non sono alla lunga sostenibili.
È meno ovvio quali forze abbiano bilanciato sinora la legge di gravità, consentendo al coyote-dollaro di mantenersi in aria, con oscillazioni tutto sommato moderate. La contabilità torna: l’eccesso di pagamenti verso l’estero degli Stati Uniti è stato compensato da flussi di capitali in entrata (circa 6.300 miliardi di dollari fra il 2000 e il 2005).
Ma perché investire in dollari - una moneta di cui, almeno alla lunga, si ritiene inevitabile una svalutazione? Nessuna delle tante spiegazioni è di per sé sufficiente, anche se ciascuna contiene un pezzo di verità: interventi delle banche centrali asiatiche (soprattutto di quella cinese), che acquistano dollari per impedire un apprezzamento delle loro valute; eccesso mondiale di risparmio; attrazione esercitata sui capitali dalla crescita vigorosa dell’economia americana e da mercati finanziari ampi e liquidi; miopia degli investitori, convinti che il destino del dollaro fosse inevitabile ma non prossimo.
Di qui una prima domanda: è cambiato qualcosa negli ultimi tempi che attenua la contro-spinta alla forza di gravità? Forse sì. La crescita americana si è indebolita e quella europea si è rafforzata; si sono esaurite alcune cause del divario nella dinamica della produttività (la ristrutturazione negli Stati Uniti del commercio e di alcuni servizi); in prospettiva, i tassi d’interesse aumenteranno in Europa, rimarranno stabili o diminuiranno negli Stati Uniti. Si avvertono segni di una diversificazione (più euro e meno dollari) delle riserve delle banche centrali dei paesi emergenti.
Segue una seconda domanda. Il deprezzamento degli ultimi mesi e degli ultimi giorni è un fenomeno temporaneo, destinato a rientrare, come è avvenuto in episodi precedenti? Probabilmente no. Forse l’incanto si è rotto, proprio perché sono venute meno alcune ragioni che lo favorivano.
Terza domanda, e più delicata: il dollaro si schianterà come il coyote o planerà con un deprezzamento graduale verso un più ragionevole livello? Azzardo, pur consapevole della quasi inevitabile fallacia di ogni previsione sul cambio non banale (del tipo "presto o tardi il dollaro cadrà": solo un orologio fermo segna l’ora esatta due volte al giorno). Forse esistono condizioni perché si avveri il secondo esito. L’economia americana, pur rallentando, è ancora in buona salute. Le banche centrali asiatiche nella desiderata riduzione delle posizioni in dollari devono procedere con cautela per non evitare le perdite ingenti di una caduta rovinosa. Le condizioni finanziarie sono più solide che in altre occasioni; anche grazie alle innovazioni della finanza, la gestione di un declino graduale è più agevole.
Speriamo che sia così: il primo esito, quello dello
schianto, provocherebbe condizioni destabilizzanti di disordine valutario. La
saggezza dei governi e delle banche centrali deve aiutare. Opporsi a un
declino del dollaro per salvaguardare le proprie esportazioni (posizione
francese) sarebbe vacuo. Aumentare ancora i tassi d’interesse europei, al di
là dei rialzi già scontati, sarebbe dannoso: la rivalutazione
dell’euro già esercita effetti restrittivi. Aiutiamo il coyote a
compiere un atterraggio morbido.