GIA NE IRROGANTO  di Mauro Novelli   

 

Archivio 16-30  APRILE 2007   Piccola Rassegna

 

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Archivio 16-30 APRILE 2007

 

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INDICE 30-4-2007

Il Sole 24 Ore 28-4-2007 Indagini fiscali alla velocità dell'email.  di Benedetto Santacroce

Europa 28-4-2007 Genitori, alunni, docenti, il triangolo s’è rotto e non bastano giaculatorie per aggiustarlo  FEDERICO ORLANDO RISPONDE

La Stampa 30-4-2007 Sarkozy: sarò io il becchino del '68 "Bayrou premier? Non impossibile" DOMENICO QUIRICO

La Repubblica 30-4-2007 Turchia, un milione in piazza "La presidenza resterà laica" Sfida a Erdogan e Gul

CorriereEconomia 30-4-2007 Sull'orlo di una crisi di nervi Commissione Ue: Barroso e la Wallstrom travolti dalle critiche Continui errori politici, gaffe e scandali stanno demolendo quel che resta della credibilità della Commissione europea.

La Stampa Obama si prepara al sorpasso Duello in pubblico in California gli applausi vanno tutti a lui. Maurizio Molinari

CorriereEconomia 30-4-2007 A proposito d'America L'Europa e Wolfowitz di Giulio Sapelli

Il Corriere della Sera 30-4-2007 Dopo la cessione del controllo parla Tronchetti Provera «Telecom addio, non c'è spazio per gli imprenditori autonomi»

Tronchetti: ma con Pirelli continueremo ad investire in Italia. Raffaela Polato

Il Corriere della sera 30-4-2007 Le contraddizioni dei difensori dell’italianità Telefoni e polizze di  Mario Monti

 


 

 

Il Sole 24 Ore 28-4-2007 Indagini fiscali alla velocità dell'email.  di Benedetto Santacroce


Dalla settimana prossima, l'operatività dell'archivio dei rapporti con gli operatori finanziari modificherà e semplificherà le strategie del Fisco per la realizzazione dei controlli, riducendo notevolmente i tempi di esecuzione e offrendo all'Erario uno strumento più efficace per verifiche mirate.
Il primo passo si avrà entro pochi giorni: il 30 aprile, infatti, scade il primo termine per gli intermediari finanziari per segnalare all'anagrafe tributaria l'esistenza e la natura dei rapporti intrattenuti con la clientela, con l'indicazione dei dati anagrafici dei titolari compreso il codice fiscale. L'obbligo, fissato dall'articolo 37 del Dl 223/06 e dal provvedimento del direttore dell'agenzia delle Entrate del 19 gennaio 2007, riguarderà tutti i rapporti esistenti al 1° gennaio 2005.

Le strategie operative 
Allo stato attuale, in assenza dell'archivio dei rapporti, l'amministrazione, per poter attivare le indagini finanziarie, è costretta a richiedere i dati potenzialmente a tutti gli intermediari, per evitare che una richiesta parziale consenta al contribuente di nascondere al Fisco alcune attività. Questo comporta che le risposte — comunque obbligatorie — siano per lo più negative, con solo aggravio dell'attività degli intermediari finanziari.

In realtà, i verificatori prima di rivolgersi agli intermediari finanziari potrebbero richiedere direttamente al contribuente gli estremi identificativi dei conti. Questa possibilità è stata, di fatto, scarsamente utilizzata dagli uffici che, nella maggior parte dei casi,hanno preferito usare lo strumento della richiesta generalizzata nei confronti di tutti gli intermediari.

Con l'entrata in vigore dell'archivio dei rapporti finanziari il problema dovrebbe sostanzialmente venir meno, in quanto,almeno per tutti i rapporti intestati al contribuente sarà possibile acquisire l'informazione direttamente dall'archivio. In pratica, i verificatori potranno acquisire le informazioni dall'archivio informatico e inoltreranno le richieste solo agli intermediari che hanno rapporti finanziari con gli "indagati".

Una procedura più selettiva 
Questa preselezione,auspicata da tutti gli intermediari che, in questi ultimi mesi, sono stati interessati da innumerevoli richieste inutili, è confermata dalle note metodologiche che l'agenzia delle Entrate ha emanato con la circolare 22/E del 19 aprile. Nelle note è affermato che la banca dati dell'archivio dei rapporti«deve essere considerata ai fini di un'attività di selezione preventiva, affinché si possano dimensionare più precisamente le indagini coinvolgendo almeno tendenzialmente solo gli operatori finanziari che hanno intrattenuto i rapporti con i contribuenti».

Quindi, anche in forza della presa di posizione del Fisco, sembra plausibile pensare che, almeno in linea di massima,questa dovrebbe essere la procedura seguita dai verificatori nell'esecuzione delle indagini finanziarie.
La procedura preselettiva,però, proprio come sottolinea l'agenzia delle Entrate, non soddisfa in pieno le finalità che lo strumento istruttorio deve, secondo le intenzioni del legislatore, realizzare. Questo perché l'archivio dei rapporti non contiene tutte le informazioni necessarie: sono esclusi dal monitoraggio, per esempio,tutti i rapporti non intestati, ma delegatia terzi ovvero le operazioni fuori conto realizzate dal contribuente direttamente allo sportello di una banca. 

Questa carenza dell'archivio, però, non deve spingere i verificatori a realizzare anche nel futuro richieste generalizzate, ma dovrebbe stimolare un'adeguata attività investigativa e di controllo sul contribuente diretta ad accertare se questi è solito realizzare con scopi di evasione quella tipologia di operazioni che coinvolge necessariamente l'attivazione di richieste generalizzate.

Le garanzie per i contribuenti 
Il sistema prevede,in ogni caso, una serie di tutele per il contribuente. L'archivio, in primo luogo, non consente al Fisco di conoscere l'entità dei movimenti realizzati dal contribuente sui singoli strumenti finanziari di cui ha la disponibilità né tantomeno l'entità dei saldi. L'archivio si limita a monitorare: 
• i dati identificativi dei soggetti (persone fisiche o no) intestatari; 
• gli elementi relativi a natura e tipologia; 
• la data di apertura, modifica e chiusura.
Per poter ottenere dati e contenuti dei rapporti finanziari il Fisco deve attivare un'indagine finanziaria vera e propria coinvolgendo direttamente gli intermediari. I quali —e questa costituisce la prima forma di tutela dei contribuenti — devono, al momento del ricevimento della richiesta,informare immediatamente il cliente.

Inoltre, sempre sul piano delle tutele individuali, l'accesso dell'amministrazione finanziaria ai dati contenuti nell'archivio non è libera. L'amministrazione può accedere all'archivio solo dopo aver iniziato un controllo nei confronti del contribuente e solo dopo aver ottenuto un'autorizzazione che può essere emessa: per l'agenzia delle Entrate dal direttore centrale dell'accertamento o dal direttore regionale; per la Guardia di finanza dal Comandante regionale; per gli agenti della riscossione dai rispettivi direttori generali.

L'archivio sarà accessibile anche da parte di altre autorità ( ministro dell'Interno, giudici e forze di polizia). Per queste ultime, però, l'accesso sarà possibile solo dopo che saranno siglate convenzioni tra Entrate e autorità.


 

Europa 28-4-2007 Genitori, alunni, docenti, il triangolo s’è rotto e non bastano giaculatorie per aggiustarlo  FEDERICO ORLANDO RISPONDE

Cara Europa, mi ha sorpreso lo squallido episodio di Rignano Flaminio, il centro di 9000 abitanti della nostra provincia, dove una gang di maestre ed estranei avrebbe – secondo l’accusa – abusato di bambini e bambine della scuola materna. Nello stordimento per l’ennesimo episodio negativo della scuola italiana, nella solita commedia dei burocrati di mettere innanzitutto in chiaro la propria posizione personale, mi conforta che per una volta i genitori mostrino di volersi occupare attivamente dei loro figli, spesso mandati a scuola con spirito di parcheggio. Ma l’alba mi sembra lontana da intravedere, o no? MICHELE DE TOMMASI, ROMA

Lontanissima, caro De Tommasi, anche perché l’atteggiamento “positivo” dei genitori che stendono le ali protettive sui figli mi sembra appena appena normale: non dimentichiamo che si tratta di bambini di tre o quattro anni. In questa vicenda emerge di più, rispetto ad altre altrettanto pruriginose, il peso negativo del comportamento dei docenti sospettati, alcuni dei quali addirittura nonne: per le quali quindi non valgono le tempeste ormonali che possono sconvol- gere la lucidità di giovanissime insegnanti e di studenti in pieno sviluppo, fra i quali le barriere sociali d’un tempo sono meno forti del richiamo della foresta. Se è sfasciato il rapporto tra alunni, docenti e genitori (il triangolo), è perché è venuto meno il cerchio che racchiudeva quel triangolo, la società, dove non c’è più responsabilità e sentire comuni e collettivi, ma, al più, si pensa e si sente solo per il proprio stretto mondo atomistico. Più che una cultura unilaterale dei diritti, come vorrebbero le giaculatorie dei teocon, paghiamo la conseguenza di una civiltà vitalmente esplosa nel progresso economico e nel benessere ma non sulle basi di una preesistente cultura civile: che era fuggita, senza che alcuno la trattenesse, dopo la delusione del fascismo e la disfatta militare. Credere di poter rimediare, sostituendo a una cultura civile a priori un conformismo religioso a posteriori, è illusione da ammiratori inconsapevoli dell’Islam.
Ma per tornare alla “religione civile” non bastano i pur utilissimi gesti di Ciampi o di Napolitano, condannati all’episodicità fra i comportamenti ben più costanti e condivisi delle classe dirigenti (politiche, intellettuali, economiche, istituzionali, ecc.). Bisognerebbe tornare a insegnare agli adulti, con atti e anche punizioni esemplari, il valore della parola e dei comportamenti, perché a fianco ai bravi genitori di Rignano Flaminio ci sono i cattivi genitori di Siracusa che aggrediscono gli insegnanti per brutti voti ai figli, e ci sono – a conferma che la scuola è spesso soltanto il luogo dove si manifesta la malattia che si contrae in famiglia – gli studenti dodicenni che, sorpresi con l’hashish, urlano al docente «ti faccio massacrare, dagli spacciatori». Noi ci auguriamo, ovviamente, che i bravi genitori che difendono la castità dei figli nelle materne, vorranno continuare nella guardia alla salute psichica dei ragazzi anche quando questi avranno 12 anni e si prostituiranno in esibizioni da cubiste a letto, dentro o fuori la discoteca del sabato sera: unico comportamento la vigilanza dei genitori, di qualche capacità preventiva per dar senso alla scuola dei “campus” che Tullio De Mauro ha auspicato, proponendo che gli undicimila edifici scolastici siano tenuti aperti da mattina a sera undici ore al giorno, e non cinque come adesso.
Campus dove non entrino possibilmente i modelli di instupidimento consumistico che producono bullismo negli alunni e la frustrazione nelle insegnanti a 1300 euro al mese. Forse è il caso di avviare, Fioroni in testa, un assiduo incontro su questi temi nei “contenitori”tv, liberandoli dalle solite egemoniche vicende della politica politicante.

 

 

 

La Stampa 30-4-2007 Sarkozy: sarò io il becchino del '68 "Bayrou premier? Non impossibile" DOMENICO QUIRICO

 

CORRISPONDENTE DA PARIGI "La mia Francia è quella che paga sempre per gli altri, per gli errori dei politici, dei tecnocrati, dei manager, dei sindacalisti, per i truffatori, i teppisti, per coloro che approfittano del sistema, di quelli che chiedono sempre e che non vogliono mai dare niente, la Francia che soffre, che non ne può più, la Francia esasperata". Eccolo il vero Sarkozy, furente, implacabile, prestigiatore della parola. Ha individuato il piedestallo dal quale fare il secondo balzo, quello decisivo verso l'Eliseo: è la Francia della maggioranza silenziosa che lui intuisce affollata e vitaminica. Trovata la chiave, lo slogan, la semplificazione fulminante per schiacciare i sorrisi di Ségolène: io, ha proclamato Sarkozy, sono l'anti-Sessantotto. Quarant'anni dopo per lui c'è una Francia che è ancora ostaggio di quella che occupava la Sorbona e invocava l'immaginazione al potere. Ma non solo: perché questo "gauchisme" ha infettato anche i 40 anni successivi, che hanno accettato il quieto vivere, il compromesso, la ipocrisia codarda. Lui si pone come il salvatore, che la guarirà con il ritorno all'autorità, al merito, all'obbedienza. In una parola, ma lui non la dice mai, la sua "rupture" si chiama: ordine. Il palazzetto dello sport di Bercy, ultimo comizio nella capitale, 40 mila persone, è il posto giusto per saggiare la salute del candidato obbligato a vincere. Da una settimana, da quando ha dominato il primo turno con una percentuale di voti così alta che bisogna risalire a de Gaulle, il quasi presidente con addosso già la porpora, sembrava impacciato. Lui, che ha la regola di imporre sempre all'avversario il tema su cui battersi si difendeva, il Rocky della destra guaiva per presunti colpi bassi. Guardava, lamentandosi per lo sgarbo, lei, l'altra, Ségolène che occupa gli schermi e le prime pagine conversando amabilmente con Bayrou. Per carità: il sondaggio lo da sempre in vantaggio 52 a 48 ma anche qui un calo e non di poco, due punti. Sarkozy non avrà per caso commesso il più catastrofico errore dei campioni sportivi: realizzare il record del mondo, una settimana prima delle Olimpiadi, e poi perderle? L'uomo che non ha trascurato niente, che ha investito tutto, che ha mobilitato tutto il mobilitabile, che controlla tutto il controllabile, che organizza, mette in riga, dispiega tutti i talenti appariva fragile. Allora è il momento della sorpresa, del colpo di scena, dalla parola d'ordine per rivitalizzare i sette giorni decisivi. Il tutto calato in uno spettacolo di puro gigantismo hollywodiano, star e ministri, Henri Salvador con Villepin, Hallyday a fianco di Simone Veil, è il sarkosismo people, ma che mostra i muscoli soddisfatto della propria forza. E poi sul palco: per l'ouverture con un tocco mistico, il riferimento alla "comunione" con il popolo sovrano, qualche carezza ai centristi. Ma il massicio centrale del discorso è l'anti-Sessantotto: "Da allora non si può più parlare di morale in politica, ci ha imposto il relativismo morale e intellettuale. Gli eredi del '68 ci hanno imposto che non c'è alcuna differenza tra bene e male, tra bello e laido, tra vero e falso, che l'allievo e il maestro si equivalgono, che non bisogna dare voti, che si può vivere senza una gerarchia dei valori". Gli eredi di questo atonismo morale "che sono nella politica, nei media, nell'amministrazione e nella economia", Sarkozy li ha individuati soprattutto nella Gauche segolenista descritta come contemporaneamente relativista e impotente, ipocrita e meschina: "Difende i trasporti pubblici ma non li prende mai, ama la scuola pubblica e non ci manda i suoi figli, adora le banlieues ma non ci vive, parla di interesse generale ma si barrica nel clientelismo e nel corporativismo, firma petizioni quando si espellono gli squatters ma non ne ospiterebbe mai uno a casa sua". Sarkozy ha ripronunciato la parola fatale "teppisti", quella che ha scatenato la rivolta delle banlieues, ma per mettere con cura notarile sul gobbo dei suoi avversari accuse pesantissime: "Guardate come l'eredità del '68 indebolisce l'autorità dello Stato! Guardate come gli eredi di coloro che gridavano :"CRS=SS" prendono sistematicamente le parti contro la polizia dei teppisti, dei casseurs e dei truffatori". Sintesi: "Gli eredi del '68 fanno l'apologia del communitarismo, denigrano l'identità nazionale, attizzano l'odio della famiglia, della società, dello Stato, della nazione, della République". Il "Dio patria e famiglia" della Francia petainista non è molto distante.Sarkozy è sicuro che su questa via la Francia lo seguirà. Francois Bayrou potrebbe essere premier se Ségolène Royal vincerà il ballottaggio per le presidenziali francesi. L'obiettivo della presidente della Regione Poitou-Charentes è di soffiare al rivale Nicolas Sarkozy i 6,8 milioni di voti andati al presidente dell'Udf nella prima consultazione. La Royal, ha affermato in un'intervista a Canal Plus di "non escludere" alcuna ipotesi di governo. "Se sarò eletta, sono pronta ad accogliere tutte le buone idee che saranno utili al Paese", ha aggiunto. Nella corsa alla conquista dell'elettorato centrista, Royal è inseguita a stretto margine dal rivale al ballottaggio, Nicolas Sarkozy, che a sua volta si è detto "pronto ad avviare un dialogo con Bayrou". "Se Francois vuole parlare non ci sono problemi".


 

La Repubblica 30-4-2007 Turchia, un milione in piazza "La presidenza resterà laica" Sfida a Erdogan e Gul

 

ELEZIONI ANTICIPATE LA CORTE SUPREMA MERCOLEDì IL NUOVO VOTO.

Il candidato islamico: non mi ritiro "No alla Shariano al colpo di Stato" L'enorme corteo di Istanbul trasmesso in tv Lungo il Bosforo l'immensa folla chiede "un paese e un presidente laici" MARCO ANSALDO DAL NOSTRO INVIATO ISTANBUL - "No alla legge islamica, no al colpo di Stato. Vogliamo un paese democratico". Il mare rosso di bandiere con la mezzaluna ha viaggiato per chilometri ieri, lambendo il Bosforo e coprendo Istanbul nella più grande manifestazione della storia turca. Un milione di persone in piazza. Rappresentano la Turchia laica e repubblicana, la società civile che si richiama talvolta ai principi del fondatore Ataturk, padre della patria, e che adesso è pronta a ribellarsi tanto alla possibilità di un golpe militare quanto all'elezione di un capo di Stato di ispirazione religiosa. Si sono dati appuntamento qui, sul selciato di Istanbul, riversatisi come per magia da tutto il paese. Da Trebisonda e Malatya macchiate di sangue, fino al travagliato sud est dell'Anatolia, i cittadini turchi più generosi hanno invaso e occupato la grande piazza Caglayan, muovendosi compatti fino al quartiere di Besiktas che tocca le acque blu dello Stretto. Hanno gridato slogan soprattutto contro il governo islamico moderato. "Vogliamo una Turchia laica, vogliamo un presidente della Repubblica laico". Un rimbombo assordante, fatto di urla, voci e cori ha percorso i cinque chilometri che portano fino al mare. "Basta, basta. La Turchia è democrazia". Salve colossali di fischi hanno accolto i video con le immagini del premier Recep Tayyip Erdogan e del suo vice Abdullah Gul, il candidato alla Presidenza la cui elezione è stata bloccata la scorsa settimana dall'opposizione di destra e di sinistra. La richiesta, portata alla Corte suprema, è di annullare il voto e di arrivare il prima possibile a elezioni anticipate, mentre la gente guarda preoccupata al comunicato dei generali, dichiaratisi pronti a "prendere posizione quando sarà necessario". In piazza i gruppi rock si alternano sul palco mischiando note e ironie. Canti e slogan irridenti sottolineano le parole dei due leader dell'esecutivo, rimandate sullo schermo come una moviola. "Non si può essere sia musulmani, sia laici. Uno o è laico o è musulmano. Le due cose sono come i due poli di un magnete" (Erdogan, 1997). "La democrazia non è un fine, ma un mezzo. E' come un tram che si prende fino a destinazione e, una volta arrivati, si scende" (Erdogan, 1998). "L'identità primaria dei turchi è quella musulmana, non quella costituzionale e repubblicana" (Erdogan, 2005). "Ripetendo la frase di Ataturk "felice chi si dice turco" la Turchia è diventata primitiva" (Gul, 1995). Ieri Gul, che in ogni caso è l'esponente più aperto e duttile del partito al potere, ha risposto ai manifestanti che non intende affatto ritirare la sua candidatura. Nessun passo indietro. "Il processo elettorale è iniziato e continuerà - ha detto ad Ankara con il volto scuro e il sorriso diventato una smorfia - la questione di un mio ritiro non si pone". I turchi sono scesi in piazza per la seconda volta in quindici giorni. Già il 14 aprile centinaia di migliaia di persone si erano riunite nella capitale Ankara. Ma allora non c'era stata né la prima tornata del voto presidenziale (con Gul a mancare l'obiettivo per soli dieci voti), né il gelido "comunicato di mezzanotte" dei generali. Ieri invece il mare di bandiere di tutte le dimensioni, il numero di ritratti di Ataturk posti a sfida del governo di ispirazione religiosa, hanno superato ogni record. La dimostrazione è stata finalmente trasmessa in diretta da tutti i canali tv. "Oggi entreremo nel Guinnes dei primati - commentavano i media - questa è la più grande manifestazione della Turchia repubblicana". Tante le donne, i giovani. "Come esponente della rappresentanza femminile - diceva Canan Karatay, presidente dell'Università scientifica di Istanbul - dico che voglio essere libera. Siamo venute in tante perché non vogliamo coprirci il capo. Le forze armate sono con noi, pronte a difendere il secolarismo. Ma il golpe non è la soluzione". "L'esercito - dice una ragazza, Ipek Hamzaoglu - ha fatto la cosa giusta nell'opporsi a Gul. Ma non credo che torneranno a schierare i carri armati come negli Anni ottanta". Ancora oggi però le forze armate sono l'istituzione più rispettata in Turchia. Il partito islamico moderato Akp, acronimo di Giustizia e sviluppo, e il cui simbolo è una lampadina, a significare limpidezza e chiarezza, governa il paese con il 34,4 per cento dei voti grazie all'alto sbarramento per entrare alla Camera (10 per cento). Ha tutti i ministeri e detiene i due terzi di seggi in Parlamento. Nella marea di bandiere che rifluisce da Istanbul, si nota un cartello: porta una lampadina spenta e la scritta "Edison si è pentito".

 


CorriereEconomia 30-4-2007 Sull'orlo di una crisi di nervi Commissione Ue: Barroso e la Wallstrom travolti dalle critiche Continui errori politici, gaffe e scandali stanno demolendo quel che resta della credibilità della Commissione europea.

 

La settimana scorsa il portavoce dell'istituzione di Bruxelles ha dovuto addirittura smentire l'ipotesi di clamorose dimissioni del presidente, il portoghese Josè Manuel Barroso, e del primo vicepresidente, la svedese Margot Wallstrom, accusati di comportamenti politicamente scorretti. Barroso è scivolato sul suo tentativo di organizzare un mini-summit a Sintra in Portogallo. Voleva discutere del rilancio della Costituzione europea solo con alcuni premier. La scontata irritazione degli esclusi lo ha costretto a una precipitosa retromarcia e a scusarsi con numerosi governi nel vedersi costretto a ritirare gli inviti. Il suo portavoce non ha saputo trovare spiegazioni convincenti anche su un altro incidente. Il presidente del Partito popolare europeo (Ppe), il belga Wilfried Martens, ha chiesto le dimissioni della socialdemocratica Wallstrom contestandole di non aver rispettato l'indipendenza dei commissari Ue augurando pubblicamente la vittoria nelle elezioni francesi alla socialista Ségolène Royal, impegnata nel ballottaggio con l'esponente del centrodestra e del Ppe Nicolas Sarkozy. Lo stesso Sarkozy ha sollecitato di togliere al commissario britannico Peter Mandelson il portafoglio del Commercio per la sua politica definita "irresponsabile". La situazione è aggravata dalle inchieste in corso sulla corruzione tra gli euroburocrati, che la Commissione ha cercato di ridimensionare rischiando evidenti conseguenze se emergeranno responsabilità di suoi dirigenti. Nel mirino è finito perfino il responsabile Ue della Giustizia, il vicepresidente Franco Frattini. Il suo ex segretario e un suo consulente risultano coinvolti in indagini in Italia. Inoltre Frattini è stato criticato perché avrebbe trascurato il grave problema della corruzione in Bulgaria dopo una vacanza sciistica con il ministro degli Interni bulgaro, Rumen Petkov, offertagli nell'ambito di incontri con le autorità di Sofia. Il vicepresidente responsabile per l'Industria, il tedesco Gunter Verheugen, è da mesi in tensione per aver promosso come suo capo di gabinetto l'euroburocrate connazionale Petra Erler, sua compagna di vacanze "mano nella mano". Ora le polemiche possono essere rilanciate dall'esito dello scandalo analogo che ha colpito il presidente statunitense della Banca Mondiale, Paul Wolfowitz, invitato da vari Paesi Ue e dall'Europarlamento a dimettersi per aver raccomandato la promozione e il trasferimento della dipendente Shaha Riza, sua fidanzata. Ma, soprattutto, sta rivelandosi autolesionista la tendenza di Barroso a sottovalutare i casi controversi nella sua istituzione e a non offrire la massima trasparenza. Già all'insediamento, per esempio, l'Europarlamento lo ammonì sui possibili conflitti d'interessi della ex donna d'affari olandese Neelie Kroes, commissario per la Concorrenza. Adesso potrebbe vederla travolta dall'acquisizione della Abn Amro di Amsterdam perché la Kroes è stata in passato nel "libro paga" di una partecipata dello stesso gruppo bancario: sia se l'olandese manterrà il silenzio con cui potrebbe aver agevolato la fusione difensiva della banca di Amsterdam con la britannica Barclays, sia se dovesse intervenire come arbitro su una offerta alternativa di Rbs-Santander-Fortis.


 

La Stampa Obama si prepara al sorpasso Duello in pubblico in California gli applausi vanno tutti a lui. Maurizio Molinari

 

CORRISPONDENTE DA NEW YORK Rassicurato dal successo nei sondaggi dopo il dibattito tv fra gli otto candidati democratici, il senatore dell’Illinois Barack Obama è in California con l’intento di rubare la scena a Hillary Clinton sul fronte degli attacchi alla Casa bianca. Sebbene gli analisti non abbiano designato un chiaro vincitore del dibattito di Orangeburg, i sondaggi hanno assegnato a Obama il 31 per cento delle preferenze dei democratici del South Carolina rispetto al 24 di Hillary. Un dato che conferma il recupero di Obama su scala nazionale: secondo un’indagine Wall Street Journal sarebbe arrivato ad appena 5 punti di distanza dall’ex First Lady rispetto ai 17 che aveva a metà aprile. 

«Il momento è favorevole a Obam» assicura il deputato James Clyburn, numero tre dei democratici alla Camera. Tuttavia Hillary resta favorita, con un solido margine di vantaggio in Stati decisivi come Pennsylvani, Ohio, Florida e New York. Da qui l’importanza della gara per la California, dove sia Obama che Hillary hanno scelto di passare il fine settimana alzando i toni contro Bush. Hillary ha parlato di «uno dei punti di più bassi della leadership del Paese»; Obama ha ribattuto ripetendo a più riprese il termine «disastro Iraq».

Il senatore dell’Illinois e l’ex First Lady sono intervenuti di fronte a duemila delegati democratici riuniti in una conferenza del partito a San Diego, tentando di presentarsi come i più determinati a risolvere la crisi irachena ma facendo sempre attenzione a non criticarsi l’un l’altra. Hillary ha assicurato che se diventerà presidente «la prima cosa che farò sarà di porre fine alla guerra e di portare le truppe a casa» rifiutando però, ancora un volta, di scusarsi per il voto che diede nel 2002 a favore dell’intervento militare «perché all’epoca votammo su informazioni di intelligence rivelatesi errate».

Le affermazioni di Hillary hanno offerto a Obama la possibilità di ricordare che «sin dal 2002 fui contrario alla guerra», presentandosi alla platea come il portatore di un «nuovo tipo di politica» tesa a «dimostrare al mondo che l’America è ancora la migliore speranza dell’umanità» cancellando così l’eredità di un presidente che «pur rimanendo per sei anni alla Casa Bianca ha lasciato vacante il posto di leader del mondo libero». Alla fine l’applausometro ha premiato il senatore dell’Illinois perché «capace di entrare meglio in sintonia con il pubblico» come ha spiegato Sherry Bebitch Jeffe, politologa dell’Università della California del Sud.


 

CorriereEconomia 30-4-2007 A proposito d'America L'Europa e Wolfowitz di Giulio Sapelli

 

Paul Wolfowitz è da circa due anni a capo di una delle più importanti e prestigiose istituzioni del pianeta: la Banca Mondiale. Gran parte delle moderne teorie della crescita e dello sviluppo, della lotta alla povertà e alla disuguaglianza nascono tra le mura della Banca e il fior fiore degli economisti e degli scienziati sociali hanno fatto parte del suo staff. Il predecessore di Wolfowitz, James Wolfensohn, aveva già rinnovato profondamente la politica dell'istituto e l'aveva più coraggiosamente indirizzata verso la lotta alla povertà combattendo la corruzione. La corruzione infatti dilaga nelle nazioni in cui la Banca agisce per favorire la crescita dal basso dei sistemi sociali. L'arrivo di Wolfowitz, nominato e sostenuto fortemente da Bush, è stato un fulmine a ciel sereno. Wolwofitz è un neo-con tra i più lucidi, ossia è uno degli intellettuali che in questi ultimi anni hanno profondamente rinnovato l'immagine che gli Usa hanno di sé nei confronti del mondo e degli alleati storicamente al loro fianco, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, le guerre balcaniche e l'11 settembre. La loro convinzione era ed è che l'Europa non può essere un partner affidabile dell'America nell'immane compito di garantire l'ordine mondiale. Lo staff della Banca ha reagito all'arrivo di Wolfowitz contestandone giorno dopo giorno stile manageriale e approccio politico. Da un lato, infatti, il nuovo presidente continuava la strategia di Wolfensohn incentivando la verifica dei risultati raggiunti sul campo rispetto alla crescita e allo sviluppo. Dall'altro, si impegnava in una lotta serrata alla corruzione in forma diretta, ossia saltando a piè pari i vincoli posti dai classici interlocutori istituzionali e diplomatici della Banca, sia europei, sia di gran parte dei Paesi che definivamo un tempo in via di sviluppo, creando il timore di veder crollare antiche rendite di posizione, soprattutto in Africa. Ed ecco che, in questo contesto, la polemica assume un ben altro aspetto. Wolfowitz è ora accusato, con un continuo intervento della stampa economica più qualificata (solo il Wall Street Journal , di fatto, prende le sue difese con argomentate inchieste), di aver favorito la promozione economica e gerarchica di una sua antica partner. Il profeta della lotta contro la corruzione è accusato di aver messo in discussione le rigide regole interne della Banca e di aver agito calpestando ogni principio di responsabilità e di integrità sprofondando nel nepotismo. La mia impressione, invece, è che la vicenda sia ben diversa e che l'accusa sia gonfiata ad arte. Se esaminiamo le carte scopriamo che la signora in questione - già dipendente della Banca - è stata pregata da Wolwofitz stesso, appena nominato, di lasciare la Banca e di trasferirsi ad un altro incarico presso la burocrazia Usa. E questo per prevenire ogni accusa di favoritismo e pettegolezzo a riguardo. Kevin Kellmes, sul New Yorker , la Bibbia dei liberal nord americani, ha spiegato chiaramente come questo accordo sia stato stipulato con l' intero consiglio d'amministrazione. Tutto alla luce del sole, dunque. E tutto disposto per evitare di incorrere nella violazione del codice etico che regola i comportamenti di tutto lo staff dell'istituto. Ciononostante, il martellamento dei media continua e il nostro uomo è considerato colpevole. Anche i suoi più diretti collaboratori, che avevano condiviso quella soluzione, lo abbandonano via via. Solo i rappresentati canadesi, nordamericani e di alcuni stati africani sostengono ancora l'innocenza del presidente e la sua buona fede. Tutti i governi europei sono invece determinati a cacciare il presidente della Banca Mondiale e a proporre una crisi istituzionale simile a quella che si aprì nel 1993 quando Jacques Attali fu costretto a dimettersi da presidente della Banca Europa di Ricostruzione e Sviluppo per aver speso cifre troppo elevate per rinnovare la sede londinese della banca. Piccole cose, si dirà, viste dall'ottica italica. Ma rimaniamo alla sostanza: la vicenda è assai grave. Rischia di trasformare la lotta sacrosanta alla corruzione in una guerra interna alla diplomazia economica internazionale senza esclusione di colpi. E rischia di trasferire le polemiche, altrettanto sacrosante, sull'orientamento prevalente nell'amministrazione nordamericana in merito alla lotta al terrorismo e alle guerre preventive, in un gioco al massacro che può incrinare gli equilibri esistenti non solo nella più prestigiosa istituzione mondiale che lotta contro la povertà. Il solco tra America, Europa e taluni stati africani e asiatici rischia di approfondirsi e di trasformarsi in una guerriglia che non ha nulla a che vedere con l'etica e che può avere effetti imprevedibili.

 


 

Il Corriere della Sera 30-4-2007 Dopo la cessione del controllo parla Tronchetti Provera «Telecom addio, non c'è spazio per gli imprenditori autonomi»

Tronchetti: ma con Pirelli continueremo ad investire in Italia. Raffaela Polato

 

DAL NOSTRO INVIATO 

PORTOFINO — Il Kauris III è giù in rada. Ne è appena sceso e sì: la regata ha scaricato stanchezza e tensioni. Però niente vento, e mare quasi piatto, e insomma «non il massimo». La burrasca, chiaro, Marco Tronchetti Provera l'avrebbe preferita qui a Portofino. E non avrebbe comunque mai potuto uguagliare quella che si è appena lasciato — spera — alle spalle. Con qualche rimpianto, alcune amarezze, l'ammissione di alcuni errori. Ma con una convinzione, sul resto: aver retto il timone «con onestà e senza compromessi». Avrebbe, volendo, molti "sassolini" da togliersi. Qualcuno in effetti salta. Sceglie però di guardare quasi solo al futuro. Anche nell'analisi — peraltro senza reticenze — dei ferocissimi mesi scivolati da settembre a sabato sera, 28 aprile, firma dell'atto di addio dell'avventura Pirelli in Telecom. 

Più amarezza o più sollievo, dottor Tronchetti? 
«Più consapevolezza. Di aver fatto quanto possibile, in questi sei anni, perché Telecom Italia fosse una bella azienda, come tutti oggi confermano, e per cercare di darle una prospettiva futura, come oggi si sta avverando». Senza di lei, però. «Certo interrompere un cammino cui hai dedicato anni di passione e con risultati da tutti riconosciuti non può che essere un dispiacere per me e per chi con me ha lavorato. Tanto più che grazie a quei risultati si aprono prospettive strategiche di grande interesse». 

Si è detto l'esatto contrario, in questi mesi. Si è detto che la sua è stata una gestione fallimentare. «Perché non guardano ai bilanci e alla realtà. Abbiamo comprato un'azienda controllata attraverso scatole cinesi, indebitata per 43 miliardi, che tecnologicamente era, per esempio, inesistente nella banda larga. Abbiamo accorciato la catena di controllo, svalutato partecipazioni e attività per 12 miliardi — una legge finanziaria o un punto di Pil, se vuole un paragone — e ridotto i debiti a 29 miliardi prima dell'acquisto di Tim. La banda larga, oggi, in Italia c'è e ce l'hanno 7 milioni di clienti. Perché quest'azienda che secondo alcuni non investiva, in realtà tra il 2002 e il 2006 lo ha fatto mediamente per il 17% del suo fatturato. Il rapporto più alto d'Europa». 

Quell'azienda, però, lei l'ha pagata 4,2 euro per azione. Oggi... «... Oggi la vendo a 2,82, sì, è vero. Anche se avevo avuto offerte oltre i 3». Telefonica? «Telefonica e non solo». 

Ci torneremo. Ma quei 4,2 euro: non se li rimprovera, oggi? Qual è, nel suo personale bilancio Telecom, l'errore che ammette? «Non ho valutato, venendo da un'azienda come Pirelli con il 90% delle attività all'estero e in un mercato aperto e competitivo, che in Italia era prematura una cosa: pensare che anche le telecomunicazioni potessero essere valutate come un'attività normale, in cui l'imprenditore si muove con autonomia». 

Le famose «interferenze della politica»? È questo che ha sottovalutato? «Ho sottovalutato l'ambiente, le conflittualità regolatorie. Il che vale probabilmente per tutta l'Europa: in questo settore non si vede di buon occhio l'imprenditore privato. Anche se noi, intendo Telecom, evidentemente qualcosa di buono abbiamo fatto: se i commissari europei hanno riconosciuto, in questi anni, la maggior apertura del mercato italiano, forse anche noi vi abbiamo contribuito». 

Però si è detto, dottor Tronchetti: all'«ambiente», alla politica, nemmeno lei era estraneo. E si citano le date: governo Berlusconi, lei entra in Telecom; governo Prodi, inizia la sua lenta uscita. «L'ho avuto, sì, un vantaggio: sono entrato nelle telecomunicazioni avvisando il governo dopo l'annuncio ufficiale, e ne sono uscito senza avvisare nessuno. Questo è un altro... chiamiamolo difetto». 

Si è parlato però anche, da settembre in poi, se non di una guerra di una questione quasi personale con Romano Prodi. «Non ho mai, mai cercato il conflitto con nessuno». 

Di «interferenze» però è lei che ha parlato. «Ma non riguarda solo me. Questo è un Paese che vede in modo anomalo l'imprenditore. O ne mette in discussione il ruolo. Oppure lo concepisce come valido solo se subalterno. Questo porta al rifiuto del confronto, alla confusione fra attività imprenditoriale e poteri pubblici. Eppure la sua forza, il suo ruolo nella crescita del Paese, la piccola e media impresa e non solo, li ha abbondantemente dimostrati». 

Quindi? «Quindi, per chi fa l'imprenditore da trent' anni questa situazione semmai risveglia l'orgoglio imprenditoriale. È uno stimolo a far valere la verità. La grande soddisfazione per me, oggi, è che tutti dicono: Telecom è una grande azienda». 

Era lei che non andava bene? «Che vuole che le dica... Non ero organico». 

L'avrà visto, uno dei titoli di oggi: «Dividendi, debiti, spioni: finisce l'era Tronchetti». «Volgarità di cui dovrebbero occuparsi gli avvocati. Ne ho viste molte, in questi mesi. Volgarità, e falsità, e superficialità». 

Se le lascerà alle spalle? Ha detto: «Pirelli aveva il 90% delle proprie attività all'estero». Tornerà a quel rapporto? Addio all'Italia, i 3,3 miliardi che incasserà li investirà oltre confine? «Lo sviluppo degli investimenti avverrà nei nostri settori e dove lo consentirà il mercato. Sono certo anche in Italia. E comunque li potenzieremo, soprattutto nella ricerca». 

Quindi non dice: basta con questo Paese. «No, assolutamente. A volte mostra il suo lato peggiore. E quando ci sono campagne, anche di stampa, come quella che abbiamo subito e subiamo noi, anche chi lavora con te comincia ad avere paure e dubbi. Ma la gente poi capisce. La verità poi torna. Io continuo a fare il mio mestiere». 

A chi deve chiedere scusa? «Anche alla gente comune. L'ho già fatto dall'assemblea Pirelli. Lo ripeto adesso: ci sono fatti che hanno toccato anche persone qualsiasi, c'è stato persino il dramma di una morte... Da presidente, oltre che da uomo ovviamente, mi tocca profondamente che l'azienda ne sia stata coinvolta da persone che per l'azienda lavoravano». 

Proprio nessun rimprovero, su questo, da farsi? Proprio nessun sentore di quello che stava capitando con i dossier illeciti? «Non ho mai avuto nemmeno un debole segnale. Anzi, l'opposto: da tutti gli organismi istituzionali, anche nei periodi di allarme terrorismo in Europa, avevo solo riconoscimenti all'efficienza dell'azienda. Siamo stati poi noi, quando sono emerse le prime irregolarità, a dare tutte le carte alla magistratura. Dopo di che, se penso che nel 2004 mi ero rifiutato di far partecipare l'azienda alla gara per fornire i servizi di intercettazione alle Procure... Bello scherzo del destino». 

«Interferenze interne ed esterne». «Campagne stampa». Si è sentito accerchiato? «Ho visto che molti mostravano un anomalo interesse per me». 

Ora almeno la vicenda economica è chiusa. Ma ci ha messo mesi. Prima è saltato l'accordo con Murdoch. Poi Telefonica. Poi At&t e América Móvil. Poi si è tornati a Telefonica. Perché, intanto, ogni volta che un accordo sembrava sul punto di chiudersi svaniva? «Forse perché, nella cultura di questo Paese, non si concepisce che un'azienda come Telecom possa essere gestita da un imprenditore privato in autonomia. E fuori da un sistema di relazioni politiche». 

Ora comunque Telefonica, in minoranza, c'è. Definirebbe l'accordo con Mediobanca, Generali e Intesa un intervento «di sistema»? «Prima mi lasci dire che Telefonica sarebbe stata in minoranza anche con noi. Ma certamente, sì: quella individuata è una soluzione di sistema». 

Che rapporto ha con le banche interessate? «Buono. Talvolta anche di collaborazione e stima. Per esempio con i vertici di Intesa Sanpaolo e di Capitalia». 

Ma aveva definito «un insulto» la scissione proposta da Mediobanca. «Qualcuno non si è reso conto di quanto fosse inaccettabile. Devo peraltro dare atto al presidente di Mediobanca, Gabriele Galateri, di avere sempre avuto in questi mesi, come me e insieme a me, un ottimo rapporto con César Alierta. Telecom e Telefonica sono le due migliori aziende europee del settore e possono sviluppare grandi sinergie». 

Cos'è successo con Guido Rossi? L'ha voluto lei. È finita che le ha tirato in ballo la Chicago anni '20. «Rossi era al mio fianco come consulente durante la trattativa con Murdoch e ha vissuto da vicino quel che è accaduto in settembre. Essendo l'azienda in un momento anomalo di attacco mediatico e incomprensioni istituzionali, a me e a Gilberto Benetton era parso la persona più adatta per normalizzare situazione, rapporti, un'atmosfera che alterava la realtà aziendale. L'ha fatto egregiamente, e in poco tempo. Dopodiché, era necessario qualcuno con un'esperienza industriale e una visione strategica: Pasquale Pistorio ha una carriera ineccepibile». 

Sabato Antoine Bernheim, dall'assemblea Generali, si è tolto un sassolino: «Mi ha chiamato Tommaso Padoa-Schioppa». «Ho letto. A me, telefonate non ne ha fatte nessuno...».

30 aprile 2007

 


 

Il Corriere della sera 30-4-2007 Le contraddizioni dei difensori dell’italianità Telefoni e polizze di  Mario Monti

 

Ci volevano le parole di un francese, candide e cartesiane, per far capire agli italiani come può funzionare in concreto la difesa dell’italianità. Le dichiarazioni che Antoine Bernheim, presidente delle Generali, ha fatto sabato all’assemblea del gruppo sono state riportate dalle cronache. Ma meritano di essere «conservate», come raro esempio di squarcio su conversazioni che in genere si preferisce non far risultare. «Quando mi ha telefonato ilministro Tommaso Padoa-Schioppa sulla vicenda Telecom, gli ho detto che il nostro oggetto è fare assicurazioni e non telefonia. Ma che se ci fosse stata un’azione collettiva con un intervento generale a favore dell’italianità, noi ci saremmo stati in qualche modo. E speravo che, se malauguratamente ce ne fosse bisogno, il governo sarebbe stato pronto a intervenire per difendere l’italianità delle Generali».

Nella conferenza stampa successiva, Bernheim ha aggiunto: «Nessuna pressione. Il dottor Padoa-Schioppa mi ha telefonato come ha fatto con tutte le società interessate alla vicenda Telecom per sapere qual era la nostra posizione. Non ci sono state pressioni per un nostro intervento. Quando ho sentito che c’era interesse che Telecom rimanesse in mani italiane, ho detto di sperare che il governo avesse lo stesso interesse che Generali restasse in mano italiana» (Corriere della Sera, 29 aprile).

Pur interpretato da due personalità degne di grande rispetto, questo scambio di informazioni e di auspici — anche se, come è stato detto, non di pressioni —rivela la distanza che ancora ci separa da un sistema nel quale i pubblici poteri stabiliscono con leggi le regole del mercato; la vigilanza sul rispetto di quelle regole è esercitata dalle autorità indipendenti a ciò preposte e dalla magistratura; ed, entro tale quadro, il governo non interviene nel funzionamento del mercato. Il ministro telefona a tutte le società interessate alla vicenda Telecom per sapere qual è la loro posizione. I suoi interlocutori comprendono che c’è interesse che Telecom rimanga in mani italiane.

Viene delineata un’azione collettiva con un intervento generale a favore dell’italianità. Il presidente delle Generali, l’unico che con candore riferisce di queste conversazioni, ritiene — pur non avendo ricevuto nessuna pressione — che ci sia spazio per unire alla promessa di intervento un auspicio di ritorno. Con spirito cartesiano, lo enuncia così: che il governo sia pronto, se necessario, a intervenire per difendere l’italianità delle Generali, come ha fatto ora per quella di Telecom. C’è una sola smagliatura, nella logica di Antoine Bernheim.

Egli non dovrebbe ritenere che, intervenendo su Telecom Italia, le Generali escano dal proprio oggetto, che consiste nel fare assicurazioni e non telefonia. No, con la buona volontà dimostrata ora al governo, e con le parole con le quali ha accompagnato il gesto, Bernheim ha fatto un’operazione assicurativa. Ha stipulato una polizza contro il rischio di perdita del controllo delle Generali da parte di coloro che oggi le controllano. Sul Corriere della Sera del 22 aprile, osservando i comportamenti della politica e delle banche sul mercato, notavo i segni di un’involuzione, quasi di una controriforma di struttura. I fatti più recenti non attenuano quella percezione.

30 aprile 2007


INDICE 27-4-2007

 

+ Il Sole 24 Ore 27-4-2007  Zone franche al Sud, pronte le prime dieci di Nicoletta Picchio

+ La Repubblica 27-4-2007 La Lega: "D'accordo con Prodi legge elettorale entro luglio" Calderoli: accordi fra Bossi e il presidente del Consiglio Casini: "O una riforma per il sistema tedesco, oppure è meglio il referendum"

Il Giorno 27-4-2007 Riforma elettorale, nasce l'asse Il premier va dal leader leghista: "Sì al federalismo fiscale". Il Carroccio: di ITTI DRIOLI

La Stampa 27-4-2007 E Silvio convoca Umberto Accordo a cena per Verona UGO MAGRI

L’Unità 27-4-2007 Il popolo sono me Marco Travaglio

Il Riformista 27-4-2007 Cari amici, su Bayrou e Pd non sono d’accordo. di Claudia Mancina

La Stampa 26-4-2007 Somalia, battaglia finale. Carri armati etiopi conquistano la zona nord di Mogadiscio, roccaforte delle Corti islamiche. STELLA SPINELLI da PEACE REPORTER

L’Unità 27-4-2007 Telecom, Tronchetti non scende sotto quota 2,82 euro Guido Rossi : Stavo risolvendo i problemi, mi hanno cacciato. Tornare? Dipende... di Roberto Rossi

Il Tirreno 27-4-2007 Mi piace la sinistra che assomiglia un po' alla destra Di David Fiesoli

Finanza e Mercati 27-4-2007 Ancora qualche scossone per Aedes dopo il terremoto che ha sconvolto nei giorni scorsi il mercato immobiliare spagnolo.

Il Corriere della sera 26-4-2007 Tecnologia fallibile Ritiro batterie Sony: è la volta di Acer. Alessandra Carboni

 


 

+ Il Sole 24 Ore 27-4-2007  Zone franche al Sud, pronte le prime dieci di Nicoletta Picchio

 

La scelta delle aree dovrà avvenire entro il 15 maggio, data in cui è fissata la prossima riunione. E non si potrà derogare se,come è intenzione del Governo, le zone franche urbane dovranno partire entro giugno: il pacchetto dovrà infatti ottenere il via libera di Bruxelles. Già individuate dalle Regioni interessate una decina delle aree che beneficeranno del nuovo regime agevolativo per le imprese: Napoli Est, Napoli Centro e Caserta per la Campania; Brindisi, Andria, Taranto per la Puglia; Palermo, Catania e Gela per la Sicilia; Gioia Tauro per la Calabria.
Le zone franche urbane, i nuovi incentivi che prenderanno il posto della 488 e le infrastrutture sono stati i tre capitoli dell'incontro sul Mezzogiorno che si è tenuto ieri a Palazzo Chigi, presenti il vice ministro per il Sud, Sergio D'Antoni, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Enrico Letta, il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, le parti sociali e gli enti locali.
È uno dei tasselli dei tavoli di concertazione tra Governo e parti sociali che dovrebbero sfociare in un'intesa entro giugno, prima del Dpef.
Dal documento presentato da D'Antoni emerge un cambiamento rispetto al passato: si punta sui automatismi, fiscalità di vantaggio e credito d'imposta,che prendono il posto dei meccanismi di incentivazione a fondo perduto o con mutui agevolati,legati ad una graduatoria, come è stata la 488. La scelta era già emersa con la Finanziaria 2007, che ha introdotto le zone franche e che ha riproposto il credito di imposta per gli investimenti (ci sono 2 miliardi di euro circa per il 20072009). E questa strategia si rafforza nel documento di ieri: credito d'imposta sui contributi legati a nuove assunzioni a tempo indeterminato e sconti fiscali sono i pilastri sia delle zone franche sia dell'impianto degli aiuti alle imprese. Fermo restando che la riforma degli incentivi entrerà in vigore a gennaio 2008 e che nel 2007 la 488 avrà un nuovo bando,per ovviare al vuoto che si creerebbe in quest'anno.
Per le zone franche la Finanziaria ha messo a disposizione 50 milioni di euro per il 2008 e altrettanti per il 2009. Ma è previsto un cofinanziamento di almeno un 50% da parte delle Regioni, che dovranno individuare le aree, insieme agli enti locali. «Se non si rispettano i tempi, deciderà il tavolo di concertazione», ha detto D'Antoni,che forse potrebbe concedere qualche giorno in più per superare le amministrative. La scelta avverrà in base ad una serie di indicatori (densità abitativa, disoccupazione, dimensione media d'impresa ecc). Andranno privilegiate le zone con disagio sociale e potenzialità di sviluppo: l'aspetto sociale va sottolineato per avere più facilmente il via libera Ue.
Nelle ZFU le imprese avranno sotto il profilo contributivo, credito d'imposta in cifra fissa sulla nuova occupazione; per il fisco, esonero per 5 anni dalle imposte sul reddito d'impresa e dell'imposta sui fabbricati, agevolazioni allo start up,menttre i Comuni potrebbero partecipare con l'abbattimento delle aliquote Ici.
Se su questo punto c'è stato consenso, il sindacato è più scettico sulle infrastrutture. Nel documento si parla di identificare poche grandi opere, dando la priorità al Corridoio 1 e 8, ai porti e interporti. A seguire, arte e recupero ambientale. Ma questa selezione non c'è ancora stata: «Di Pietro ha presentato il suo piano, un programma troppo frammentato: bisogna indicare una decina di opere, il corridoio tirrenico, quello adriatico e la logistica legata ai porti», ha detto Giorgio Santini, della Cisl, una critica condivisa da Uil e Cgil. Un problema di risorse, per Di Pietro, che ha indicato in 180 miliardi di euro i soldi che servirebbero per le infrastrutture del Sud.Per definire le priorità, comunque, è in funzione la Cabina di regia, a Palazzo Chigi. Ma i sindacati sono preoccupati anche di un'altro aspetto: che le decisioni prese al tavolo di concertazione siano vincolanti per tutto il Governo. La Babele di voci in quest'ultimo periodo qualche sospetto l'ha fatto venire.

+ La Repubblica 27-4-2007 La Lega: "D'accordo con Prodi legge elettorale entro luglio" Calderoli: accordi fra Bossi e il presidente del Consiglio
Casini: "O una riforma per il sistema tedesco, oppure è meglio il referendum"

 

ROMA - "Prodi ci ha garantito che sulla riforma elettorale si partirà subito. Il premier ha condiviso che l'obiettivo deve essere quello di arrivare ad un voto del Senato entro il 27 luglio, giorno in cui si chiude la raccolta delle firme sul referendum. In questo modo la legge potrà andare alla Camera in autunno ed essere votata entro al fine dell'anno". Lo afferma alla Padania il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, che ha partecipato ieri con il presidente del Consiglio Romano Prodi a Milano. 
Ma, mentre si profila un dialogo, l'ex presidente della Camera Pierferdinando Casini mette i suoi paletti. "O si arriva alla legge elettorale alla tedesca o è meglio il referendum", dice Casini. "Piuttosto che finte leggi 'papocchio', come quelle che il ministro Chiti ci sta profilando ogni giorno - ha aggiunto il leader centrista - piccole leggi con piccoli trucchi e inganni per evitare il referendum, meglio la strada maestra del referendum". Il leader dell'udc spiega poi che il suo partito non contribuirà al varo di nessuna legge che non sia quella proporzionale tedesca e che al referendum si batterà per l'astensione: "ci sarà chi farà appello agli elettori per andare a votare e chi, come me spiegherà che l'astensionismo è la scelta migliore. Diamo la parola ai cittadini e andiamo nelle piazze a spiegare". 

(27 aprile 2007)


Il Giorno 27-4-2007 Riforma elettorale, nasce l'asse Il premier va dal leader leghista: "Sì al federalismo fiscale". Il Carroccio: di ITTI DRIOLI

 

ROMA  UN INCONTRO da non sottovalutare, quello avvenuto ieri mattina a Milano tra Romano Prodi e Umberto Bossi. E non solo in vista di una nuova legge elettorale. Il capo del governo e il leader della Lega non si vedevano dai tempi della malattia del "senatur". E, a detta di entrambi, l'appuntamento, in agenda da un bel po', è andato molto bene. "Il referendum non ci sarà. Abbiamo deciso di fare la legge elettorale. Mi pare ci sia voglia di partire. Il modello è quello che ha presentato Calderoli", annuncia il leader del Carroccio dopo un'ora e mezzo di colloquio cui hanno partecipato anche Roberto Maroni e Roberto Calderoli. Ma non è l'unico motivo che rende soddisfatti i leghisti e fa sorridere il capo del governo. Per Prodi sarebbe comunque un passo avanti: Bossi è il primo leader dell'opposizione che incontra nel suo tour esplorativo (finora aveva visto i capigruppo), e dal quale recepisce la volontà di fare davvero una legge nuova e non un adattamento di quella attuale, come sembra preferire Forza Italia. Ma in più c'è che la Lega è disponibile ad aggiungere alla modifica del sistema di voto anche un paio di riforme costituzionali, per le quali Berlusconi si è finora dichiarato indisponibile perché richiedono tempi più lenti e di conseguenza allungano la vita del governo. PRODI mette sul piatto della legge elettorale anche il federalismo fiscale e il Senato delle regioni, e questo per la Lega è un piatto d'argento. Il capo del governo conferma:"Abbiamo approfondito il legame che la Lega fa tra legge elettorale e rafforzamento delle autonomie locali. Linea che mi trova d'accordo da molto tempo e su cui proseguiremo". Sono già previsti ulteriori contatti, per arrivare, come dice Maroni, "se non a un testo, almeno a dei principi comuni". Prodi verifica che il fronte dell'opposizione è tutt'altro che compatto, con An che punta al referendum, Berlusconi a una veloce ripulitura della legge attuale e l'Udc a una riforma che lasci spazio a un terzo polo. Bossi a sua volta vede che le bozze di Chiti (per la maggioranza) e quelle del suo Calderoli non sono poi così distanti, salvano le rappresentanze regionali, come la sua o quella dell'Udeur e potrebbero inserirsi in una cornice di federalismo più marcato. La Lega che certo non gode di ottima salute, a questo punto se ne rivendicherebbe il merito, uscendo dal cono d'ombra di Berlusconi. a proposito del quale Bossi assicura che "non si arrabbierà". Però dice di non averlo informato preventivamente dell'incontro con Bossi. E, SOPRATTUTTO, volendo assicurare che l'alleanza non muta e i rapporti con il governo non cambiano, aggiunge: "Per adesso si parla solo di legge elettorale". Il portavoce di Berlusconi, Bonaiuti, mostra di non dar peso alla faccenda: "Nulla di trascendentale, rientra negli incontri sulla legge elettorale". Ma in questo momento tra Lega e Fi non corre buon sangue per la scelta dei candidati alle amministrative, ed è evidente invece che l'Unione si attenda quantomeno un atteggiamento più benevolo al Senato. Maroni mette le mani avanti: "Prodi non ci ha chiesto nessuna contropartita", ma Speroni chiosa: "Pur di arrivare allo scopo, cioè al federalismo, siamo pronti a un'alleanza anche con il diavolo".

 


 

La Stampa 27-4-2007 E Silvio convoca Umberto Accordo a cena per Verona UGO MAGRI

 

Alle Comunali Tosi (Lega) sindaco e Meocci (Udc) vice. Nella Cdl ognuno per sé, e Bonaiuti stoppa Fini: «Fare la legge elettorale è compito del Parlamento»

ROMA
Solo chi non conosce Bondi, e il suo sconfinato candore, può credere che il coordinatore azzurro abbia voluto depistare i cronisti quando ha dichiarato ieri: «Nell’incontro tra Prodi e Bossi noi di Forza Italia non vediamo nulla di sospetto». Proprio così: nulla di sospetto. Una cosa normalissima che la Lega tratti con il capo del governo. Anzi, positiva se favorisce un’intesa sulla legge elettorale... Peccato che, mentre Bondi rilasciava i suoi commenti alla vasellina, il Cavaliere stesse componendo nervosamente il numero telefonico di Bossi per sapere cosa diavolo gli aveva proposto il Professore, e cosa avevano risposto loro della Lega, e «Umberto, visto che da settimane non riusciamo a vederci, parliamone direttamente noi due stasera, se vuoi vengo a trovarti dalle tue parti così mi spieghi meglio». Fosse davvero tutto così chiaro e limpido, come sostiene Bondi, che bisogno aveva Berlusconi di organizzare un chiarimento segreto e notturno col leader della Lega?

Durante la cena i due si sono messi d’accordo su Verona: Tosi (LegA) farà il sindaco, Meocci (Udc) il vice. Su Prodi, la risposta del Senatùr è facile da immaginare: «Tranquillo, Silvio, restiamo tuoi alleati. Non sono io che ho cercato Prodi, semmai il contrario. Maroni ha fatto da tramite, a quel punto come potevamo dire al presidente del Consiglio: “No, con te non vogliamo parlare?”». Nei confronti del premier, l’atteggiamento di Bossi è stato molto pragmatico, negoziale, del tipo «vedere cammello, dare moneta». Prima di garantire sostegni (il denaro) sulla riforma elettorale e sul resto, la Lega vuole guardare in bocca al quadrupede, contare i denti, cercare le carie... Sarà una cosa rapida, assicura l’altro protagonista degli incontri di ieri, Roberto Calderoli: «Il 2 maggio prossimo la Commissione affari costituzionali del Senato dovrà fissare il suo calendario. E da lì capiremo quanto Prodi è credibile». Se l’esame delle proposte di riforma elettorale inizierà da subito, Romano sarà giudicato una persona seria; «se invece in Commissione si menerà il can per l’aia», avverte Calderoli, «vorrà dire che di lui non possiamo fidarci».

Questo è quanto dal Carroccio hanno ripetuto ieri al Cavaliere. Scaricando su Maroni, e sul suo frenetico attivismo, la responsabilità dell’incontro: il solito Bobo che guarda a sinistra, che cerca visibilità mediatica, che si fa guidare perfino troppo da Isabella, la sua graziosa consulente per l’immagine che molti gli invidiano e con la quale hanno provato a trascinarlo nella nuova Vallettopoli (addirittura gli rimproverano di infilarla negli incontri ufficiali con Berlusconi, con Prodi...). Un modo forse per banalizzare il problema, personalizzarlo e in definitiva circoscriverlo nell’ambito del macchiettismo. Di vero c’è che «l’attivismo di Maroni, la sua voglia di distinguersi e di cantare fuori del coro, cominciano a creare più d’un problema». A dirlo sono i più stretti collaboratori del Cavaliere (Cicchitto, giorni fa, ha frontalmente attaccato l’ex ministro del Lavoro). E pronunciare davanti a Re Silvio il nome di Maroni ha lo stesso effetto che esercitano su di lui le immagini pagliaccesche del Berlusconi-sosia trasmesse da Sky e Striscia la notizia: quello di rovinargli l’umore. Chiedere, per conferma, ai commensali della cena in casa Santanché, l’altra sera a Milano.

Ma c’è parecchio altro. La Lega si smarca anche perché (puntano l’indice in Via Bellerio) il primo a «inciuciare» è stato proprio Berlusconi. Calderoli: «Se lui comincia a trattare da solo, poi non deve stupirsi se ci muoviamo anche noi, che a sinistra abbiamo qualche credenziale in più». Da quando Berlusconi è andato al congresso Ds, e ha cominciato a scambiarsi segnali di fumo con D’Alema, nel centro-destra è scattato il «rompete le righe». Ora ciascuno va per i fatti suoi, incurante degli alleati. Casini traffica coi cugini centristi. An dialoga fitto coi referendari alla Parisi. Ma Bonaiuti obietta ««La legge elettorale la deve fare il Parlamento, perchè se la lasciamo in mano a questo Governo cercherà soltanto, attraverso la riforma della legge elettorale, di prolungare la sua incerta esistenza». La Lega scavalca tutti e tratta direttamente con Prodi. La spiegazione più benevola è quella che offriva agli amici in privato Giulio Tremonti: «Con la confusione che regna nella maggioranza, come si può pretendere che di qua ci muoviamo come una falange compatta?». E Bonaiuti stoppa Fini.

 


 

L’Unità 27-4-2007 Il popolo sono me Marco Travaglio

 

Difficile farsi un'opinione sul referendum elettorale. A giudicare dall'ostilità di Mastella e Calderoli, parrebbe una cosa ottima. Poi si scopre che potrebbe piacere a Bellachioma, e allora sopraggiungono seri dubbi. L'unico dato certo è che un referendum non può mai essere "antidemocratico" (come sostiene Tweed Berty), per la contraddizion che nol consente. Il referendum è la più alta forma di "democrazia diretta", visto che chiama tutti i cittadini a decidere su una questione sollevata da almeno 500 mila persone. Senza contare che la Repubblica Italiana è nata da un referendum. Antidemocratica, semmai, è la legge elettorale attuale, il Porcellum, che il suo autorevole autore Roberto Calderoli definì "una porcata". Una legge che ha consentito a 6 o 7 segretari di partito riuniti nelle segrete stanze di nominare preventivamente 945 parlamentari, alle spalle dei cittadini elettori, col trucco delle liste bloccate. Se il quesito referendario raccoglierà mezzo milione di firme, se la Corte costituzionale e la Cassazione lo riterranno legittimo, se il 50% degli italiani più uno andranno alle urne e voteranno in maggioranza Sì, il Porcellum sarà sostituito da qualcosa che, con tutti i limiti di questo mondo, sarà espressione della volontà degli italiani, non di 6 o 7 segretari. Curiosamente, a sostenere l'antidemocraticità del referendum è anche la Lega Nord, cioè il partito che da quindici anni ci rompe le palle con "il popolo", la "sovranità popolare", "la volontà popolare", di solito identificata con quella - piuttosto ristretta, ultimamente - dei leghisti. Il cosiddetto ministro Castelli pretese addirittura di sostituire nei tribunali la scritta "La legge è uguale per tutti" con "La giustizia è amministrata in nome del popolo" (sottinteso: se uno è eletto dal popolo,allora non va più processato perché il popolo l'ha già assolto). Il popolo della scritta è per caso lo stesso che si vuole consultare col referendum? Se sì, allora non si vede cosa ci sia da temere. Né perché mai, come chiedono i lumbard insieme a quasi tutti i altri partitini, si dovrebbe scongiurare a ogni costo il referendum. Può anche darsi che il quesito faccia schifo, ma se la maggioranza dei cittadini dovesse votare Sì, vorrebbe dire che il concetto di schifo è lievemente diverso per gli elettori e per gli eletti. Del resto la legge-bavaglio di Mastella che abolisce la cronaca giudiziaria è stata votata da 477 deputati su 484 (gli altri si sono astenuti, nessuno ha votato contro), ed è altamente improbabile che il famoso popolo la condivida, visto che è stata studiata proprio contro il popolo, per non fargli più conoscere gli scandali del Potere. Sempre a proposito di democrazia, sarebbe interessante sapere perché mai chi non condivide la politica di Bertinotti, o di Diliberto, o della Moratti, o di Berlusconi, o di Fassino, o di chi volete voi, non possa liberamente fischiarli e contestarli in piazza (sempreché rimanga nei limiti del codice penale). Se il tenore stecca, il loggione fischia: è la democrazia, bellezza. Se invece si fischia un politico, saltano su eserciti di tromboni col ditino alzato. Forse che la libertà è stata conquistata per garantire il diritto di applauso? Gli applausi al Potere sono consentiti anche nelle dittature. Le democrazie si riconoscono dal diritto al dissenso, e dunque ai fischi. Ancora a proposito di democrazia: è così normale che Sky abbia pensato di bloccare la prima tv del "Caimano" di Nanni Moretti per la par condicio? La par condicio riguarda la parità di accesso dei politici nei programmi giornalistici durante le campagne elettorali. Che c'entrano i film? Già l'anno scorso, quando il Caimano uscì nelle sale, ci fu qualche volpone che propose di rinviarlo a dopo il voto per "non demonizzare Berlusconi" e non fargli un favore. Ora Sky ha voleva rinviare il film a dopo le elezioni amministrative (salvo ripensarci) per non danneggiare Berlusconi. Sarebbe il caso di stabilire una volta per tutte se descrivere Berlusconi per quello che è significa fargli un favore o un dispetto. Altrimenti, se restano in piedi entrambe le tesi, peraltro incompatibili, tutti continueranno a evitare di descrivere Berlusconi per quello che è. E abbiamo come il sospetto che la cosa non gli dispiaccia affatto Uliwood party.


 

Il Riformista 27-4-2007 Cari amici, su Bayrou e Pd non sono d’accordo. di Claudia Mancina


Da tempo le presidenziali francesi non erano così interessanti. Lo sono oggi non solo perché in campo c’è una donna, ma anche perché ambedue i candidati - e con loro il terzo che il primo turno ha escluso ma non messo fuori gioco - sono diversi dal passato, costituiscono con la loro stessa personalità una rottura rispetto alle due tradizioni di provenienza. Ségolène, oltre a essere la prima donna a candidarsi all’altissima carica (una delle più “monarchiche” e maschili al mondo), è anche una candidata che ha sfidato l’apparato del partito e ha sbaragliato i notabili grazie alle nuove adesioni, anche telematiche: un’investitura assolutamente irrituale per il rigido e tradizionalista partito socialista francese. Anche Sarkozy ha dovuto lottare per avere la candidatura, contro Chirac se non contro il partito, e l’ha ottenuta per la sua popolarità di uomo forte e deciso. E ha una personalità egualmente fuori dagli schemi: come la sua rivale è esposta agli attacchi misogini, anche lui è esposto agli attacchi xenofobi e antisemiti. Quanto a Bayrou, la sua novità è il segno più evidente di queste elezioni, nonostante sia arrivato terzo. Può anche darsi che sia un fenomeno transitorio, come auspica Tremonti in una interessante intervista a Repubblica: si vedrà alle prossime politiche se riuscirà a sopravvivere a un sistema elettorale ben poco compiacente verso le posizioni terziste. Di sicuro intanto la sua presenza incombe a Parigi e anche da noi, a quanto pare. È inevitabile che si rivolga dall’Italia grande attenzione alle elezioni francesi; peccato però che si indulga sempre a una strumentalizzazione polemica in chiave interna. Molti commentatori hanno rilevato con soddisfazione la tendenziale divisione delle forze fondatrici del partito democratico. Questa divisione però è meno significativa di quanto si dice. Prodi porterà, sia pure in video, il suo sostegno alla candidata socialista; cosa che non avrebbe certo fatto, se non ci fosse in campo il partito democratico. E, scontata l’amicizia e l’attaccamento di Rutelli e dei suoi a Bayrou, il sostegno alla Royal da parte del nuovo partito - se già ci fosse - non sarebbe certo in discussione. Del resto lo stesso Bayrou, pur non avendo dato indicazione di voto ai suoi, ha formulato giudizi molto diversi sui due candidati, e certamente più simpatetici verso la Royal che verso Sarkozy. Resta da vedere come si muoveranno gli elettori.
Ma il punto centrale è un altro. La novità portata dal partito democratico nella politica francese, si dice, sarebbe simile a quella del suo omonimo italiano. Ovvero, Bayrou come modello, o viceversa come spauracchio, di uno spostamento al centro e di una perdita di identità della sinistra. È una lettura che è stata avanzata anche sulle pagine di questo giornale. Io penso invece, con Tremonti, che Bayrou riguarda la destra, non la sinistra. È da lì che si è spostato al centro, ed è lì che competeranno i suoi candidati alle politiche. Se poi c’è stato un flusso di voti su di lui anche da sinistra, questo dipende dalla logica del sistema elettorale, che nel primo turno spinge i candidati a polarizzare, mentre nel secondo li spinge ad aprire al centro. Certo, prima il centro non aveva una sua voce e adesso forse l’ha trovata. Su questo il partito socialista dovrà riflettere, anche se il fenomeno Bayrou non dovesse durare, in vista di quella revisione culturale che inevitabilmente il ciclone Ségolène porterà con sé. Il partito socialista francese, il più statalista e leftist d’Europa, potrà sfuggire all’evoluzione che ha portato le sinistre dei grandi paesi europei, dal Regno Unito alla Spagna, dalla Germania all’Italia, ad essere e definirsi “centrosinistra”? 
La vera lezione delle presidenziali francesi è dunque questa: che la sinistra deve ridefinirsi, darsi un pensiero e una strategia per il mondo in cui viviamo, per i suoi problemi che sono nuovi e diversi da quelli del novecento. La formazione del Pd, nonostante i suoi evidenti limiti di esecuzione, è la scelta giusta perché risponde a questo; mentre l’alternativa se restare socialisti o andare “oltre” il socialismo è solo una disputa nominalistica. Bayrou non c’entra nulla.


 

La Stampa 26-4-2007 Somalia, battaglia finale. Carri armati etiopi conquistano la zona nord di Mogadiscio, roccaforte delle Corti islamiche. STELLA SPINELLI da PEACE REPORTER

 

MOGADISCIO
Carri armati e bombe sulla parte nord di Mogadiscio. E' il nono giorno consecutivo di combattimenti fra le truppe etiopi, sostenute da gruppi armati vicini al governo di transizione somalo, e i ribelli integralisti delle Corti islamiche, coadiuvati dai miliziani di altri clan. L'area settentrionale della martoriata capitale sarebbe in mano ai militari. 

I fatti
Dalle prime ore della mattinata, violenti scontri a fuoco scuotono la città. Gli etiopi hanno sguinzagliato una lunga colonna di blindati in direzione di alcuni quartieri nei pressi del vecchio stadio di calcio. “Oggi gli etiopi hanno conquistato un punto strategico, riuscendo ad avere la meglio sulle milizie e a prendere il controllo del mercato del bestiame”, ha riferito una fonte locale all'agenzia di stampa Misna. L'intento è spazzare via i ribelli, senza usare mezze misure. Bombardamenti senza sosta stanno distruggendo l'area di Towfiq, tanto che gli integralisti stanno lentamente cedendo e abbandonando alcune delle loro roccaforti del nord. Lo riferiscono diverse fonti locali. Per saperne di più occorre attendere l'annuncio del primo ministro del governo somalo, Ali Mohamed Gedi, che svelerà i progressi fatti contro le Corti. Intanto, ancora la Misna riporta la voce insistente secondo la quale almeno un aereo da ieri stia sorvolando la capitale, in quelli che appaiono voli di ricognizione.

Dal canto loro
''Siamo sotto un pesante fuoco di artiglieria e di carri armati. Gli etiopi stanno usando tutto quanto hanno a disposizione in forze e mezzi'', ha, infatti, riferito un combattente appartenente agli Hawiye, clan che domina Mogadiscio. ''Questo è l'attacco più pesante mai visto da quando è iniziata la guerra'', ha aggiunto la fonte. Per rispondere alla pioggia di fuoco, i ribelli stanno usando armi automatiche, missili e granate Rpg. Abitanti, autorità e attivisti di organizzazioni umanitarie hanno detto che quasi 300 civili sono stati uccisi in una settimana di combattimenti che si sono concentrati attorno alla roccaforte degli integralisti islamici a Mogadiscio Nord. 

Il canto delle vittime
Intanto, le Nazioni Unite lanciano l'allarme di un'imminente catastrofe umanitaria. Da quando sono ripresi i combattimenti, almeno 340mila persone sono fuggite dalla capitale, che una volta contava oltre un milione di abitanti. Per quanto riguarda i morti degli ultimi mesi, invece, non ci sono cifre precise, ma stando a quanto riferisce una fonte della Croce Rossa internazionale, “diventano credibili le stime su alcune centinaia di vittime” per l'ultima settimana, mentre si parla di almeno un migliaio da marzo. Il problema più grave per chi si occupa di soccorrere e curare i feriti diventa recuperarli, dato che le truppe etiopi hanno ordinato la chiusura dei quartieri settentrionali, impedendo anche il trasferimento in centri di primo soccorso e ospedali fuori dall'area. L'unica struttura del nord, originariamente un ospedale pediatrico adesso trasformato in ospedale da guerra, è stato evacuato, dato che i bombardamenti non guardano certo in faccia nessuno, com'è stato dimostrato ieri quando alcuni missili sparati dai carri armati etiopi sono piombati su uno dei reparti che ospitava venti feriti. Sconosciuto il bilancio. 

Avanti Tutta
Eppure, nonostante tutto, raccomandazioni Onu comprese, il governo di transizione non ci sente e ripete che non ci sarà tregua nella battaglia finché le Corti islamiche non saranno annientate. Il ministro degli Esteri somalo, Ismail Mohamoud Hurre, ha precisato che morte e violenza sono il prezzo da pagare per tornare alla normalità in un paese che non ha un governo nazionale funzionante da 16 anni. “Le truppe etiopi, fermando gli elementi della Jihad, causa prima dell'instabilità, stanno facendo grandi cose”, ha aggiunto.


 

L’Unità 27-4-2007 Telecom, Tronchetti non scende sotto quota 2,82 euro Guido Rossi : Stavo risolvendo i problemi, mi hanno cacciato. Tornare? Dipende... di Roberto Rossi

 

QUOTA Tra gli azionisti di Telecom potrebbe rimanere anche Marco Tronchetti Provera. Non con Olimpia, piuttosto con Pirelli che del gruppo telefonico possiede direttamente l'1,36% del capitale. "Rimanere? Sì, forse - ha dichiarato il manager nel corso del- l'assemblea Camfin, la finanziaria con la quale controlla Pirelli - con le azioni che abbiamo fuori da Olimpia". Ma per il resto, e cioè il 18% detenuto attraverso la holding, "non c'è rimasto che vendere. E quello che possiamo e vogliamo fare è cercare di vendere al meglio". La partecipazione di Pirelli per ora non presuppone nessun impegno per far parte della cordata italiana che Mediobanca e Intesa Sanpaolo stanno cercando di mettere insieme. "L'ipotesi non ci è ancora stata messa sul tavolo - ha chiarito Tronchetti -. Ora stiamo uscendo poi vediamo". E poi ha aggiunto: "molti ostacoli sono nati perché eravamo dentro e non vorremmo che si riproducessero". E ancora: "Il percorso era giusto, la strategia era quella esatta ma ora dobbiamo prendere atto della situazione e degli ostacoli che ci sono, che non ci permettono di fare quello che vorremmo fare. Per questo siamo costretti ad uscire e cerchiamo di farlo nel modo migliore possibile, valorizzando al massimo la partecipazione". "Con Telefonica l'accordo era fatto - ha puntualizzato Tronchetti - poi sono intervenuti ostacoli interni ed esterni: in futuro si saprà tutto. Bisogna prendere atto della realtà, non sempre è possibile fare quello che si vorrebbe: ora interesse degli azionisti Pirelli, e di conseguenza anche Camfin è cercare di vendere alle migliori condizioni possibili. Tutto - ha concluso Tronchetti - diventerà trasparente in futuro". La non nuova ricostruzione di Tronchetti Provera, che addossa la responsabilità del fallimento nella sua gestione Telecom alla politica e all'Authority, non collima però con quella fatta dall'ex presidente Guido Rossi che, indirettamente, ha parlato di crisi nella società telefonica. "Le aziende che mi hanno chiamato - ha detto Rossi, diventato consulenze del comune di Sesto San Giovanni - erano già in crisi prima che arrivassi". Quelle stesse aziende, ha aggiunto, che quando le crisi stavano per essere risolte lo hanno "cacciato via". E tornerà in Telecom? "Dipende da chi me lo chiede e da come me lo chiede". E comunque il futuro di Telecom resta ancora appeso. Fra tre giorni scade il termine per l'esclusiva data ai messicani di America Movil. Che, secondo Tronchetti, non hanno ancora formulato offerte vincolanti. Né loro "né le banche". Comunque Pirelli, ha detto Tronchetti, "non valuterà offerte inferiori a 2,82 euro", che è la cifra proposta da America Movil e che è molto superiore al valore di Borsa (2,25). Ieri la società messicana ha ribadito il proprio interesse alla partita, anche se l'obiettivo è quello di una partnership con il gruppo telefonico che "ha una forte presenza in Europa" e non quello del controllo. Ma la fine del mese potrebbe anche portare a una definizione della cordata italiana alla quale Mediobanca e Intesa Sanpaolo stanno lavorando e che vede tra i protagonisti Mediaset e Roberto Colaninno. E forse anche la famiglia Benetton. "Siamo disponibili eventualmente a ridurre la nostra quota notevolmente e a partecipare a un nuovo progetto" ha detto il presidente di Edizione Holding, Gilberto Benetton. Intanto ieri il presidente di Telecom Pasquale Pistorio ha incontrato il numero uno dell'Authority Corrado Calabrò per la questione rete. Un faccia a faccia che potrebbe preludere a un accordo a breve.


 

Il Tirreno 27-4-2007 Mi piace la sinistra che assomiglia un po' alla destra Di David Fiesoli

 

Con il suo pamphlet "Per una sinistra reazionaria" Bruno Arpaia lancia la provocazione e dice no al lassismo, all'individualismo, al mito del progresso Confessa al Tirreno che ammira Zapatero, preferisce Mussi a Fassino, e al Partito Democratico dice no. Ma la sinistra italiana così com'è, allo scrittore Bruno Arpaia, non va proprio giù. Dopo il congresso dei Ds a Firenze, il tormentone di Nanni Moretti che chiedeva di dire qualcosa di sinistra diventa più attuale che mai. Cos'è la sinistra oggi, e cosa dovrebbe essere? Arpaia ci ha provato, a rispondere, in un pamphlet edito da Guanda e provocatorio fin dal titolo: "Per una sinistra reazionaria". Più sobria, meno attaccata al benessere, meno indulgente, meno permissiva, meno buonista. Un libro coraggioso, che piace poco sia alla sinistra liberale che a quella radicale. Reazionaria non è un termine un po' forte? "Sembra un ossimoro, e in parte è una provocazione. Cercando qualche risposta ai problemi della sinistra, mi sono reso conto che proprio la sinistra ha regalato alla destra reazionaria, non a quella conservatrice e cialtrona che abbiamo in Italia, ambiti di pensiero legati alla condizione dell'uomo: spesso la critica più radicale a certe degenerazioni della società liberale vengono dalla destra reazionaria. Quindi, per reazionaria intendo attiva, che reagisce, e non conservatrice. Vorrei una sinistra che non si adagiasse sul mercato, sul populismo, ma reagisse alla banalità che la sovrasta. Certi punti di vista anche se vengono da destra possono essere validi: Veneziani a volte mi fa venire l'orticaria, ma se leggo i suoi libri vedo idee intelligenti, degne di essere prese in coinsiderazione". Lei parla di una sinistra che ha introiettato la mitologia del progresso e si è piegata alla dittatura del mercato, e invece dovrebbe accettare la decrescita del benessere. Non le pare che sarebbe già molto, e magari sufficiente, farsi carico di una redistribuzione più equilibrata della ricchezza, che se non sbaglio è una cosa molto di sinistra? "Si, ma c'è il problema che ormai dobbiamo ragionare in termini globali:,così dovrebbe essere realizzata la redistribuzione della ricchezza. Pensi che se i cinesi che si stanno arricchendo decidessero di vivere sugli stardard nostri di consumo energetico, il mondo si accartoccerebbe su se stesso. Bisogna quindi tracciare una strada nuova e capire che questo mito dello sviluppo che accomuna tutti, sinistra e destra, è un portato culturale e storico di una società consumista e schiava di una fraintesa idea di progresso. Bisogna uscire dall'ideologia dello sviluppo a tutti i costi, e riflettere invece se sia necessaria una decrescita del benessere". Alcuni dicono che una sinistra che propugnasse quel che dice lei sarebbe votata alla sconfitta... "In questo momento mi trovo a Milano, una delle città più inquinate d'Italia. Sono convinto che per far fronte all'inquinamento ci vorrebbero politiche radicali, altro che domeniche senz'auto. Siamo sicuri che i milanesi sarebbero così contrari a una politica che li aiutasse davvero a non avere una delle percentuali più alte di bambini malati d'asma? I politici non hanno il coraggio di avere orizzonti ampi perchè pensano alle amministrative vicine, ma la gente pensa al futuro dei figli". Lei sottolinea anche che la sinistra dovrebbe recuperare il concetto di comunità, riappropriarsi del pronome "noi" invece di insistere sull'individualismo sfrenato. Non le pare che la questione stia in piedi se si riferisce alla partecipazione e alla rinuncia di privilegi individuali per il bene collettivo, ma zoppichi quando si parla di diritti civili? "No: i diritti civili devono essere garantiti, ma non possiamo pensare come i teorici dell'individualismo che oltre all'individuo non esista nulla. L'uomo è un animale sociale e impara la sua identità attraverso gli altri. Pensare che non ci debba essere nessuna idea e nessun bene superiore al diritto individuale è un'aberrazione, perchè a questo punto chiunque si sente legittimato ad avanzare qualunque desiderio individuale come diritto inalienabile. Invece si tratta di armonizzare diritti collettivi". L'hanno criticata molto sui diritti dei gay: lei arriva a dire che è bene non esagerare, perchè non sarà un caso se la natura ha stabilito che per procreare ci vogliono un uomo e una donna. Allora le chiedo: il matrimonio le sembra un diritto naturale o un'acquisizione culturale? E la famiglia com'è strutturata nell'essere umano le pare un'istituzione o un istinto? "Lo so, la famiglia è varia, non è naturale ed è un'istituzione culturale. Non sono mica Ratzinger. Non sono favorevole al diritto naturale, però a me pare che abbiamo completamente dimenticato che la natura a volte ci pone dei limiti, come nel caso della riproduzione: almeno fino ad adesso ci sono sempre voluti un uomo e una donna. Si pensi al diritto di una coppia gay ma anche a quello del bambino che forse ha bisogno di una figura materna e paterna. Poi non so, non sono sicuro, pongo semplicemente un problema". Anche sulla fecondazione assistita ha sollevato critiche paventando il pericolo di "consegnare le donne all'eugenetica al mercato". Ma l'alternativa dev'essere quella di consegnarle a un calvario di burocrazia e dolore, se vogliono provare ad avere un figlio? "Certo che no. Il mio attacco è a quelli che sono convinti che l'embrione sia solo un grumo di cellule, senza mai essere sfiorati dal dubbio, dal pensiero che nessuno ancora sappia bene come funziona. E' tuttavia evidente che bisogna intervenire e regolare bene la questione per evitare che chi abbia i soldi vada in Belgio o in Spagna e chi non li ha si arrangi. Ma io voglio continuare a porre dubbi: possibile che questa gente di sinistra sia senmpre senza se e senza ma? C'è un limite? Se la signora di settantacinque anni vuole un figlio, glielo vogliamo dare?". Un altro pilastro del suo discorso sulla sinistra reazionaria è la rivalutazione dell'autorità. Non le pare che debba passare attraverso un concetto che nel suo libro trova poco spazio, quello del merito? In altre parole: più autorità significa lottare come si deve contro corruzione, clientelismo, evasione fiscale, precariato, invece di piegarsi agli interessi dei poteri forti? "Sì, significa anche questo. Il concetto di "auctoritas" latino vuol dire assunzione di resposabilità: se io governante non cerco di rispondere ai miei doveri, nessun altro lo farà. Se ciascuno fosse abituato a rispondere a dei doveri oltre che ad avere dei diritti, non ci troveremmo in questa situazione". Dica la verità: lei crede che una sinistra come quella da lei auspicata abbia davvero posto in un Paese che storicamente non ha granchè a cuore il bene collettivo, il senso civico, la rinuncia ai privilegi? Non siamo mica in Svezia... "Non aspiro a posizioni di maggioranza. Ci tocca in questo paese fare le minoranze eticamente forti. E dire: ragazzi, ricordatevi che il bene collettivo è il bene di tutti. Non oso sperare di più".


 

Finanza e Mercati 27-4-2007 Ancora qualche scossone per Aedes dopo il terremoto che ha sconvolto nei giorni scorsi il mercato immobiliare spagnolo.

 

Ieri il gruppo italiano a Piazza Affari ha ceduto l'1,6% a 6,83 euro, con quasi 477mila titoli passati di mano a fronte di una media giornaliera, calcolata sulla base dell'ultimo mese, di 213mila azioni circa. Sullo sfondo, le voci sul possibile imminente scoppio della bolla immobiliare nella penisola iberica, che da un paio di sedute sta facendo tremare gli specialisti del mattone anche in Italia, considerato uno dei mercati più affini a quello spagnolo. Nel frattempo, l'assemblea degli azionisti del gruppo Aedes martedì scorso ha approvato il bilancio d'esercizio 2006, che si è chiuso con ricavi lordi in crescita del 36% a 298 milioni e un utile netto di 27,2 milioni, in crescita del 63 per cento. Anche se l'indebitamento finanziario netto al 31 dicembre scorso è salito a 411,8 milioni dai 338,5 milioni di fine 2005. È così stata approvata la distribuzione di un dividendo di 0,25 euro per azione, per complessivi 23,7 milioni, in distribuzione a partire dal 10 maggio.


 

Il Corriere della sera 26-4-2007 Tecnologia fallibile Ritiro batterie Sony: è la volta di Acer. Alessandra Carboni

 

Annunciato un richiamo che coinvolge migliaia di batterie di computer portatili difettose

WASHINGTON – Si torna a parlare delle batterie difettose di casa Sony, e anche questa volta il co-protagonista della vicenda è un grosso nome del settore dei computer portatili. Proprio ieri, infatti, Acer ha annunciato il richiamo di circa 27 mila batterie utilizzate in alcuni dei suoi laptop Pc: si tratta sempre delle batterie agli ioni di litio contenenti celle prodotte da Sony Energy Devices Corporation.

L’ANNUNCIO – Come si legge nel documento con cui il produttore avvisa la clientela, «sono 16 i casi segnalati di surriscaldamento di batterie per portatili. Le prime segnalazioni hanno riportato danni minori agli oggetti e due casi di ustioni non gravi. Nessuno di questi casi riguarda portatili Acer». Tuttavia segue quindi l’invito ai possessori di portatili Acer a verificare il gruppo di appartenenza delle batterie e a contattare il numero verde per richiedere la sostituzione in caso vi sia corrispondenza con la serie incriminata.

I PRECEDENTI – I primi problemi con le batterie Sony risalgono all’agosto dell’anno scorso, quando l’azienda ha dovuto ritirare oltre 4 milioni di unità difettose in seguito all’esplosione di un portatile Dell . Anche in quel caso si trattava di problemi di surriscaldamento che hanno causato danni non indifferenti. A pochi giorni di distanza, poi, è stata la volta di Apple: il gigante della mela morsicata aveva deciso il ritiro di 1,8 milioni di componenti dei suoi portatili, sempre per via del rischio di surriscaldamento ed esplosione delle batterie al litio marchiate Sony. Nel mese di ottobre, infine, le scintille fuoriuscite da un portatile Fujitsu (anch’esso dotato di batteria Sony) mentre era spento e in carica hanno causato il ferimento lieve del proprietario. In questa circostanza la stessa Sony ha ammesso la propria responsabilità. Dal primo verificarsi del problema a oggi, Sony ha già ritirato dal mercato più di 10 milioni di batterie.

26 aprile 2007


INDICE 26-4-2007

 

++ Panorama 26-4-2007 Renzo Rosati – Penali Mutuin. Il nuovo, e forse definitivo incontro, è fissato per domani, venerdì 27 aprile.

++ Wall Street Italia 26-4-2007 TASK FORCE EUROPEA PER EMERGENZA CLANDESTINI

++ Brescia Oggi 26-4-2007 BANCA MONDIALE. Troppo vicina a Bush L'Europa contesta la linea Wolfowitz

+ Il Sole 24 Ore 26-4-2007 L'euro ai massimi, crescita tedesca più forte di Riccardo Sorrentino

+ La Repubblica 26-4-2007 Sì di Bruxelles a direttiva antipirateria. Niente carcere per il download privato. Il Parlamento europeo approva la risoluzione che introduce sanzioni penali per la contraffazione e la violazione della proprietà intellettuale

Il Corriere della Sera 26-4-2007 Ritiro dall'Iraq, sì dalla Camera Usa. Ma Bush ribadisce: «Porrò il veto»

L’Unità 26-4-2007 Il capitalismo dei padroni "senza volto" "Private equity": società ricchissime e potenti, globalizzate e spesso misteriose di Roberto Rossi

La Repubblica 26-4-2007 IL CASO I tonfi dei giorni scorsi innescati dai tassi di crescita dei prezzi delle case, mai così bassi da otto anni a questa parte Bolla immobiliare anche a Madrid la Borsa trema, poi tenta il recupero 16,14 VITTORIA PULEDDA

Il Giornale 26-4-2007 L'Umbria blocca da due anni il voto anti stipendi d'oro di Pierangelo Maurizio

Il Piccolo di Trieste 26-4-2007"La tradizione laica è una ricchezza" Trieste città laica.

Europa 26-4-2007 Federico Orlando risponde

Il Riformista 26-4-2007 Darwin e Dico Lo stesso rifiuto  di Orlando Franceschelli

 


 

++ Panorama 26-4-2007 Renzo Rosati – Penali Mutuin. Il nuovo, e forse definitivo incontro, è fissato per domani, venerdì 27 aprile.

 

L'[2] Banca d'Italia a stabilire la "giusta entità" delle penali. Le parti sono abbastanza vicine ma non vicinissime. Oggi l'estinzione anticipata di un [3] mutuo costa al cliente mediamente intorno al 1,5%, se il tasso è variabile, e circa il doppio se il tasso è fisso. Queste percentuali scattano sulla quota di capitale residua; o, nel caso di particolari mutui nei quali la rata è costituita da soli interessi ed il capitale viene rimborsato a blocchi secondo tabelle programmate, la penale si applica sulla parte eccedente la quota massima di restituzione prevista ad una determinata data. L'abolizione delle penali, assieme alla "portabilità" dei mutui, cioè alla possibilità di trasferirli da una banca all'altra nel caso di condizioni più favorevoli, con le relative spese a carico del nuovo istituto prescelto dal cliente, costituiscono il fiore all'occhiello del decreto Bersani. Ma, appunto, non si applicano ai contratti già in vigore. Nelle riunioni che si sono succedute per tutto aprile Abi e associazioni dei consumatori ([4] Cncu-Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti), le banche erano partite da una proposta di riduzione all'1% delle penali per il tasso variabile, mentre i consumatori chiedevano lo 0,1. Poi l'Abi ha proposto lo 0,65%, ed i consumatori lo 0,30. Alla fine un accordo sembrava raggiunto il 18 aprile (ed era in qualche modo stato annunciato) intorno allo 0,5%, sempre per il tasso variabile, con uno sconto di un altro 0,1% in caso di muti che già prevedevano condizioni più vantaggiose. Ma proprio l'ipotesi di accordo ha messo zizzania tra una dozzina di associazioni e le altre capeggiate dall'Adusbef. Scambi di accuse, addirittura di tradimento. L'ipotesi attuale è che ci si accordi per una penale tra lo 0,4 e lo 0,5% per i mutui a tasso variabile, e tra l'1,3 ed 1,8 per quelli a tasso fisso; con una serie di ulteriori clausole a beneficio del cliente (alcune già praticate dalle banche): per esempio, nessuna penale una volta superata la restituzione della metà del capitale. In caso di mancato accordo Bankitalia avrà 30 giorni di tempo per intervenire a partire dal 3 maggio.

 

 


++ Wall Street Italia 26-4-2007 TASK FORCE EUROPEA PER EMERGENZA CLANDESTINI

 

- Strasburgo, 26 apr - Il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza il regolamento che istituisce un meccanismo di assistenza rapida tra gli Stati membri per fare fronte ad afflussi massicci di immigrati illegali alle proprie frontiere. Il regolamento istituisce un meccanismo che possa garantire assistenza operativa rapida "per un periodo limitato" allo Stato membro che ne faccia richiesta e che si trovi a fare fronte a "sollecitazioni urgenti ed eccezionali", specie in caso di afflusso massiccio alle frontiere esterne di cittadini di paesi terzi che tentano di entrare illegalmente nel territorio dello Stato membro, attraverso la creazione di squadre di intervento rapido alle frontiere. E' anche precisato che il regolamento si applica "fatti salvi i diritti dei rifugiati e delle persone che chiedono protezione internazionale, in particolare per quanto riguarda il non respingimento". In caso di necessità, quindi, gli Stati membri dovranno mettere a disposizione del personale che possa essere mobilitato entro cinque giorni. I salari saranno a carico dello Stato di origine della guardia di frontiera, ma gli altri costi saranno sostenuti dall'Agenzia Ue. Ricerca archivio articoli e quotazioni Invia questo articolo a un amico Che tu sia d'accordo o no, fai conoscere a tutti la tua opinione. Per scriverci utilizza il link Scrivi a WSI Per continuare a dibattere "dal vivo" questo tema iscriviti al Forum di Wall Street Italia.

 


 

++ Brescia Oggi 26-4-2007 BANCA MONDIALE. Troppo vicina a Bush L'Europa contesta la linea Wolfowitz

 

New York. Si fa sempre più difficile la posizione di Paul Wolfowitz alla testa della Bm Banca Mondiale: dopo le accuse di nepotismo per aver deciso un cospicuo aumento di stipendio per la sua compagna Shaha Riza, dipendente della Bm, è finita sotto attacco la sua politica, considerata troppo vicina alla Casa Bianca, in particolare sotto il profilo morale. Che le scelte di Wolfowitz non piacessero agli europei non è una novità. Ma ora, per la prima volta, sono criticate, visto che il neo-con super-laico, architetto da ex numero due del Pentagono della guerra in Iraq, pare aver sposato l'agenda teo-con di George W. Bush. Secondo il Wall Street Journal, in una riunione a porte chiuse del board Bm, rappresentanti di alcuni Paesi, tra cui Germania, Francia e Italia, si sono opposti alla proposta di Washington di fornire assistenza nella pianificazione familiare, tra cui la possibilità di abortire, solo alle maggiorenni. Per i critici, una proposta di questo tipo non avrebbe senso nei paesi in via di sviluppo, dove il numero di gravidanze è elevato tra le minorenni. Secondo il New York Times, un'altra decisione di Wolfowitz, quella di sospendere un programma all'India del valore di un miliardo di dollari, per ragioni analoghe "ha mandato su tutte le furie l'entourage del premier Tony Blair, visto che la Gran Bretagna partecipava al programma". In un primo tempo, le critiche degli europei si erano limitate alla vicenda Riza. Era considerato inaccettabile il fatto che Wolfowitz che ha fatto della lotta alla corruzione una priorità finisse coinvolto in uno scandalo del genere. Wolfowitz si è scusato, ma non dimesso, sostenendo di non avere fatto nulla di illegale. L'aumento di stipendio è giustificato dal fatto che la Riza ha dovuto lasciare la Bm, pur rimanendo in busta paga, rinunciando a una brillante carriera.

 


+ Il Sole 24 Ore 26-4-2007 L'euro ai massimi, crescita tedesca più forte di Riccardo Sorrentino

 

Se non è stato record, ci è mancato poco. L'euro, secondo la Reuters, ha toccato ieri 1,3665 dollari, a un soffio dal massimo storico a quota 1,3667 segnato nel dicembre 2004. Questa volta, però, nessuno sembra preoccuparsi, e il motivo c'è. L'exploit era annunciato. È da settimane da mesi... che il valutario si muove seguendo uno schema che prevede la flessione del dollaro e il rafforzamento dell'euro. La valuta americana è "penalizzata" dal rallentamento dell'economia del 2006, dalle attuali difficoltà del settore immobiliare e dalla prospettiva di un prossimo taglio dei tassi; quella di Eurolandia è invece sostenuta dalla continua ripresa e dalla quasi certezza che la stretta monetaria continuerà. Anche ieri il mercato si è mosso seguendo queste linee guida, malgrado le apparenze. L'indice Ifo sul sentiment delle aziende salito a 108,6,a un passo dal massimo da quindici anni ha mostrato che l'economia tedesca va bene, e questo ha portato in alto l'euro. Poi gli ordini americani di beni durevoli hanno segnato a marzo un aumento del 3,4% mensile, in accelerazione,dando qualche segnale negativo su come è andato il primo trimestre e qualche buona prospettiva per il resto dell'anno; e il dollaro ha potuto recuperare terreno. La fragilità dell'immobiliare, il calo delle vendite americane di nuove case a marzo e le limitate richieste di permessi per aprile hanno riportato l'euro verso l'alto, fino a un passo dal massimo. In serata il beige book non proprio ottimistanon ha sostanzialmente modificato la situazione. L'euro si è così avviato alla conclusione della seduta scambiato a 1,3640. La forza di Wall Street, invece, sembra non aver emozionato gli investitori sul valutario. La Borsa si è mossa per motivi "interni", la forza dei profitti aziendali americani, ed è stata in fondo sostenuta daglistessi motivi che hanno animato i cambi: il buon andamento degli ordini aziendali e la prospettiva di un taglio dei tassi. Nessuna sorpresa, dunque, e nessuna contraddizione. Il trend di debolezza del dollaro dovrebbe ora continuare, almeno fino a quando non sarà più chiara quale sarà la durata del ciclo di strette della Banca centrale europea, la quale in occasione dell'ultimo rialzo ha fatto capire che i tassi sono quasi arrivati al livello neutrale e non sono ancora in territorio restrittivo.Il cambio,però, modifica queste valutazioni: il rialzo della valuta si comporta quasi come un aumento del costo del denaro e tende, sia pure attraverso un diverso canale, a rallentare l'inflazione. Quello che può sorprendere, piuttosto, è l'assenza di grandi proteste da parte del mondo politico e imprenditoriale. Ci sono stati alcuni richiami, è vero, ma in termini molto tecnici: non è il livello del cambio a suscitare preoccupazione, ma la rapidità del rialzo e la tendenza del mercato a comportarsi come se non ci fossero alternative. Lo schema di politica valutaria adottato dall'Unione monetaria puntaalmeno ufficialmente a contrastare unicamente questi due fenomeni. Il ministro dell'economia tedesco Michael Glos, ieri,ha così spiegato che «la Germania sta naturalmente affrontando bene l'attuale cambio euro/dollaro. Se ci fossero ulteriori rialzi potrebbe sorgere qualche rischio, ma attualmente la situazione è sostenibile come mostra l'andamento delle esportazioni. D'altra parte alleggerisce il peso di quanto dobbiamo pagare per le importazioni di energia». La ragione di questa apparente tranquillità è semplice. L'euro è ai massimi sul dollaro e ha da poco tempo segnato l'ennesimo record sullo yen; ma non esistono soltanto queste due valute.Il cambio effettivo, che tiene conto di tutte le monete dei principali partner dell'Unione non è ancora al record: ieri era a quota 107,31 mentre a fine 2004 aveva raggiunto 108,27. Allora, inoltre, il rialzo fu decisamente più rapido: in tre mesi il valore effettivo dell'euro salì del 6%,mentre nella situazione attuale è salito del 6,7% in quattordici mesi. E la velocità conta.


+ La Repubblica 26-4-2007 Sì di Bruxelles a direttiva antipirateria. Niente carcere per il download privato. Il Parlamento europeo approva la risoluzione che introduce sanzioni penali per la contraffazione e la violazione della proprietà intellettuale

 

Tolleranza zero per chi agisce su larga scala e a scopo di lucro Non rischia chi scarica da internet per utilizzo personale

 

BRUXELLES - Fino a quattro anni di reclusione per i reati di pirateria e contraffazione se vengono commessi nell'ambito di un'organizzazione criminale oppure comportano un rischio per la salute o la sicurezza delle persone. Di fatto, tolleranza zero per quel che riguarda la contraffazione su larga scala, ma niente carcere per chi viola il diritto d'autore a titolo privato. Gli utenti del web possono stare tranquilli. Il Parlamento europeo ha approvato - con 374 voti a favore, 278 contrari e 17 astenuti - la risoluzione di Nicola Zingaretti (Ds) che introduce sanzioni penali per la contraffazione e la violazione della proprietà intellettuale. Sono stati adottati vari emendamenti, che modificano la proposta avanzata dalla Commissione Ue per escludere dal campo di applicazione della direttiva "atti compiuti da un utilizzatore privato per fini personali e non di lucro". 

In sostanza, non rischiano fino a quattro anni di carcere e sanzioni da 100 mila a 300 mila euro i singoli che si scaricano qualcosa da internet, perché l'obiettivo è colpire la contraffazione su larga scala e il crimine organizzato, ovvero - come prevede la norma - "qualsiasi violazione intenzionale del diritto di proprietà intellettuale commessa su scala commerciale, la complicità e l'istigazione".

Secondo l'analisi del relatore Zingaretti, negli ultimi 10 anni il volume delle merci contraffatte è aumentato del 1600%: si tratta di giocattoli, abiti, scarpe, alimenti, cosmetici, sostanze chimiche, prodotti gastronomici con denominazioni false, occhiali, cd, dvd. Un fenomeno che ha portato a 125 mila nuovi disoccupati in Europa. Le misure riguardano il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale "nel contesto della contraffazione e della pirateria". 

Per "diritti di proprietà intellettuale" si intendono: diritto d'autore, diritti connessi al diritto d'autore, diritto sui generis del costitutore di una banca di dati, diritti dei creatori di topografie di prodotti semiconduttori, diritti relativi ai marchi (nella misura in cui l'estensione a essi della protezione del diritto penale non sia in contravvenzione delle norme sul libero mercato e sulle attività di ricerca), diritti relativi ai disegni, indicazioni geografiche e denominazioni commerciali (nella misura in cui sono protetti dal diritto nazionale in quanto diritti di proprietà esclusivi). 

Sono stati esclusi i brevetti e i diritti di proprietà industriale derivanti dai brevetti. Data la complessità della maggior parte dei progetti di ricerca, nello svolgere il proprio lavoro gli inventori, secondo l'Europarlamento, rischiano continuamente di violare i diritti brevettuali. Prevedere sanzioni penali per queste violazioni, pertanto, potrebbe distogliere inventori e ricercatori dal compiere scelte innovative. 

La parola ora passa al Consiglio dove già si prevedono le resistenze di Paesi, come la Gran Bretagna, tradizionalmente ostili a modifiche del codice penale attraverso una normativa europea. "Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Aspettiamo di vedere che cosa faranno Commissione e Consiglio" ha commentato Zingaretti, secondo il quale "per la prima volta, il Parlamento europeo dice sì all'armonizzazione degli ordinamenti penali nei 27 Stati membri". "L'Europa utile è anche questa - ha aggiunto - perché non c'è mercato unico senza regole comuni, e non c'è equità al di fuori di un diritto mite: nessuna esitazione contro la criminalità organizzata ma tutela dei consumatori e degli utenti della rete". 

(26 aprile 2007)

 


Il Corriere della Sera 26-4-2007 Ritiro dall'Iraq, sì dalla Camera Usa. Ma Bush ribadisce: «Porrò il veto»

 

Approvata la legge che fissa nell'aprile 2008 la scadenza della missione delle truppe. Oggi il voto del Senato.

WASHINGTON (STATI UNITI) - La Camera dei rappresentanti Usa ha approvato, con 218 voti favorevoli e 208 contrari, una legge che indica nell'aprile 2008 la scadenza della missione delle truppe americane in Iraq. Anche se la data, inserita nella legge che stanzia i fondi per le missioni militari in Iraq e in Afghanistan, è puramente indicativa, il presidente George W. Bush ha già fatto sapere che metterà il veto al provvedimento, che sarà votato oggi (giovedì) anche dal Senato.

INCONTRI A PORTE CHIUSE - Il presidente Bush aveva inviato mercoledì il generale David Petraeus, comandante delle truppe americane in Iraq, al Congresso per una serie di incontri a porte chiuse con i membri della Camera e del Senato per convincerli a non approvare una legge con un termine per la permanenza dei soldati statunitensi in Iraq. L'argomento principale del generale è che la nuova strategia americana in Iraq, con il rafforzamento delle truppe Usa e irachene a Bagdad e altrove, è giunta solo a metà strada. Soltanto a settembre sarà possibile vedere se il piano funziona o meno. Secondo il presidente Bush è già possibile vedere segni di progresso nella capitale, con la diminuzione della violenza settaria; ma gli attentati di Al Qaeda con le auto imbottite di esplosivo cercano di mascherare questa realtà proiettando una immagine di caos e di anarchia. «Date al piano una possibilità di funzionare», ha detto l'inquilino della Casa Bianca, «finora sono giunti solo metà dei rinforzi previsti».

STANZIATI FONDI - La legge approvata dalla Camera, che stanzia i fondi per portare avanti le guerre in Iraq e in Afghanistan - nell'ambito di uno stanziamento complessivo per le missioni militari all' estero di circa 124 miliardi di dollari - contiene clausole che prevedono una diminuzione delle truppe americane a partire dal prossimo mese di ottobre ed il rimpatrio della grande maggioranza di esse entro aprile 2008, quando i soldati americani non dovranno essere più impegnati in missioni di combattimento ma solo di addestramento delle forze di sicurezza irachene. Dopo tale scadenza i militari potranno essere impiegati solo per proteggere i cittadini americani in Iraq e per specifiche e mirate operazioni di contro-terrorismo. Il presidente Bush ha spiegato che metterà il veto alla legge, dopo che sarà approvata anche dal Senato e giungerà sulla sua scrivania, perché l'introduzione di «date arbitrarie» per il rimpatrio delle truppe americane «lega le mani ai generali» e «avvantaggia il nemico». 

BUSH ALL'ATTACCO - La Casa Bianca accusa di «disfattismo» la maggioranza democratica del Congresso e in particolare nel mirino della amministrazione Bush è finito il leader dei senatori democratici Harry Reid, che sostiene che la Guerra in Iraq «è ormai perduta». Reid ha cominciato negli ultimi giorni a tracciare sempre più pungenti paralleli tra la Guerra del Vietnam e quella in Iraq, e tra il presidente Lyndon B. Johnson e Bush.

26 aprile 2007


 

L’Unità 26-4-2007 Il capitalismo dei padroni "senza volto" "Private equity": società ricchissime e potenti, globalizzate e spesso misteriose di Roberto Rossi

 

Roma SCRUPOLI Sono sempre più ricchi e di riflesso sono sempre più potenti. Sono i fondi di private equity, la nuova frontiera del capitalismo, un capitalismo senza nome e volto ma che sta fagocitando tutto: compagnie aeree, farmaceutiche, giornali, parchi, ospedali, aziende tessili. Tanto da mettere in allarme politici e sindacati. In origine la funzione del private equity era leggermente differente da quella attuale. Agli inizi degli anni '80 il private equity era uno strumento di finanziamento mediante il quale un investitore, di solito più di uno raccolto in un fondo, apportava nuovi capitali all'interno di una società, generalmente non quotata in borsa, che presentava un'elevata capacità di generare cassa in modo costante e prevedibile. L'investitore si proponeva di disinvestire nel medio-lungo termine realizzando una plusvalenza dalla vendita della partecipazione azionaria. Quella definizione oggi si è ormai persa, come la capacità di rischio. Oggi, parlare di private equity significa citare i grandi fondi d'investimento internazionali protagonisti assoluti del business mondiale. Da Blackstone a Texas Pacific Group, da Permira a Providence Equity da Kkr a Carlyle, società che complessivamente sul mercato americano l'anno scorso hanno raccolto 159 miliardi di dollari. Una massa ingente di denaro, a cui andrebbero aggiunti crediti bancari per una somma tre o quattro volte superiore, con la quale i fondi si gettano in acquisizioni e cessioni internazionali (come sa bene anche Alitalia dove in gara c'è anche Texas Pacific Group Europe). Non tutte limpidissime a dir la verità. Alla fine del 2006 la Sec, l'organismo che vigila sulla Borsa di New York, ha sparato un'inchiesta dalla quale emergeva manipolazioni di bilanci, ritorni gonfiati, corruzione e che si è conclusa con la richiesta al Congresso di un intervento regolatorio. Anche in Italia i fondi di private equity stanno prendendo piede. Rispetto all'America da noi si vola un po' più basso. I fondi di private equity sono 113 (quelli registrati all'Aifi, associazione di categoria) e nel 2006 hanno investito 3,7 miliardi su 292 operazioni e raccolto 2,3 miliardi con un incremento sul 2006 del 70%. Si vola basso ma si cresce tanto. E si diventa sempre più ricchi. Anche grazie all'aiuto delle banche tramite l'effetto leva. L'esempio di Gardaland è indicativo. Nel 2004 Gardaland, società che gestisce l'omonimo parco di divertimento, è acquistata per 320 milioni dal fondo Investindustrial che per l'operazione spende solo 120 milioni. I restanti 200 sono reperiti grazie a linee di credito bancarie. Aperte senza garanzie se non la bravura del gestore. Che tanto prima o poi il compratore lo trova. E se non lo trova lo si fa arrivare. In Italia per i fondi di private è consuetudine scambiarsi le aziende tra loro a prezzi gonfiati, cioè senza che le aziende abbiano avuto incrementi di redditività. Gli esempi si sprecano: Gardaland, passata da Investindustrial a Blackstone per 500 milioni quando due anni prima era costato "solo" 320; Sisal, azienda di scommesse, ceduta da Clessidra ad Apax e Permira a quasi il doppio del prezzo iniziale; Grandi Navi Veloci, società di traghetti, comprata da Permira e girata a Investitori associati nel2006 a un prezzo che superava un terzo del suo valore; Ferretti, la griffe degli yacht, comprata dal fondo Permira per 675 milioni ceduta nei mesi scorsi per circa 1,7 miliardi al fondo Candover. Insomma grandi passaggi, molti guadagni, zero rischi. Proprio un capitalismo all'italiana.


 

La Repubblica 26-4-2007 IL CASO I tonfi dei giorni scorsi innescati dai tassi di crescita dei prezzi delle case, mai così bassi da otto anni a questa parte Bolla immobiliare anche a Madrid la Borsa trema, poi tenta il recupero 16,14 VITTORIA PULEDDA

 

MILANO - Ieri hanno tirato il fiato, ma è davvero presto per dire che la grande paura per la bolla immobiliare sia passata. Anzi, considerando che il giorno prima l'indice della Borsa di Madrid aveva perso il 2,73% e che solo negli ultimi due giorni le prime dieci società del settore avevano bruciato 1,7 miliardi di euro di capitalizzazione, il rimbalzino di ieri è ben poca cosa: l'indice Ibex ha guadagnato lo 0,29% mentre i titoli nella bufera hanno recuperato qualche posizione in più, ma senza brillare. Insomma, il timore che la bolla stia per esplodere è ancora tutto lì e anzi il nervosismo è pronto a dilagare, da una sponda all'altra dell'Atlantico: basti pensare che due giorni fa l'indice delle vendite delle abitazioni esistenti, negli Usa, è sceso ai livelli più bassi da otto anni a questa parte, innescando diffusi nervosismi in Borsa, e che anche ieri - nonostante una Wall Street da record - l'incremento minore del previsto delle vendite delle nuove case per un attimo ha raffreddato gli entusiasmi. La società nell'occhio del ciclone, Astroc Mediterraneo, ieri ha guadagnato l'1,19%: un'inversione, quantomeno, ma ben poca cosa se si pensa che nelle cinque sedute precedenti il titolo ha perso due terzi del suo valore. Una discesa fulminea e disastrosa, per una società quotata solo da 11 mesi e che nel frattempo aveva guadagnato circa il mille per cento: tassi di crescita da bolla Internet, poi apparentemente senza ragioni specifiche il crollo a precipizio, con un effetto domino che aveva coinvolto, a inizio settimana, anche gli altri titoli del settore. Ieri le cose sono andate meglio un po' per tutti: Inmobiliaria Colonial ha recuperato il 2,69% (ma il giorno prima aveva perso oltre il 12%) il Grupo Inmocaral è risalito dell'1,15% (contro una perdita precedente dell'11,3%) e Acciona - grandi opere ma parzialmente anche società immobiliare, forse la più nota in Italia da quando, insieme all'Enel, ha conquistato Endesa - ha recuperato il 2,05%. Le vendite nella penisola iberica erano state innescate dai dati sui prezzi immobiliari, in via di raffreddamento: in aprile sono aumentati in media del 7,2% rispetto ad un anno prima, l'incremento più contenuto dal '99. Il copione, in Spagna come in tutta Europa e non solo, è sempre lo stesso: prezzi del mattone in rallentamento, tassi di interesse in tensione, primi segnali di difficoltà nei mutui ipotecari, soprattutto quelli rivolti alle fasce più deboli di popolazione (un paio di mesi fa l'americana New Century Financial ha attivato la procedura fallimentare, gettando il panico sulle Borse di mezzo continente). Anche stavolta l'allarme più acuto sembra rientrato, ma i timori per l'esplosione della bolla immobiliare restano tutti.

 


 

Il Giornale 26-4-2007 L'Umbria blocca da due anni il voto anti stipendi d'oro di Pierangelo Maurizio

 

- giovedì 26 aprile 2007, 07:00 Vota questo articolo: Vota 1 2 3 4 5 Risultato Il fatto è che difficilmente il sistema delle forze politiche rinuncerà a quella sorta di comoda retrovia, rappresentata dalle Regioni, per trombati, parcheggiati in attesa del salto a deputati e senatori e con privilegi, a spese dei cittadini, quasi pari a quelli di Montecitorio e di Palazzo Madama. Se il netto ora incassato dai consiglieri regionali è di circa 12mila euro al mese, il lordo può arrivare fino a 27mila mensili. Dovesse passare il referendum umbro, se mai si svolgerà, ci sarebbero ripercussioni pesanti anche sui vitalizi: attualmente dopo un mandato di 5 anni i consiglieri regionali, a partire dai 60 anni, hanno una pensione di 3.600 euro al mese. "Comunque - accusa Claudio Abiuso della Lista civica - in Umbria il diritto referendario incontra forti limitazioni. Altri 7-8 referendum dopo la raccolta delle firme non hanno visto la luce". E si riapre il dibattito, oltre che sui costi della politica, sul tasso reale di democrazia in terra umbra. pierangelo.maurizio@alice.it

 


 

Il Piccolo di Trieste 26-4-2007"La tradizione laica è una ricchezza" Trieste città laica.

 

Il confronto sui grandi temi è favorito dalla consuetudine al rispetto dell'altro  Può sembrare un paradosso, ma il carattere laico della città, storicamente riconosciuto, viene considerato una ricchezza e non un ostacolo dalla chiesa triestina. "Proprio a Trieste dove c'è un'accentuata tradizione laica - dice il vescovo Eugenio Ravignani - è meno forte lo scontro fra laici e cattolici, e questo perché la cultura laica favorisce una forma di rispetto e di dialogo; è anche per questo che il dialogo interreligioso è così proficuo: quest'anno non abbiamo partecipato insieme alla Pasqua solo perché coincideva lo stesso giorno per cattolici, ortodossi ed ebrei; e con il rabbino Piperno avevo instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia, mi dispiace molto che se ne sia andato". "La chiesa sta bene in una città laica come Trieste - interviene don Ettore Malnati - perché il laico triestino non è un anticlericale, ma è un laico che cerca il confronto con l'altro: questo è un portato della storia, da quando la città nel Settecento ebbe le patenti di libero culto". "E per questo Trieste è città pilota nel dialogo interreligioso", aggiunge don Dusan Jakomin, mentre per don Silvano Latin "quella di Trieste è una specie di laicità sacra, Trieste è laica da sempre". "L'ecumenismo e il dialogo interreligioso a Trieste è qualcosa di pratico che si attua nella quotidianità - afferma don Mario Vatta - e per la città tutta la laicità (non il laicismo) rappresenta senza dubbio una marcia in più".

 


 

Europa 26-4-2007 Federico Orlando risponde

 

Cara Europa, leggo che il governo ha perso ancora quattro punti nel mese di marzo in termini di consenso popolare.
Non credo perché abbia fatto cose cattive, che non riesco a vedere. Ma perché credo non abbia fatto cose attinenti alle aspettative vere delle persone. Vedo Prodi in giro per il mondo e mi chiedo perché non giri l’Italia; vedo partiti riunirsi a congressi e discutere cose che noi lettori nemmeno al telegiornale riusciamo a seguire, e non ci parlano del nostro pane quotidiano e delle prospettive per il nostro futuro qui in terra.
Dobbiamo durare così cinque anni? 
ADELE ROSSETTI, TORINO

Cara Signora, immagino che lei mi scriva sotto l’effetto della lettura de La Stampa di stamattina (ieri). Ha fatto benissimo il mio “vecchio” direttore Anselmi ad aprire il giornale sugli abusi a danno di 15 o più bambini, a opera di insegnanti e altri in una scuola materna di Rignano Flaminio, vicino Roma. Altro che visita all’imperatore del Giappone o al re dell’Arabia Saudita o messaggio (non visita) a Ségolène Royal. Ha fatto bene, inoltre, a pubblicare come seconda notizia la legge che abolisce la Bossi- Fini, purché la nuova crei davvero immigrati regolari: e mi chiedo se Amato, che quando non parla troppo di fretta e non dice troppe cose insieme ha il pregio della chiarezza e della comunicativa, andrà in tv, con imprenditori, sindaci, padri e madri di famiglia, ufficiali di polizia, a spiegare la programmazione triennale dei nuovi flussi d’immigrazione, il ritorno dello sponsor garante, le liste di collocamento degli stranieri disposti a venire a lavorare da noi e non a fare i papponi o, peggio, gli integralisti: insomma, convinca gli italiani che la legge serve allo sviluppo economico del paese non meno dei viaggi di Prodi per il mondo. Vedo poi che il suo giornale annuncia in prima pagina inchieste sul Po che muore di caldo e per il disinteresse di troppi: e mi chiedo se non sia arrivato il momento non solo di mandare l’esercito in Campania e altrove per far costruire gli inceneritori prima che la gente muoia di colera sommersa dai suoi rifiuti; ma anche di avocare allo Stato la scelta dei siti, “sentite” le popolazioni, per costruire le centrali, i termoconvertitori, i degassificatori e quant’altro serve a un popolo di 58 milioni di persone che non rinunciano al termosifone d’inverno, al condizionatore d’estate, al frigorifero al televisore al telefono allo scaldabagno alla lavatrice al mangiadischi e alle lampade ad alto e basso consumo, infischiandosene di sapere se quell’energia che consumiamo, e di cui lamentiamo la bolletta, la produciamo oppure la compriamo.
Mi piacerebbe che il presidente del consiglio, i ministri dell’agricoltura e delle strutture, facessero lunghe passeggiate, anche in bicicletta, sugli argini del Po e degli altri fiumi, con divieto assoluto di usare la maschera affinché anche i loro polmoni si riempiano dei miasmi delle cloache che vi si riversano; e chiedessero conto alle venti regioni e ai cinquemila enti dell’acqua cos’hanno fatto per gli acquedotti che perdono da sempre il 40 per cento del liquido che trasportano. Eccetera. E infine mi piacerebbe che Padoa-Schioppa si domandasse perché è lui il ministro col più basso indice di gradimento: se per caso, a parte costante destino dei risanatori, da Quintino Sella in poi, non sarebbe meglio parlare alle famiglie e alle persone più da ministri e meno da sacerdoti del bilancio.


 

Il Riformista 26-4-2007 Darwin e Dico Lo stesso rifiuto  di Orlando Franceschelli


«Mi sembra che sia stata la Provvidenza ad averti indotto, Eminenza, a scrivere una chiosa (Glosse) sul New York Times». Così Benedetto XVI, rivolto al cardinale di Vienna Schönborn, nel ringraziarlo della relazione conclusiva dell’incontro su “Creazione ed evoluzione” svoltosi a Castel Gandolfo lo scorso settembre. Una chiosa che merita davvero tanta considerazione: sebbene a colpi d’accetta, come più tardi ha riconosciuto lo stesso cardinale, con essa, appena scomparso Giovanni Paolo II, veniva riaperto l’attacco contro la teoria dell’evoluzione. Chiosando, appunto, come «vaga e trascurabile» persino la presa di posizione con cui nel 1996 papa Wojtyla aveva riconosciuto che ormai la teoria dell’evoluzione non può essere considerata più «una mera ipotesi». Ne seguirono polemiche in tutto il mondo. Con proteste anche da parte di eminenti scienziati cattolici, che si appellarono direttamente allo stesso Benedetto XVI. Oggi, grazie alla pubblicazione degli atti del convegno del 2006 (Schöpfung und Evolution, con prefazione del cardinale Schönborn), sappiamo che il 7 agosto del 2005, sulle pagine del quotidiano newyorkese, era all’opera la Provvidenza. E che forse l’alto presule viennese aveva previsto persino la battaglia sui Dico.
Per l’attuale pontefice, anche il suo predecessore, «aveva le sue ragioni» quando si espresse in quel modo nel 1996. Ma si tratta di «ragioni» che proprio a Benedetto XVI, esattamente come al cardinale Schönborn, non costa poi molto lasciar cadere. Anzi, a papa Ratzinger preme l’esatto opposto dell’apertura di Giovanni Paolo II: presentare la teoria dell’evoluzione come non scientificamente verificata (wissenschaftlich verifiziert). Di più: come non provabile (nachweisbar) per via sperimentale in molti suoi aspetti. Al punto che la comunità internazionale dei biologi non saprebbe neppure di cosa parla quando si appella alla «natura» o all’«evoluzione» che avrebbero fatto questo o quello: «Chi è propriamente la “natura” o l’“evoluzione” in quanto soggetto?», chiedono all’unisono il pontefice e il cardinale.



 

Il Riformista  Il centrista superstar spacca in tre il Pd di Stefano Cappellini

Francesco Rutelli è stato informato in dettaglio delle mosse di François Bayrou - nessun sostegno ai due candidati rimasti in lizza per l’Eliseo, fondazione del Partito democratico francese in vista delle imminenti legislative, radicamento del progetto centrista (anche se Bayrou preferisce la dizione «centrale») - ben prima che il leader dell’Udf le ufficializzasse ieri. Nelle ultime ventiquattr’ore Bayrou e Rutelli, alleati a Strasburgo in un altro Pd, quello europeo, si sono sentiti ripetutamente, segno di un’intesa profonda tra i due leader. E il leader francese ha omaggiato di una citazione il vicepremier margheritino (e il premier Romano Prodi) nel corso della sua conferenza stampa: «Con Prodi e Rutelli avemmo un’idea, quattro anni fa, di quello che poteva essere il futuro, e creammo il Partito democratico europeo».
Un’idea che è alla base della spaccatura del Pd italiano in tre fronti: uno prodian-rutelliano, che pur auspicando un successo di Royal (con qualche eccezione pro-Sarkozy) sposa in pieno la strategia terzista e neutralista di Bayrou; un’area mediana, forte soprattutto tra i popolari della Margherita, che sostiene il progetto del centrista francese ma confida in una convergenza coi socialisti; infine un’area che si identifica quasi integralmente coi Ds, i soli a invocare un tifo univoco e senza se per Ségolène. «Da Bayrou non ci aspettavamo nulla di diverso», si minimizza al Botteghino. Dove si confidava piuttosto in un altro atteggiamento da parte di Romano Prodi, che domani al comizio di Royal a Lione sarà presente in videomessaggio (in chiave più europeista e isituzionale che di endorsement, a quanto si apprende) e solo perché il pressing di Piero Fassino ha portato l’altroieri a questa soluzione dopo una giornata molto tesa tra il Prof e la Quercia. «Mi piace vedere il bicchiere mezzo pieno - dice Luciano Vecchi, responsabile Esteri dei Ds - e cioè che per la prima volta un candidato di centro non invita a votare al secondo turno per quello della destra».

 


 

La Stampa 26-4-2007 IL CASO I soldati “verdi” del capitano Gore Il via da Nashville a una crociata in difesa del clima. Maurizio Molinari

 

CORRISPONDENTE DA NEW YORK Nonni determinati a salvare il futuro dei nipoti, ex concorrenti di Miss Oklahoma convinte di poter convertire i manager del petrolio, giocatori di football appassionati di arti marziali e giovani sicuri di avere di fronte la missione da compiere per proteggere il Pianeta. Si tratta dei soldati di Al Gore, l’esercito di volontari che l’ex vicepresidente ha riunito per 48 ore in un hotel di Nashville, nel suo Stato del Tennessee, per trasformarli in missionari globali della difesa del clima.

Il programma delle «Nashville Training Sessions» vede Gore impegnato a illustrare nei dettagli il film «An Inconvenient Truth» - vincitore di due Oscar - affinché i volontari possano sentirlo come proprio, impossessandosi dei contenuti quanto basta per essere poi loro a girare l’America e il mondo per portarlo in scuole, club, congressi, conferenze, centri comunitari e religiosi con il fine di far crescere dal basso la mobilitazione a favore della difesa del clima e dell’impegno per la drastica limitazione delle emissioni nocive che causano il surriscaldamento dell’atmosfera. «The Climate Project» (Il progetto clima) è il nome dell’iniziativa intrapresa da Gore che assomiglia ad un movimento politico ma su scala globale: prevede lo svolgimento a Sydney di «Australian Training Sessions» parallele a quelle di Nashville, al fine di sottolineare che l’impegno dei volontari non deve essere limitato a nessun emisfero. I volontari americani in poche settimane hanno toccato quota mille - l’obiettivo desiderato da Gore - e arrivano a Nashville a proprie spese per gettarsi in sedute «full immersion» destinate a farne degli ambasciatori itineranti del messaggio di allarme sugli eventi devastanti che possono colpire il nostro Pianeta se i gas serra non saranno fermati.

Composta da democratici e repubblicani, laici e religiosi, conservatori e liberal, bianchi, ispanici, asiatici e afroamericani, l’armata dei volontari si presenta come uno spaccato della nazione: dal settantenne nonno texano Gary Dunham determinato a portare il film nelle case di riposo per anziani d’America a Pat Michaels, analista di questioni climatiche del Cato Institute di Washington, dal giocatore dei Philadelphia Eagles Dhani Jones che vuole «rappresentare il mondo dello sport in questa battaglia» fino alla giovane universitaria Tiffany Legg intenzionata a presentare il film non solo nei licei ma anche a chi inquina di più, come i manager del gigante petrolifero Conoco. Ognuno è arrivato a conoscere «An Inconvenient Truth» a modo proprio: Jones lo ha visto dopo una partita, la stessa sera in cui andò a vedere anche un film di arti marziali, mentre Tiffany Legg, già in concorso per diventare Miss Oklahoma, vi intravede l’opportunità di impegnarsi per una «buona causa».

Ai vertici del «Progetto Clima» c’è un direttore stakanovista, Jenny Clad, che ha spiegato a «UsaToday» di considerare Nashville «solo un inizio» e crede che la chiave del successo sia nel rapporto diretto fra Al Gore e i volontari. Non a caso ogni gruppo che arriva per partecipare all’addestramento - può comprendere da un minimo di 50 ad un massimo di 600 persone - non solo ha modo di incontrare e ascoltare l’ex vicepresidente ma viene invitato a visitare la sua fattoria del Tennessee, affinché possa sentirsi parte non solamente di una missione ma anche di una grande famiglia. Una volta terminato il «training» i volontari entrano a far parte di un network che organizza le proiezioni del film per ogni tipo di pubblico in ogni angolo d’America e lo schema studiato per gli eventi prevede che al termine dello spettacolo venga offerto agli spettatori di aderire a una petizione al Congresso che contiene la richiesta fatta da Gore di fronte al Senato lo scorso marzo: congelare subito il livello di emissioni nocive per poi iniziare a ridurle. Così ha fatto due sere fa a Wichita, Kansas, la volontaria Susan Pereverzoff proiettando il film nella sala della Biblioteca e anche lanciando il sito Internet «Stepitup» (Fatti avanti) che, secondo il tam tam di Washington, potrebbe trasformarsi facilmente nel punto di riferimento online di una campagna presidenziale se Al Gore dovesse decidere di rompere gli indugi e lanciarsi verso la Casa Bianca 2008. 

Albert Arnold Gore, ex vicepresidente
Nato a Washington, D.C., il 31 marzo 1948, è un uomo politico statunitense. E’ stato nella Casa Bianca dal 1993 al 2001 sotto la presidenza di Bill Clinton.


INDICE 25-4-2007

+ La Padania 24-4-2007 Maxitruffa alla Ue, un bottino da 26 milioni di euro. Rimborsi agricoli gonfiati, blitz in 4 regioni: 45 arresti e oltre 500 indagati

La Repubblica 25-4-2007 Ecco gli istituti che hanno venduto 200 milioni di bond prima del crac A gennaio 2003 i grandi creditori di Tanzi avevano 229 milioni di titoli, a dicembre erano diventati 31 ETTORE LIVINI

Il Riformista 25-4-2007 È rimorto il Pci. Da oggi siamo tutti più liberi di Peppino Caldarola

Il Riformista 25-4-2007 Angius: «Non lascio Mi lasciano loro» di Alessandro De Angelis

L’Unità 25-4-2007 L'Italia incompatibile Furio Colombo

La Repubblica 25-4-2007 "Jeb per ora non si candida" Bush senior ammette "L'America è stanca di noi"  Vittorio ZUCCONI

Finanza e Mercati 25-4-2007 L'onda lunga generata dallo tsunami che sta investendo il real estate spagnolo si è abbattuta anche in Italia

La Stampa 24-4-2007 Telecom: governo, più poteri a Authority. Esecutivo vara l'emendamento al ddl sulle liberalizzazioni

 


 

+ La Padania 24-4-2007 Maxitruffa alla Ue, un bottino da 26 milioni di euro. Rimborsi agricoli gonfiati, blitz in 4 regioni: 45 arresti e oltre 500 indagati


Una truffa ai danni dell’Unione Europea è stata scoperta dalla procura di Palmi (Reggio Calabria) che, attraverso i carabinieri, ha eseguito in Calabria, Lazio, Toscana e Piemonte 45 ordinanze di custodia cautelare in carcere.
L’operazione, denominata “Withdrawal” (ritiro), si è svolta nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Vibo Valentia, Roma e Prato. Gli illeciti sono stati commessi tra il 2000 ed il 2006. Eseguiti anche sequestri patrimoniali per un importo equivalente agli illeciti accertati (26 milioni di euro). Nel mirino degli investigatori sono finiti dirigenti e funzionari regionali, presidenti di cooperative, amministratori e soci di organizzazioni e unioni di produttori del settore dell’ortofrutta, ritenuti responsabili a vario titolo dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata consumata e tentata ai danni della Ue, corruzione e falsità in atto pubblico commesse da pubblici ufficiali e privati. L’indagine, sviluppata dal comando dei carabinieri delle politiche agricole di Roma e dalla Guardia di Finanza di Catanzaro e Reggio Calabria, è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Palmi.
L’operazione, concentrata nelle campagne ortofrutticole dal 2000 al 2006, ha permesso di scoprire l’utilizzo di documenti fiscali e amministrativi falsi presentati all’Agenzia per le Erogazioni in agricoltura di Roma finalizzati ad ottenere illecitamente 26.500.000 euro di contributi comunitari per ritiro dal mercato, riconoscimenti e programmi operativi.
Nel corso delle stessa attività investigativa, iniziata nell’agosto del 2003, i militari del Nucleo antifrodi di Roma hanno impedito l’erogazione di 13.000.000 e anche denunciato a piede libero 544 persone. L’inesistenza di alcune ditte, importatrici di succo d’arancia in Francia e Spagna, e dunque la falsità delle dichiarazioni presentate da alcune industrie di trasformazione calabresi, è stata rivelata grazie all’accertamento dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode della Commissione europea. L’organizzazione sgominata dai carabinieri del comando politiche agricole aveva base operativa a Rosarno (Rc) e ramificazioni in tutta la Calabria per ottenere finanziamenti illeciti. I personaggi finiti nel mirino degli investigatori si attribuivano terreni senza averne titolo, con falsi contratti di affitto e comodato, dichiaravano produzioni inesistenti, figuravano “venditori di partita iva” per avvallare acquisti o operazioni commerciali inesistenti per circa 130 milioni di euro.
Operazioni che facendo aumentare il valore della produzione commerciale permettevano alle organizzazioni di produttori di aumentare, proporzionalmente, la percentuale di agrumi oggetto del ritiro dal mercato. La complessa indagine è frutto di un lavoro di oltre 3 anni ed è stata coordinata dai sostituti procuratori della Repubblica Antonio Vincenzo Lombardo, Francesco Tedesco e Valeria Cerulli che hanno richiesto i provvedimenti restrittivi eseguiti con il supporto del personale delle compagnie dei carabinieri di Gioia Tauro (Rc), Vibo Valentia, Taurianova (Rc), Palmi (Rc), Catanzaro, Reggio Calabria, Crotone, Lametia Terme (Vv), Soverato (Cz), Roccella Jonica (Rc), Roma Eur e Prato.


La Repubblica 25-4-2007 PARMALAT Ecco gli istituti che hanno venduto 200 milioni di bond prima del crac A gennaio 2003 i grandi creditori di Tanzi avevano 229 milioni di titoli, a dicembre erano diventati 31 ETTORE LIVINI

 

I big del credito hanno ridotto dell'87% gli investimenti sul gruppo nel 2003, in un floppy Bankitalia i movimenti Intesa, Sanpaolo, Mps e Unicredit Parmalat, la grande fuga delle banche

MILANO - Sarà stato fiuto. Sarà stato un fenomeno di preveggenza collettiva. Ma proprio alla vigilia del crac Parmalat di dicembre 2003 - mentre i risparmiatori italiani facevano ancora incetta di titoli del gruppo - le banche di casa nostra hanno venduto a mani basse azioni e obbligazioni della società emiliana, riducendo dell'87% la loro esposizione nei 12 mesi precedenti il default e uscendo quasi indenni dal disastro di casa Tanzi. La grande fuga dal capitale di Collecchio degli istituti di credito (che hanno sempre sostenuto di non aver mai avuto alcun sentore della reale situazione finanziaria della società) è fotografata dai dati catalogati in un floppy disk spedito il 17 novembre 2005 dalla Banca d'Italia alla Procura emiliana e archiviato come atto 76 del procedimento 2395/05 del processo. Il dischetto ricostruisce mese per mese i movimenti in conto proprio del sistema creditizio nazionale su strumenti finanziari del gruppo. E i risultati di questo lavoro certosino sono semplici: a gennaio 2003 le maggiori banche italiane avevano in portafoglio quasi 230 milioni di titoli Parmalat. A fine dicembre, al momento del fallimento, nelle loro tasche ne erano rimasti solo 31 milioni. Metà dei quali, oltretutto, di proprietà della Bpi (allora guidata da Gianpiero Fiorani) che muovendosi controtendenza si era imbottita di bond proprio alla vigilia del fallimento arrivando ad accumularne fino a 114 milioni al 30 novembre. Il fuggi-fuggi è generalizzato. Il Sanpaolo di Torino ha ridotto da 101 milioni a 126mila euro la sua esposizione con Collecchio nei 12 mesi prima del crac. Unicredit (che nel 2002 tramite Ubm aveva curato con Intesa un ampio piano di emissione di bond Parmalat) ha fatto piazza pulita dei titoli del gruppo scendendo dagli 83 milioni di inizio gennaio ai 4 di dicembre. Lo stesso hanno fatto l'istituto di Giovanni Bazoli (scesa da 13 a 2 milioni proprio mentre la sua controllata Nextra varava nuove obbligazioni) e Monte Paschi Siena (da 23 a 6). Deutsche Bank, che a settembre 2003 aveva "illuso" il mercato annunciando di aver rilevato il 5% del gruppo dei Tanzi, in realtà nelle stesse settimane completava il suo disimpegno finanziario, vendendo i pochi titoli che si ritrovava in portafoglio. Le cifre sono diverse ma il risultato è identico: le banche sono uscite dall'avventura di Collecchio senza perdere quasi niente. Anzi. Quelle di loro che si sono ritrovate esposte con le società operative della galassia Tanzi, quelle che hanno rimborsato al 100% i creditori dopo l'amministrazione controllata, hanno messo assieme da quel gelido (in tutti i sensi) dicembre guadagni a tre cifre. I "saldi" collettivi di titoli Parmalat del 2003 hanno attirato l'attenzione dei pm di Milano e del capoluogo italiano. Le banche, sostengono i magistrati, avevano in teoria molti strumenti per capire che le cose in casa Tanzi non andavano tanto bene. C'erano i dati della centrale rischi di Banca d'Italia, dove i debiti del gruppo risultavano diversi da quelli iscritti a bilancio. Le banche dati sulle emissioni obbligazionarie segnalavano volumi di collocamenti diversi da quelli denunciato. E molti dei comitati crediti interni da anni mettevano in guardia sulla scarsa affidabilità finanziaria del socio di riferimento. Calisto Tanzi ? come è emerso dal processo ? già a fine millennio era quasi sempre in cronico ritardo persino sul pagamento delle rate per i mutui accesi a titolo personale. Fatti che in fondo potrebbe aiutare a dare una lettura diversa alle mosse delle banche alla vigilia del crac. Il cerino alla fine è rimasto in mano ai risparmiatori, con 85mila italiani che si sono ritrovati a dicembre 2003 con 7 miliardi di bond che valevano poco più che carta straccia. Spesso clienti poco fortunati (o mal consigliati) di quegli stessi istituti che quell'anno hanno fatta piazza pulita di titoli Parmalat. Basta pensare ai 32mila correntisti del Sanpaolo, travolti dal default mentre la loro banca nel 2003 ha ridotto del 99,9% la sua esposizione con Collecchio. Per loro fortuna (si fa per dire) il concordato ha permesso di salvare la società e grazie alla cura di Enrico Bondi (e alla corsa del titolo in Borsa) sono rientrati adesso tra il 39 e il 57% dell'investimento iniziale. Ma se solo la banca avesse curato i loro risparmi come ha tutelato i suoi, molti di loro forse non si troverebbero oggi a piangere sul latte versato.

 

 

 

 


Il Riformista 25-4-2007 È rimorto il Pci. Da oggi siamo tutti più liberi di Peppino Caldarola

Il Partito democratico c’è. Quello che sarà, è impossibile immaginarlo. I media si sono innamorati come nella prima puntata del Grande Fratello. Le nomination fanno notizia. Nel frattempo quegli arretrati dei francesi, che nulla sanno di Curzio Maltese e Gad Lerner, si dividevano secondo l’antico schema destra-sinistra. Antonio Polito è andato talmente oltre che preferisce Sarkozy. Non c’è sorpresa più entusiasmante per un ex uomo di sinistra che scoprire la destra. Una delle cose più azzeccate che ho scritto in questi mesi è che in ogni ex comunista cova un Adornato. Così rendiamo l’onore delle armi a un vecchio compagno che se n’è andato “oltre” alcuni anni fa.
I democratici di rito margheritico sono convinti che per battere Sarkozy era meglio partire dal 18% di Bayrou piuttosto che dal 25% abbondante di Ségolène Royal. Non sanno spiegare perché, ma loro hanno la fede che spiega quasi tutto. I democratici di rito diessino erano pronti al successo dell’uno o dell’altra. Se avesse vinto l’amico di Rutelli avrebbero avuto la prova provata del fallimento della sinistra, ora che ha vinto Ségolène la iscrivono al Partito democratico. Comunque la metti, hanno ragione loro come accade a quelli che hanno sempre avuto torto. Tutti invitano all’alleanza, col trattino, fra Ségolène e Bayrou per trovare la conferma che l’Italia ha imbroccato la strada giusta. Bisognerà vietare l’alcol non solo negli stadi prima delle partite ma anche nella politica dopo i congressi. La Francia, così scioccamente arretrata, secondo i leader del Pd esalta l’ennesima eccezione italiana. È di qui, proclama Prodi, che riparte la storia mondiale. Dopo Robespierre e Lenin, tocca a un italiano. Fantasmi di tutto il mondo unitevi!



Il Riformista 25-4-2007 Angius: «Non lascio Mi lasciano loro» di Alessandro De Angelis


Il dado è tratto. Anche per Angius, che comunica che non aderirà alla costituente del Pd. Aveva annunciato con una mozione che il suo Pd doveva essere «democratico e socialista», di nome e di fatto. Ovvero che non doveva uscire dal campo del socialismo europeo: aperto, rinnovato, magari contaminato, ma comunque delimitato. E che doveva essere dichiaratamente laico. Aveva ribadito al congresso, in un ultimo appello a Piero Fassino che c’era ancora tempo per invertire la rotta. Aveva chiesto un segnale, almeno uno, che attestasse che lo sbocco della fase costituente non fosse predeterminato a tavolino. Il segnale non è arrivato e, come si diceva nel vecchio Pci, Angius ne ha «tratto le conseguenze». Con uno stile, appunto, quasi da vecchio Pci: non una conferenza stampa, non una mail, non una lettera ai giornali ma una missiva fatta recapitare ieri pomeriggio a Piero Fassino. Se ne va, Angius, e la separazione, a parlarci, appare dolorosa come una scissione. Difficile dire quanti dei suoi lo seguiranno. Tra i primi nomi sicuri ci sono quelli dei deputati Grillini e Baratella, del senatore Montalbano, dell’assessore all’Ambiente della Regione Abruzzo Caramanico, del consigliere regionale emiliano Mezzetti, dell’ex portavoce della mozione Nigra. Altri, naturalmente, seguiranno. Intanto, sono in corso contatti con Mussi, che, come noto, darà vita a gruppi parlamentari autonomi, per definire possibili intese. È in corso, soprattutto, un dialogo serrato con lo Sdi che ha aperto la costituente socialista, per stabilire un possibile percorso comune per la costruzione di «una autonoma forza democratica e socialista, laica, riformista, parte integrante del Pse».


 

L’Unità 25-4-2007 L'Italia incompatibile Furio Colombo

 

Segue dalla Prima    Come ricorderete Enzo Biagi è il primo, nella lista di alcuni protagonisti della televisione italiana (tra cui Michele Santoro, Daniele Luttazzi) licenziati personalmente con un potere che non aveva - ma che alla Rai, tramite personale subalterno, è diventato immediatamente esecutivo - dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molti di noi hanno frequentemente citato con scandalo la motivazione di quel licenziamento: "attività criminosa". Con queste parole Silvio Berlusconi che - ci viene detto - non è nemico ma solo avversario, intendeva descrivere ogni attività di opposizione. E a molti di noi è sembrato naturale definire "regime" la situazione politica in cui un governante vuole e può mettere a tacere chi non lo esalta. Ora, cambiato il tempo, il governo - e, un pochino anche il Paese e la Rai - Enzo Biagi ritorna. E con la sua trasmissione dedicata alla Resistenza, nel senso originale del 25 Aprile e nel senso perenne del non piegarsi solo perché qualcuno è più ricco e potente e ti può anche mettere al bando, racconta con la sua implacabile pacatezza che esiste una Italia incompatibile con l'Italia libera e democratica evocata da quel giorno e descritta nei dettagli dalla Costituzione. E che non è questione di sentimenti (inimicizia o gentile confronto) ma di nessun punto di corrispondenza fra un'Italia e l'altra. Dice che non bastano né le lacune della memoria né la potenza dei media (tuttora in prevalenza orientati a non offendere un grande editore che può comprare tutto, e può comprare molti) a oscurare l'incompatibilità di un'Italia con l'altra. Credo che possa essere utile confrontare il sommario della trasmissione con cui Biagi torna in Tv con l'articolo di fondo de Il Giornale (autore Massimo Teodori) dello stesso giorno. Quell'articolo celebra la buona accoglienza riservata a Berlusconi nei due congressi fondanti del nascente PD, ma poi elenca le tappe, che per l'autore sono esecrabili, della "delegittimazione di Berlusconi". L'Italia di Biagi si apre con Roberto Saviano e la piovra della camorra con cui non si può convivere, si chiude con Tina Anselmi, mai dimenticata investigatrice della P2, passa attraverso la Resistenza come guerra partigiana e lotta al fascismo. Ci fa riascoltare la voce limpida di Primo Levi che descrive con la famosa chiarezza come si distrugge un essere umano. Ascolta Vittorio Foa da giovane: si poteva non resistere? E colloca al centro il magistrato Gherardo Colombo, verso cui molti italiani si considerano debitori (come verso tutto il Pool di Mani pulite) per la coraggiosa, tenace, difficilissima difesa della reputazione dell'Italia, mentre stava per essere ricoperta da un blob di corruzione tra i più vasti e più estesi al mondo. Dunque, lo stesso giorno in cui è andata in onda la trasmissione-manifesto di Enzo Biagi, Massimo Teodori ha scritto: "La storia (della delegittimazione e demonizzazione del "nemico" politico, Ndr) cominciò dal colle più alto con Oscar Luigi Scalfaro che distorse i poteri presidenziali contro il premier". Come è noto "li distorse" per impedire che il plurinquisito Previti, ora condannato in via definitiva, diventasse ministro della Giustizia, evitando dunque un grave insulto alla Repubblica e all'immagine dell'Italia nel mondo. L'articolo di Teodori continua: "La storia proseguì con l'accanimento giudiziario in sintonia con l'ala giustizialista dei post-comunisti". Si capisce l'intento. "Accanimento giudiziario" deve diventare il titolo di un capitolo della storia italiana, quello dei processi a Silvio Berlusconi. L'autore evidentemente conta sul fatto che a poco a poco smetteremo di insistere nel raccontare ciò che è avvenuto davvero e finiremo per dire che, sì, quelle gravissime imputazioni non erano che vaneggiamenti di giudici comunisti. L'affermazione viene dalla casa che non ha esitato a dire e a ripetere che "bisogna essere mentalmente tarati per fare i giudici". Ma l'autore del fondo de Il Giornale implacabile continua: "Infine i girotondi espressero, ai limiti del grottesco, quell'animus giacobino tanto gradito ai piani alti dellapolitica illiberale e della gauche caviar, la cui nobile aspirazione era vedere in manette il parvenu della politica". Poiché i girotondi sono mobilitazione spontanea, diventa interessante l'evocazione dei "piani alti della politica illiberale" che vuol dire: è illiberale chi invoca "la legge uguale per tutti" e denuncia le leggi ad personam che la rendono "legge di uno solo". La frase è affetta da palese assurdità fattuale, logica e storica. Ma Teodori ha un punto di forza su cui poggiare la sua costruzione orwelliana del "ministero della verità". Dice infatti in conclusione: "Se il Partito Democratico servirà a tenere a freno le pulsioni antidemocratiche tanto radicate nei politici di sinistra (ovvero l'ostinazione a ripetere : "la legge è uguale per tutti", Ndr) sarà un passo avanti per l'Italia civile e liberale". Sembra chiaro che qui si sta accennando all'Italia di Previti, Dell'Utri, Cuffaro, dei beneficiari di condono continuo, degli evasori lodati perché "a un certo punto diventa legittimo frodare il fisco", degli scrupolosi autori dei falsi in bilancio, di personaggi come il sindaco An di Trieste che ha sempre rifiutato di recarsi alla risiera di San Sabba dove fascisti e nazisti massacravano gli ebrei. Del resto il capo di tutta questa gente mai si è fatto trovare - lui che è dappertutto - ad una celebrazione del 25 aprile durante i cinque anni del suo celebrato governo costellato di canzoni e di allegre passeggiate a Villa Certosa. L'Italia di Tina Anselmi, di Oscar Luigi Scalfaro, di Gherardo Colombo, dei girotondi ne ha fatto a meno. Come si vede la questione - che è giusto ripetere nel giorno della Resistenza incoraggiati dal libero ritorno in video di Enzo Biagi - non è di buona educazione (anche se è bene mostrare buona educazione quando Silvio Berlusconi si presenta al congresso di un partito che ha appena finito di considerare autore di "delitti, morte e miseria"). È una questione di incompatibilità. L'Italia della Liberazione e della Costituzione è incompatibile con l'Italia della illegalità che ha cercato, senza successo, di cancellare il 25 aprile e metà della Costituzione italiana nata dal 25 aprile. La scelta fra queste due Italie è una decisione drammatica che tocca agli elettori. A noi spetta il compito di rendere chiara l'alternativa. furiocolombo@unita.it.


 

La Repubblica 25-4-2007 "Jeb per ora non si candida" Bush senior ammette "L'America è stanca di noi"  Vittorio ZUCCONI

 

L'amarezza di George senior "L'America è stanca dei Bush" La confessione dell'ex presidente al "Larry King show"

DAL NOSTRO INVIATO WASHINGTON - Arrivato alla non trascurabile età di 83 anni, quando l'anagrafe consente agli umani di dire verità altrimenti impronunciabili, Giorgio I, il patriarca del clan Bush, l'ex presidente George Herbert Walker, ammette quello che l'opinione pubblica americana sta gridando da mesi nei sondaggi e nelle urne elettorali, che l'America comincia ad averne le tasche piene dei Bush. "Si avverte nel Paese un fenomeno che si potrebbe definire "Bush fatigue"", un affaticamento da overdose di questa famiglia che da 300 anni, da quando il capostipite, Richard Bush, sbarcò a Bristol nel New England produce più potere, ricchezza e, con l'ultimo rampollo disastri, di quanti i Kennedy o i Rockefeller o i Roosevelt avrebbero potuto sognare. Deve essere stato duro, e per ciò encomiabilmente onesto, per il 41esimo presidente degli Stati Uniti, il cui nome è stato dato alla sede della Cia, ad aeroporti, ad autostrade in Texas, ammettere che la casa regnante ha stancato e per i suoi rampolli è arrivato il momento di sedersi per qualche anno in panchina, soprattutto mentre uno dei suoi figli, George W., ha ancora 21 mesi di stanco regno davanti. Da quando era uscito, immeritatamente, dalle scena del potere nel 1993, cedendo lo scettro a Clinton a causa di una scissione dell'elettorato conservatore e repubblicano spaccato da un terzo partito, "the old man", il grande vecchio della casata aveva sempre e con grande classe evitato di dare giudizi pubblici o consigli ai suoi "boys" ambiziosi. Gli deve essere costato molto caro, perciò, rispondere a Larry King della Cnn che gli chiedeva se l'altro figlio, quello prediletto, il secondogenito Jeb, avesse intenzioni presidenziali dopo avere governato la Florida: "Spero di no, spero che, dopo avere fatto bene come governatore, rimanga fuori per qualche tempo e pensi al suo futuro politico più lontano che può essere molto importante". Come accade nella famiglie ben educate, il patriarca manda quindi un doppio messaggio obliquo ai propri figli. Segnala a George W. che la sua presidenza ha generato un certo senso di indigestione, un rigetto per il nome della famiglia, che i sondaggi di popolarità confermano con indici disastrosi, attorno al 34%. Ma ricorda che l'avventura di questa antica dinastia di sangue irlandese non è finita con il fiasco del 43esimo presidente, perché Jeb, smaltita la nausea da Bush, "è un uomo con un avvenire in politica, perché è un uomo retto, un governatore che ha ben meritato e ha fatto molto bene in Florida". Dunque "ha un avvenire", ma non per questo giro elettorale del 2008, semmai per il prossimo, nel 2012. Non è mai stato un mistero, né un pettegolezzo, il fatto che fosse Jeb il cocco di famiglia, il ragazzo più brillante e serio sul quale la matrona dalla candida aureola prematuramente imbiancata dalla morte per leucemia della figlia Pauline a 4 anni, Barbara, e il padre, avevano puntato le loro speranze. Almeno fino a quella presunta epifania religiosa che all'età di quarant'anni avrebbe strappato George W., l'attuale presidente alla sua vita scioperata di bevute, di arresti per guida in stato di ubriachezza e di notti bianche, era il secondogenito Jeb, nato nel 1953 e più giovane di cinque anni rispetto a George, il cavallo destinato a portare i colori della scuderia. Del primogenito, di "Dubya", papà non si era mai fidato interamente, affidandogli compiti ancillari nelle sue campagne elettorali e poi durante la presidenza. E quando aveva manifestato ambizioni presidenziali, dopo avere vinto a sorpresa il governatorato del Texas, era stato George il Vecchio a convocare d'urgenza i propri ex consiglieri e l'ambasciatore saudita principe Bandar perché gli spiegassero i fatti della vite ed erudissero il pupo nelle vicende del mondo e della politica internazionale delle quali era digiuno. E non è un segreto di stato neppure il fatto che l'ex presidente, abbia seguito con angoscia l'avventura militare lanciata dal figlio lungo quella via di Bagdad che lui aveva accuratamente evitato di imboccare dopo la prima guerra nel Golfo, prevedendo che sarebbe accaduto esattamente quello che sta accadendo ora in Iraq. "Mio padre sa che il presidente ora sono io" disse petulante qualche mese fa George W. a Brian Williams, che lo intervistava per la rete Nbc. "E io non mi consulto con lui, mi consulto con un Padre più in alto", spiegò a uno sbigottito Bob Woodward per il suo libro sulla guerra in Iraq. Ora con garbo wasp molto sotto tono, con eleganza patrizia e indiretta, il vecchio leader di questa casata trisecolare che ha prodotto un senatore, due governatori, un vicepresidente e due presidenti oltre a una considerevole quantità di ricchezza, gli restituisce la cortesia. Dicendo, a chi orecchie per intendere come certamente ha il figlio, che l'America non è davvero stanca dei Bush, ma di un Bush.


 

Finanza e Mercati 25-4-2007 L'onda lunga generata dallo tsunami che sta investendo il real estate spagnolo si è abbattuta anche in Italia

 

. A farne maggiormente le spese è stata Risanamento, che ieri ha chiuso in flessione del 3,16% a 7,85 euro con oltre 767mila titoli passati di mano. È comunque stata una giornata da dimenticare per tutte le altre quotate. Tra queste Igd ha perso il 3,1%, Bastogi il 2,75%, Beni Stabili il 2,7%, Pirelli Real Estate il 2,3% e Ipi l'1,2 per cento. Ad affondare il mattone di casa nostra, sono state le voci di un possibile quanto imminente scoppio della bolla immobiliare in Spagna dopo il boom registrato negli ultimi 12 anni (solo nel 2006 i prezzi sono aumentati in media del 9,1%). Gli ultimi dati mostrano invece la crescita più lenta dal1998 a questa parte. Mentre il numero di compravendite è sceso nel primo trimestre del 7,2% in quella che si configura la performance peggiore degli ultimi sette anni. Timori che hanno penalizzato le azioni dell'iberica Astroc Mediterraneo. E che stanno tenendo col fiato in sospeso anche l'Italia, considerato uno dei mercati europei più affini a quello spagnolo.


 

La Stampa 24-4-2007 Telecom: governo, più poteri a Authority. Esecutivo vara l'emendamento al ddl sulle liberalizzazioni

 

ROMA
Il governo ha presentato l’emendamento che riconosce maggiori poteri all’ Autorità per le Comunicazioni in tema di separazione della rete Telecom. Il testo è stato trasmesso dal ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, che lo ha messo a punto, al ministro dei Rapporti con il Parlamento Vanino Chiti che lo depositerà in commissione Attività Produttive della Camera, dove confluirà nel ddl liberalizzazioni.

L’emendamento modifica l’articolo 45 del Codice delle Comunicazioni elettroniche (in pratica il Testo unico delle tlc) e amplia i poteri dell’ Agcom che, nel caso la trattativa in atto con la società non si concluda con un’ intesa condivisa, potrà imporre la separazione strutturale delle infrastrutture tramite «un preciso iter procedimentale per raggiungere tale scopo, nel rispetto delle indicazioni del quadro normativo comunitario e in linea con i più recenti provvedimenti legislativi nazionali». 

Per quanto riguarda l’oggetto, e cioè «la rete pubblica di accesso» la nozione citata dal provvedimento «non è circoscritta al cosiddetto ultimo miglio» ma riguarda una più elastica definizione finalistica, che comprende tutti gli apparati e gli elementi che compongono la rete «ivi incluse le componenti necessarie alla fornitura di servizi a banda larga». L’emedamento ribadisce però, che questi poteri ’atipicì che vengono riconosciuti all’ Agcom, potranno essere utilizzati solo nel caso che fallisca la trattativa, già incorso con la Telecom, per arrivare ad un’intesa condivisa sulla separazione funzionale della rete in modo da garantire «la piena paritàdi trattamento tra tutti gli operatori».


INDICE 24-4-2007

 

++ AgenParl 24-4-2007  MAI DIRE MAI E IL PD AVVIA IL DIALOGO CON L’UDC

++ AgenParl 24-4-2007  PARISI CRITICA RUTELLI E CHIEDE A GRAN VOCE LA COSTITUENTE DEL PD

++ La Stampa 24-4-2007 «Nelle prossime settimane le precipitazioni dovrebbero essere inferiori alla media e questo potrebbe, in effetti, aggravare le cose. Ma non siamo ancora in pericolo».Bertolaso: "Sono soltanto parole, manca un vero piano operativo" Daniela Daniele

+ Il Corriere della Sera 24-4-2007 Drogavano e abusavano di bimbi a scuola Sei le persone arrestate. Si ipotizza che ci siano filmati delle violenze

+ Il Riformista 24-4-2007 La svolta anti-oligarchica che solo Scalfari vede di Emanuele Macaluso

La Repubblica 24-4-2007 Popolare di Matera, scandalo mutui "Una vera associazione a delinquere" La Finanza: tassi stracciati e garanzie finte a giudici e industriali FRANCESCO VIVIANO. In attesa che la pm di Matera decida se chiedere il rinvio a giudizio dei 35 indagati (tra questi il presidente Donato Masciandaro, il direttore generale Giampiero Marruggi, il vice Antonio Scalcione e l'amministratore delegato Guido Leoni)

Il Giorno 24-4-2007 MASCIANDARO "Giganti per il business globale Ma c'è spazio per i piccoli" di Vittorio Dallaglio

Da vita.it 23/12/2004  Masciandaro, nuovo presidente della Banca Popolare del Materano

Il Sole 24 Ore 6-4-2007 Antiriciclaggio Partono i lavori per il testo unico

La Provincia Pavese 24-4-2007 IL 25 APRILE L'onore dell'Italia salvato dai partigiani 25 aprile, 62 anniversario della Liberazione, e con la libertà la Pace.

L’Unità 24-4-2007 Bufalopoli Marco Travaglio Ricordate i minimizzatori di Calciopoli, quelli che "non è successo niente", "non ci sono prove", "solo chiacchiere al telefono"?

Marketpress.info 24-4-2007 RICERCA RIVELA L'EVOLUZIONE CONTINUA DELL'INFLUENZA AVIARIA IN EUROPA

Il Giornale di Brescia 24-4-2007 ESTERO PRESIDENZIALI FRANCESI: IL CANCELLIERE PREFERISCE IL CANDIDATO UMP ANCHE PER LE SUE POSIZIONI SULLA TURCHIA

Milano Finanza 24-4-2007MFT Il Testo unico minaccia i siti In vista l'obbligo di doversi trasformare in società di consulenza. Sotto accusa i segnali operativi offerti. Perché sono riconducibili ad attività di consulting. Ma il decreto colpirà solo chi fornisce indicazioni personalizzate. Giuseppe Di Vittorio

 


 

++ AgenParl 24-4-2007  MAI DIRE MAI E IL PD AVVIA IL DIALOGO CON L’UDC

 

Roma, 24 Aprile 2007 – AgenParl - Franco Marini, lasciando a Palazzo Madama la sua veste di seconda autorità dello Stato, alla chiusura del congresso della Margherita ha voluto dire la sua. La sua di navigato uomo politico deciso a cogliere tutte le opportunità atte ad assicurargli un ruolo nel futuro assetto politico che si fonderà, come ha lasciato chiaramente intendere, nella riedizione del centrismo.
E, pertanto, ha preannunciato questo avvenire rimarcando la temporaneità della coalizione di centrosinistra. “Le coalizioni – ha affermato – “non sono eterne”, quasi prevedendo l’immaturo tramonto dell’Unione guidata da Romano Prodi, come auspicato anche da Silvio Berlusconi.
Marini, dunque, si è allineato a Berlusconi desiderando anche le larghe intese?
Apparentemente, sembrerebbe di sì, anche se non si nasconde certamente quali e quante sono le difficoltà per dare corpo ad un’operazione del genere. Ma la gestione del nuovo centrismo, iniziata con lo scioglimento di Quercia e Margherita, potrebbe compiersi anticipatamente con un parto settimino, visto che, mentre crolla la popolarità del governo e del suo leader, il nuovo Ulivo democratico si è posto quale interlocutore unico dell’UDC e …della Lega di Umberto Bossi.
Il risultato del primo turno elettorale francese, poi, ha dato la stura a significative considerazioni.
D’Alema per primo, e poi Prodi, hanno consigliato alla socialista Sègolène Royale la formula vincente: l’alleanza con il centrista Bayrou. Lo stesso Prodi ha detto che per l’Italia bisognerebbe fare altrettanto. Aprire, quindi, la porta ai moderati centristi di Casini, incuranti pertanto delle proteste della sinistra alternativa.
La prevedibile uscita di Prc, Pdci e Verdi dalla coalizione, allorché il PD tenterà l’operazione centrista, non preoccupa i suoi promotori. Infatti, pur non essendo compensativi i voti dell’UDC rispetto a quelli che verrebbero meno con l’uscita della sinistra radicale, interverrebbe il fattivo supporto della Lega, la quale consentirebbe la costituzione di una nuova maggioranza più consistente, specie al Senato, di quella odierna.
Questo passaggio, in fondo auspicato da quanti desiderano l’isolamento dell’irrequieta sinistra, avverrebbe attraverso la costituzione di un governo istituzionale che, ovviamente, non potrebbe essere presieduto dal rifondazionista Bertinotti e di cui non dovrebbero far parte i transfughi diessini.
Il ministro ulivista Bersani, parlando con il suo amico udiccino Bruno Tabacci di questa ipotesi, l’ha commentata positivamente e ai critici ha risposto: “mai dire mai”, perché consapevole della disponibilità della Lega nei confronti della quale il suo partito ha assunto impegni sulla legge elettorale e sul federalismo fiscale. E, appunto in vista dell’articolazione legislativa di questi provvedimenti, Bossi ha risposto con un netto ‘no’ all’invito ad entrare nella federazione del centrodestra.

 

++ AgenParl 24-4-2007  PARISI CRITICA RUTELLI E CHIEDE A GRAN VOCE LA COSTITUENTE DEL PD

 

Roma, 24 Aprile 2007 – AgenParl – “Al congresso dei Ds ho provato commozione, a quello della Margherita rabbia”. A parlare non è il ministro dell’Università Fabio Mussi ma il diellino Arturo Parisi.
In effetti il ministro della Difesa, già prima delle assise del suo partito, aveva criticato non poco la fase di “gestazione” del Partito Democratico. Alla fine del congresso ha ‘bacchettato’ soprattutto il ‘traghettatore’ Rutelli, reo di aver trattato la forza unitaria in un’ottica di “definizione di quote e non di partecipazione popolare”.
Parisi infatti ha da sempre sostenuto la nascita del Pd, ma se lo immaginava in un altro modo, non come una mera sommatoria tra Ds e Margherita. Non a caso ora chiede a gran voce la “convocazione” di un’assemblea costituente, nella quale valga il principio di “una testa un voto”. Inoltre punta sulla partecipazione popolare attraverso la convocazione delle primarie per eleggere il leader: “sono gli elettori che devono decidere la guida”. (G.R.S.)

 

 


 

++ La Stampa 24-4-2007 «Nelle prossime settimane le precipitazioni dovrebbero essere inferiori alla media e questo potrebbe, in effetti, aggravare le cose. Ma non siamo ancora in pericolo».Bertolaso: "Sono soltanto parole, manca un vero piano operativo" DANIELA DANIELE

 

ROMA
Dall’emergenza rifiuti in Campania, a quella di una primavera vestita d’estate che minaccia d’assetare il Paese nei prossimi due o tre mesi: Guido Bertolaso, responsabile della Protezione Civile, ha il telefono caldissimo.

Siamo prossimi alla catastrofe o c’è speranza?
«Non esageriamo. La situazione è sotto controllo. Già da alcuni mesi stiamo seguendo l’evolversi climatico e abbiamo lavorato con la nostra cabina di regia, con i tecnici. La situazione è sì difficile, ma non siamo certo ancora all’emergenza».

Le previsioni?
«Nelle prossime settimane le precipitazioni dovrebbero essere inferiori alla media e questo potrebbe, in effetti, aggravare le cose. Ma non siamo ancora in pericolo».

Per ora. Ma fra un mese o giù di lì, se le cose non saranno cambiate?...
«Allora si parlerà di emergenza».

Se la situazione non migliorerà, crede che si dovranno imporre limitazioni all’uso dell’acqua per la popolazione?
«Lo dovrà valutare il governo. Lo stato di emergenza consente di prendere tutta una serie di misure che, comunque, vanno concertate con le Regioni».

La società responsabile della trasmissione dell’energia elettrica, Terna, parla di rischio blackout già a giugno. E’ così? 
«Terna deve mettersi d’accordo, visto che un paio di settimane or sono, il suo presidente aveva dichiarato: nessun rischio blackout per la prossima estate. Evidentemente, qualcosa è cambiato nelle loro valutazioni. Mi sembra, più che altro, un mettere le mani avanti... Dato quanto accadde...».

Gli ambientalisti dicono che, capricci climatici a parte, prima responsabile è la cattiva gestione delle risorse idriche.
«E’ il solito ritornello. Le infrastrutture non sono adeguate, sono obsolete, non si è fatto un piano e via di seguito».

Ma è vero.
«Sono d’accordo. Sarebbe bene, adesso, che a queste affermazioni seguisse un piano operativo, un qualche intervento concreto che può fare solo il governo, non certo la Protezione civile. Ci vuole, per esempio, come dice il ministro delle Politiche agricole, un piano irriguo nazionale, già immaginato, ma che deve diventare concreto».

A proposito del ministro De Castro: non è d’accordo con il suo collega, Pecoraro Scanio, ministro dell’Ambiente, sulla necessità di dichiarare lo stato d’emergenza. Lei che ne dice?
«Ritengo che questa decisione vada presa soltanto insieme con le Regioni. Sicuramente, entrambi i ministri hanno buoni motivi per le proprie affermazioni. Ma entrambi sanno perfettamente che per adottare un tale provvedimento bisogna confrontarsi con le Regioni. E anche d’intesa con il ministero della Salute che ha un ruolo importante quando si parla di siccità, calore e rischio per gli anziani ».

Per ora, comunque, la task force che si è formata non ha ancora preso alcuna decisione.
«No, e questo dimostra che non siamo ancora all’emergenza vera e propria. L’importante, in questa fase, è studiare e valutare bene la situazione, immaginare tutte le misure che si possono adottare: insomma, avere un piano preciso. Così, di fronte all’emergenza, si dovrà soltanto diventare operativi».

 


+ Il Corriere della Sera 24-4-2007 Drogavano e abusavano di bimbi a scuola Sei le persone arrestate. Si ipotizza che ci siano filmati delle violenze

 

Rignano Flaminio (Roma): insegnanti e collaboratori di una scuola materna ed elementare narcotizzavano i piccoli tra i 5 e i 10 anni

ROMA - Li narcotizzavano, e spesso anche drogavano, per costringerli poi a partecipare a giochi erotici. Vittime di alcuni insegnanti e collaboratori di una scuola materna ed elementare di Rignano Flaminio, vicino Roma, erano alcuni bambini tra i 5 e i 10 anni. Sei le persone arrestate, tre maestre, il marito di una di loro (un autore televisivo di un’emittente nazionale), una bidella e un addetto a una pompa di benzina, questa mattina dai carabinieri di Bracciano su disposizione della Procura di Tivoli, dopo un'indagine durata oltre un anno e partita a seguito della denuncia di alcuni genitori.

Le accuse ipotizzate per le sei persone arrestate, tutte residenti tra Morlupo e Rignano Flaminio, due paesi alle porte della capitale, sono quelle di associazione a delinquere finalizzata alla sottrazione di minore, sequestro di persona, violenza sessuale di gruppo, violenze sessuali su minore di anni 10 e atti osceni in luogo pubblico. Secondo quanto è emerso dalle indagini degli investigatori dell'Arma, alcuni docenti e collaboratori della scuola comunale materna conducevano le giovani vittime al di fuori del complesso scolastico e le costringevano a giochi erotici narcotizzando e drogando spesso i bambini.

Se l'inchiesta dei carabinieri su un presunto giro di pedofilia a Rignano Flaminio risale al luglio scorso, lo scandalo nel paese è scoppiato la mattina del 13 ottobre 2006 quando i carabinieri della compagnia di Bracciano eseguirono un blitz nella locale scuola materna. Su disposizione della Procura di Tivoli due maestre e una bidella furono portate in caserma dove furono interrogate a lungo. Nel registro degli indagati furono iscritte sei persone. Comprensibile lo sconvolgimento nel piccolo comune tra Roma e Viterbo dove vivono settemila abitanti. Le indagini sarebbero cominciate in seguito a quattro denunce presentate da famiglie di alunni che avevano notato - e fatto attestare da tanto di certificati medici - strani arrossamenti o piccole escoriazioni nelle zone dei genitali dei bambini. I piccoli coinvolti si disse che erano una quindicina. La vicenda spaccò il paese tra accusatori e difensori. In mezzo, il sindaco, Ottavio Coletta, il quale convocò una riunione pubblica in Comune esortando la magistratura a chiarire al più presto la situazione. Già da allora circolò la voce in base alla quale i carabinieri avevano accertato che in orario scolastico i bambini venivano portati con un pulmino in un locale privato, dove venivano fatti spogliare e ripresi mentre subivano abusi sessuali. Alcuni, per essere tenuti calmi, sarebbero stati addirittura drogati.

Secondo la ricostruzione dei carabinieri, c'era un appartamento, messo a disposizione da una delle maestre arrestate, dove le piccole vittime, tutte di tre o quattro anni, venivano molestate e violentate. L'appartamento è stato scoperto dai militari dell'Arma nel corso dell'indagine e secondo quanto si è appreso i bimbi della materna coinvolti nel giro di pedofilia sarebbero circa 10-15.

24 aprile 2007


 

+ Il Riformista 24-4-2007 La svolta anti-oligarchica che solo Scalfari vede di Emanuele Macaluso


Spenti i riflettori che hanno abbagliato i delegati del congresso Ds, la maggioranza dei quali ha ascoltato discorsi generici e retorici e assistito a dolorose separazioni, cosa resta come sostanza politica della prospettiva che era stata indicata? La risposta sembra semplice: è stata confermata la volontà della maggioranza di confluire nel Partito democratico. E, siccome anche il congresso della Margherita ha dato la stessa indicazione, la nave del Pd, come scrive Scalfari, è partita. Già, ma dove approderà? Ovvero quale sarà la base politico-culturale di un partito su cui si è detto tutto e il contrario di tutto: è nel Pse ma non c’è, è laico ma i confini della laicità li segnano i cattolici della Margherita, è un partito del lavoro, ma anche dell’impresa e delle banche, è di sinistra (come ha gridato Fassino) e di centrosinistra ma anche di centro, è portatore di un riformismo radicale ma anche moderato, è democratico e oligarchico, femminista e maschilista, giovane e vecchio, laico ma con la radice cristiana.
Scalfari scrive che il congresso della Margherita sarebbe stato solo una «registrazione di posizioni tra le varie correnti». Quello della Quercia invece l’ha visto «dominato dal pathos di un popolo di militanti - che ha deciso di rompere gli ormeggi per farsi protagonista del futuro - con una classe dirigente che smantella l’oligarchia cui fino a ora si era affidata e decide di uscire dal limbo dei post e degli ex per mettersi finalmente nel mare aperto della democrazia senza aggettivi». Ma quale congresso ha visto il fondatore di Repubblica per dire che è stata «smantellata l’oligarchia» se quell’assise è stata dominata dalla recita a soggetto di coloro che lo stesso Scalfari definisce oligarchi?
È il confronto tra i due congressi che non regge e meglio di Scalfari l’ha capito un popolano di Testaccio (dove abito) che domenica, incontrandomi, mi ha detto: «Siamo finiti nel ventre della Balena». Lasciamo stare le metafore, ma stupisce il fatto che persone navigate non capiscano che cos’è e cosa sarà domani, col Pd, il mondo che ruota attorno a quel nucleo di persone che esprimono, anche nella Margherita, la continuità di un sistema di potere che ha le sue radici nella Dc. Quale reciproca influenza ci sarà tra quel nucleo politico cattolico e le gerarchie ecclesiastiche, i settori dell’associazionismo moderato (industriale, commerciale, agricolo), le banche, l’Opus dei e la massoneria laica, l’informazione (Rai in testa) e quell’insieme di poteri locali che condizionano già oggi l’Ulivo? È questo aggregato politico economico che avrà la golden share del Pd. 
Sia chiaro si tratta di forze reali della società in cui viviamo che si esprimono legittimamente in un gioco democratico ma che tenderanno a dare una loro impronta al Pd. La separazione dal Pse, voluta e ottenuta da questo gruppo, ha questo senso. E il cedimento dei Ds ha un significato inequivocabile. Solo chi non conosce la duttilità e la durezza, la cautela e la spregiudicatezza di un personale politico e parapolitico, abituato a trattare e contrattare nella sfera della politica e degli affari non capisce che sarà proprio quel personale a definire i confini di ciò che può essere e non essere il Pd e ciò che esso potrà fare e non fare. Da ora in poi gli ex Ds si troveranno nelle condizioni di dovere bere o affogare. Chi vivrà vedrà.

 

 

 


La Repubblica 24-4-2007 Popolare di Matera, scandalo mutui "Una vera associazione a delinquere" La Finanza: tassi stracciati e garanzie finte a giudici e industriali FRANCESCO VIVIANO. In attesa che la pm di Matera decida se chiedere il rinvio a giudizio dei 35 indagati (tra questi il presidente Donato Masciandaro, il direttore generale Giampiero Marruggi, il vice Antonio Scalcione e l'amministratore delegato Guido Leoni)

 

Da giovedì sono arrivati all'istituto anche gli ispettori della Banca d'Italia Due Procure stanno indagando su una serie di prestiti. Coinvolti anche politici locali Ecco il rapporto delle Fiamme Gialle sulla banca

DAL NOSTRO INVIATO MATERA - E' tra due fuochi la Banca Popolare del Materano (Gruppo Popolare Emilia Romagna). Da una parte gli ispettori della Banca d'Italia giunti giovedì scorso a Matera per controllare l'allegra gestione dell'istituto di credito; dall'altra le procure di Catanzaro e di quella materana che stanno indagando su una serie di concessioni di mutui per milioni e milioni di euro senza ipoteche né garanzie, concessi a politici, magistrati, imprenditori e "amici degli amici". Gli inquirenti vogliono fare luce su quello che ritengono un vero e proprio "comitato d'affari", una "struttura parallela", che secondo la Guardia di Finanza, agirebbe all'interno della Banca Popolare del Materano, i cui vertici sono indagati con l'accusa di truffa aggravata e associazione a delinquere. "Sto ancora lavorando - dice il pubblico ministero Annunziata Cazzetta - e non posso certo parlare di un'inchiesta in corso". In attesa che la pm di Matera decida se chiedere il rinvio a giudizio dei 35 indagati (tra questi il presidente Donato Masciandaro, il direttore generale Giampiero Marruggi, il vice Antonio Scalcione e l'amministratore delegato Guido Leoni) un altro magistrato, il procuratore di Catanzaro Luigi de Magistris, sta intanto indagando sui giudici di Matera che sarebbero stati "favoriti" dall'istituto di credito. Proprio a lui la Guardia di Finanza ha consegnato in questi giorni un rapporto esplosivo, secondo il quale all'interno della Banca Popolare del Materano opera "una vera e propria associazione per delinquere". Ecco cosa scrivono nel loro rapporto i militari delle Fiamme Gialle. "A commento delle pratiche di mutuo esaminate (diverse centinaia ndr) è stata accertata la presenza di un certo sodalizio, di un comitato d'affari che gestisce la banca orientandone decisioni e strategie secondo indirizzi che non sempre appaiono ispirati a regole di prudenza e contenimento del rischio, né tantomeno a tutela dell'interesse principale della banca, rappresentato dal patrimonio amministrato". Ed ancora: "Tale ristretto comitato d'affari, operante in maniera occulta e parallela rispetto agli organi amministrativi, che gestisce ed orienta, propone remunerative corsie preferenziale per i clienti più privilegiati. Le condotte penalmente rilevanti appaiono ulteriormente aggravate sia dalla loro sistematicità sia dal fatto che risultano poste in essere da dirigenti della banca e da professionisti operanti all'interno dell'istituto di credito in esclusivo vantaggio di certa selezionata clientela che, di fatto, risulta finanziata ed in taluni casi sovvenzionata, in palese contraddizione con le più elementari regole di mercato e di cautela gestionale dell'istituto del credito". Il rapporto delle fiamme gialle, adesso passato ai raggi x dalla Banca d'Italia e dalla procura di Catanzaro, si conclude affermando che "a parere di questo Comando, si rilevano i contorni di una vera e propria associazione per delinquere finalizzata al mendacio bancario ed alla truffa in danno dei soci e della moltitudine di clientela della banca". Tra i casi più eclatanti, viene ricordato un finanziamento di un milione di euro, ottenuto e poi sequestrato, destinato alla convivente di un ufficiale dei carabinieri, che a garanzia aveva dato un terreno acquistato due settimane prima della concessione del mutuo per un valore di soli 22 mila euro. Altro caso: quello di 620 mila euro concesso al presidente del tribunale di Matera, Iside Granese (indagata a Catanzaro assieme al procuratore capo Giuseppe Chieco ed a quello di Potenza, Giuseppe Galante): si tratta di un mutuo ventennale al tasso fisso del 2,95 per cento. Seguono tanti altri mutui milionari concessi ad imprenditori (anche quelli che avevano ipoteche con altri istituti di credito) a familiari di politici e a magistrati, molti dei quali sono finiti "in incaglio" e venduti dalla Banca alla "Mutina" (la società di cartolarizzazione controllata dal Gruppo Banca Popolare Emilia Romagna e di Matera) e che difficilmente potranno essere portati a buon fine "perché - scrivono i finanzieri - privi di garanzie e di ipoteche di qualunque genere".


 

Il Giorno 24-4-2007 MASCIANDARO "Giganti per il business globale Ma c'è spazio per i piccoli" di VITTORIO DALLAGLIO

 

MILANO.  GIGANTI bancari senza frontiere. Oggi da Londra ad Amsterdam con la maxi Opa di Barclays su Abn. Domani, chissà, da Milano a Parigi via Monaco di Baviera con Unicredito verso Societé Generale. La seconda ondata del consolidamento nel settore creditizio ha fatto saltare ogni illusione di protezione nazionale. Professore, perchè si è scatenata questa corsa a fusioni-kolossal? "Il fatto nuovo è che sui mercati hanno fatto irruzione investitori istituzionali sempre più forti e aggressivi" risponde Donato Masciandaro, docente di economia monetaria all'Università Bocconi e studioso del sistema creditizio. Chi sono questi soggetti ? "Con l'integrazione dei mercati si sono sviluppati soggetti finanziari con enormi risorse finanziarie, dai fondi pensioni fino ai più aggressivi fondi hedge. Hanno un peso rilevante e rappresentano un fattore dinamico sulla struttura proprietaria, sia di aziende industriali sia di banche. E chiedono conto dei loro investimenti" Eravamo abituati ad azionariati più stabili.. "Questi si muovono con logiche di mercato, padroni senza volto di cui spesso non sappiamo nulla, capitali che attraversano tutte le frontiere" Si, ma perchè questi capitali inseguono dimensioni internazionali sempre più grandi ? "Perchè il business di una grande banca non è più l' intermediazione, cioè raccogliere e prestare denaro. Le banche sempre più devono assumere posizioni di rischio. E lo possono fare solo con grandi dimensioni e grandi competenze". Facciamo un esempio... "Se un istituto di credito pensa di entrare in un gruppo internazionale di telecomunicazioni deve avere la forza finanziaria ma anche le competenze per farlo. Può farlo Mediobanca o Banca Intesa ma non la piccola banca locale". Per Romano Prodi è "salutare e positiva" la tendenza verso i maxi aggregati bancari ma occorre anche il rafforzamento delle banche locali. C'è posto per le loro? "Certo, si va assestando un sistema duale. Da una parte banche nazionali a vocazione europea, dall'altra un tessuto di banche territoriali. Le piccole banche locali di credito cooperativo che si mettono in rete fra di loro". In Italia i giganti internazionali sono due, Intesa e Unicredito. Gli istituti medi che faranno? "Cercheranno dimensioni di scala, o aderendo a uno dei due poli, come Carifirenze in Intesa-Sanpaolo, o cercando maggiori spazi autonomi come con le recenti fusioni fra banche popolari" Con quali vantaggi di efficienza per i clienti? I giganti non dominaranno il mercato? "Il problema è la concorrenza. Tutti i soggetti bancari si affronteranno sul territorio, sui costi e sui servizi. La competizione dovrebbe trasferire a valle tutti i vantaggi della concorrenza".


 

Da vita.it 23/12/2004  Masciandaro, nuovo presidente della Banca Popolare del Materano


di Redazione (redazione@vita.it)
               

Subentra ad Attilio Caruso il quale, come annunciato a giugno, ha lasciato ieri il suo incarico  

Il Consiglio di amministrazione della Banca Popolare del Materano (Gruppo Banca Popolare dell'Emilia Romagna) ha eletto nuovo presidente dell'istituto, Donato Masciandaro. Il nuovo presidente, consigliere di amministrazione della banca dal 1994, ricopriva già la carica di vice presidente. Subentra ad Attilio Caruso il quale, come annunciato a giugno, ha lasciato ieri il suo incarico. Donato Masciandaro, 43 anni,

sposato e con due figli, è nato a Matera e risiede a Milano. E' professore di economia monetaria all'Università Bocconi di Milano e presso l'Università degli Studi di Lecce. Ricopre, inoltre, diversi incarichi in istituzioni finanziarie ed è probiviro della Borsa italiana.


 

Il Sole 24 Ore 6-4-2007 Antiriciclaggio Partono i lavori per il testo unico

 

ROMA Sarà insediata subito dopo le feste pasquali la commissione di studio incaricata di raccogliere in un Testo unico tutte le disposizioni, legislative e regolamentari, in tema di antiriciclaggio. L'obiettivo è quello di "eliminare le duplicazioni,chiarire e riorganizzare gli interventi in materia".Lo ha annunciato il sottosegretario all'Economia Mario Lettieri, che presiederà la commissione. Insieme con Lettieri, a comporre l'organismo sono stati chiamati Pier Luigi Vigna e Luigi Ciampoli, rispettivamente procuratore generale onorario e sostituto procuratore onorario presso la Corte di cassazione, Raniero Razzante, docente di Legislazione antiriciclaggio all'Università di Macerata, Donato Masciandaro, professore di Economia monetaria presso il centro"Paolo Baffi"dell'Università Bocconi di Milano, Renato Righetti, capo servizio antiriciclaggio dell'Ufficio italiano cambi, Giuseppe Vicanolo, capo del terzo reparto operazione della Guardia di finanza, Glauco Zaccardi, magistrato dell'Ufficio legislativo finanze, Giuseppe Maresca, capo della direzione Valutario, antiriciclaggio e antiusura del dipartimento del Tesoro, ed Emanuele Fisicaro, docente universitario, cultore di diritto penale commerciale all'Università di Bari."La delega alla commissione è stata accordata fino a fine anno - ha spiegato Lettieri- ed entro questa data cercheremo di ultimare i lavori". Intanto, la bozza definitiva del decreto legislativo che recepisce la Terza direttiva antiriciclaggio (2005/60/Ce) si avvicina al traguardo del Consiglio dei ministri. Il testo, ritoccato in alcuni punti per accogliere i suggerimenti delle categorie ascoltate nei mesi scorsi, dovrebbe infatti approdare a Palazzo Chigi entro fine aprile. E proprio lo schema di decreto legislativo è "un ottimo punto di partenza -ha assicurato Lettieri - per redigere il Testo unico antiriciclaggio,perché abrogae sostituisce buona parte della normativa precedente". V.M.

 


 

La Provincia Pavese 24-4-2007 IL 25 APRILE L'onore dell'Italia salvato dai partigiani 25 aprile, 62 anniversario della Liberazione, e con la libertà la Pace.

 

Ma chi ha liberato l'Italia? E' vero che furono gli angloamericani? Per l'on. Virginio Rognoni - già ministro e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura - questo è un modo per misconoscere i meriti della Resistenza. E non si può non essere d'accordo, se si pensa il perchè e quando è iniziata la Resistenza. Fin dal primo giorno, fin dalle prime manifestazioni di violenza delle camicie nere (olio di ricino, manganellate, incendi, assassini) contro chi osava far valere i proprii diritti, contro il popolo, la resistenza popolare fu la difesa della libertà e, per ciò stesso, dei vitali ed essenziali interessi nazionali. La dittatura, con l'abolizione di tutte le libertà democratiche, le leggi e i tribunali speciali, il carcere, il confino, l'esilio, non riuscì a soffocare l'antifascismo. E l'antifascismo è l'albero dal quale crebbero i vari rami delle formazioni partigiane, che nelle città e nelle campagne, con varie forme di guerriglia (per esempio, il 15 giugno 1944 undici partigiani, sette in divisa tedesca e quattro ammanettati, finti prigionieri, si presentarono dinanzi alle carceri di Belluno difese da numerose sentinelle armate, di tutto punto e protette da filo elettrico ad alta tensione. Richiusisi alle loro spalle le porte in ferro, i partigiani disarmano rapidamente il presidio fascista, chiudono i carabinieri nelle celle e fanno uscire 73 prigionieri politici. L'azione è durata venti minuti), combatterono le 26 divisioni naziste e i fascisti di Salò, fino alla gloriosa insurrezione nazionale, che liberò la città prima dell'arrivo degli Alleati. Alcuni dati: patrioti e partigiani 340.000, di cui partigiani 240.000; caduti 55.000; feriti 33.000. Questo patrimonio diede la forza al presidente del Consiglio On. Alcide Degasperi, alla Conferenza Internazionale di Pace, di rappresentare non un Paese sconfitto ma l'Italia orgogliosa di aver contribuito alla sconfitta del nazisfascismo. Contribuire significa che altre forze parteciparono alla liberazione. In questo senso va il riconoscimento alle Forze Alleate. Le quali, con a fianco il Corpo Italiano delle Forze Armate, diedero un determinante aiuto in forze umane e di mezzi. Il riconoscimento di questo contributo, però non può esimerci dal chiederci il perchè dei bombardamenti aerei alleati a tappeto sulle nostre città, rase al suolo. Secondo punto da chiarire. E' vero che la lotta di Liberazione è stata una guerra civile? E' ancora l'On. Rognoni a precisare che non è stata nemmeno una guerra di classe. Ed è una osservazione acuta quella dell'On. Rognoni, perchè c'è stata la partecipazione di tutte le categorie sociali e di tutto l'antifascismo fino ai monarchici. E non si capisce come mai quel famoso giornalista e scrittore - G.P. - possa sostenere che fu "guerra civile" o anche "guerra interna" (intervista di Piero Sansonetti). Ma c'era la Repubblica di Salò. Prima di tutto bisogna ricordare come venivano reclutati i giovani. Per esempio, un giovane renitente nascosto a casa dello scrivente, dovette presentarsi perchè avevano sequestrato un familiare. Ma la Rsi fu uno strumento in mano ai nazisti (Hitler si fece portare Mussolini a Monaco per questo scopo). E questo strumento lo usarono ampiamente. Perciò, come si può parlare di guerra interna con il paese invaso da 26 divisioni naziste? Ugo Barbero già partigiano della 168ª Brigata Garibaldi San Genesio ed Uniti Richieste inutili fatte ai commercianti Sono una cittadina di Pavia che è rimasta entusiasta dell'arrivo del Papa Benedetto XVIº. Un Grande nuovo Papa. Però come dipendente di un'attività commerciale nel centro città (via Volturno), ho l'amaro in bocca. Ho partecipato alla riunione organizzativa tenutasi la settimana scorsa a Palazzo Mezzabarba con il primo cittadino e le altre autorità, compreso il Comandante della Polizia Locale, nella quale oltre alle informazioni riguardanti le disposizioni di sicurezza abbiamo ascoltato le richieste dei nostri ammiministratori. Ci è stato consigliato di abbellire le vetrine dei negozi, di aumentare i livelli di educazione e accoglienza, aprire le attività con orari prolungati, ripulire muri e strade da segni o graffiti... il tutto per offrire alle migliaia di pellegrini e turisti che avrebbero raggiunto Pavia un'immagine di città viva e florida. Noi commercianti tutto questo l'abbiamo messo in pratica, anzi di più. Con lo stile che ci distingue abbiamo investito maggiormente per offrire molto di più. Peccato che in questa fase delicata siamo rimasti soli. Allo sbaraglio! Sono state due giornate di lavoro perso. I nostri Amministravengano tra noi e chiedano come è andata... e cosa pensiamo di quanto hanno realizzano e hanno realizzato per incentivare il commercio a Pavia. Laura Tabellini Pavia Qualche domanda sulla visita del Papa Nel massimo rispetto per la storica visita di Benedetto XVI a Pavia, mi pongo alcuni interrogativi. Sabato tutto il percorso del corteo è stato transennato ed è stato impedito dalle forze dell'ordine ai cittadini di attraversarlo anche a piedi, ben prima che l'elicottero atterrasse a Pavia; alla mia richiesta se ci fossero varchi in cui fosse possibile attraversare la strada nessuno ha saputo rispondere. Tutte le strade extraurbane nei dintorni di Pavia, ben al di fuori dal percorso del corteo, erano presidiate da numerosissimi mezzi di Polizia e Carabinieri. Elicotteri volteggiavano bassi sulla città. Era tutto necessario? Ed infine, ma è il quesito principale, quanto denaro pubblico è stato speso complessivamente? Mauro Ghislandi Pri, Pavia Il lucido messaggio di Benedetto XVI Ho letto con meraviglia la lettera inviata dal sig. Mauro Vanetti pubblicata il 19 aprile: un pamphlet contro la Chiesa e contro il Papa, che si accingeva a rendere visita alla Città di Pavia. Tale visita è evidentemente l'occasione propizia per molti per scaricare il proprio livore contro la Chiesa, che si oppone al riconoscimento dei diritti più elementari della povera gente, e pensa solo a rafforzare i propri privilegi, ad esempio chiedendo maggiori finanziamenti per le scuole private. Una Chiesa lontana dall'uomo, arrogante e aggressiva, che vuole imporre il proprio pensiero non col "sostegno di un ragionamento", bensì con la "prepotenza del dogma" e la "minaccia della scomunica" (così si esprime il Sig. Vanetti). Parole seducenti, specie per chi ha già deciso in cuor suo che la Chiesa è un'istituzione vecchia e fastidiosa. Peccato che non si comprende come una persona verosimilmente non cattolica possa avvertire una minaccia in un dogma, che è una "verità di fede" solo per chi ha fede, o come possa trovare pericolosa una scomunica che, consistendo nell'esclusione di un membro dalla comunità ecclesiale, non può certo danneggiare chi si è già autoescluso. Poi che la Chiesa non possa parlare di matrimonio perché gli ecclesiastici dovrebbero "teoricamente" averne poca esperienza è affermazione tanto sfrontata quanto immotivata: sono convinto che si fa esperienza anche senza "provare", purchè non si rinunci a giudicare ciò che si ha di fronte. Così non abbiamo bisogno di provare il furto, lo stupro, la calunnia, ecc. per dire che sono cose ingiuste. Né di provare la povertà, la malattia e l'abbandono per dire che la carità, la cura e l'assistenza sono cose buone. E pure la Chiesa non ha bisogno di "provare" su di sè l'aborto e l'eutanasia per esprimere il proprio giudizio. Né - noi che abbiamo avuto la fortuna di avere avuto un padre ed una madre che ci hanno cresciuti instancabilmente nell'unità e nel calore degli affetti familiari - abbiamo bisogno di "provare" forme alternative per capire che corrisponde di più alla natura dell'uomo la famiglia "tradizionale". Oppure anche Gesù, che non risulta essersi sposato, è stato arrogante quando si è messo a parlare di matrimonio? Ma, conclude il sig. Vanetti, gli uomini politici che si ritengono laici ed autonomi dai diktat vaticani, dovrebbero dare prova di coerenza non incontrando il Papa, che verrà a "farsi un giro" (!) a Pavia. Quale coerenza? Forse censura, rifiuto a priori del confronto e del dialogo, integralismo ateo, non certo coerenza. Personalmente, da laico quale sono e ritenendomi autonomo dai predetti diktat (dai quali pure mi lascio interrogare), vorrei in questo momento essere un uomo politico pavese per avere la fortuna di incontrare Papa Benedetto XVI, un uomo dalla straordinaria statura umana e lucidità intellettuale, che ha posto la sua vita al servizio non solo della Chiesa, ma dell'uomo stesso, affermando instancabilmente - con la forza della ragione (basta leggere i testi dei suoi interventi, o il suo ultimo splendido libro per accorgersene) - ciò che rende l'uomo libero. No, il Papa non viene a Pavia a farsi un giro, viene per portare la Speranza a chi è disponibile ad accoglierla, ed io, come tanti di altra parte della Città, vorrei essere tra quelli. Lorenzo R. Valli Pavia I volti degli ipocriti portati allo scoperto L'ipocrisia è un guanto rovesciato, un soprabito double-face, l'effigie di Giano Bifronte. Il vocabolo ipocrita deriva dal tardo latino, che si rifà, a sua volta, al greco classico, hipokrités, che significa, nella sua essenza, "attore", sostanzialmente "colui che recita una parte", in altre parole chi fa della simulazione ragione di vita, o, peggio, fonte di guadagno. La visita del Papa a Papia (Pavia) porta, per così dire, allo scoperto, tutti coloro che appartengono alla suddetta categoria. Mi è capitato ultimamente di ascoltare persone e, cosa più grave ancora, di leggere, espressioni di attesa palpitante, di devoto fervore, di misticismo zelante, provenire da individui che, fino a poco prima, avevano fatta loro la frase di Louis Brunel: "Grazie a Dio, sono ateo", oggi rapidamente convertita nei versi di un canto devoto che veniva intonato durante le processioni del mese di maggio: "Anch'io festevole, corro ai tuoi piè". Spinta propulsiva alla conversione, o scaltro, interessato adeguamento alla circostanza? Quesito al quale, l'ammetto, mi è molto difficile rispondere. Mi risulta facile, invece, citare un brano dai "Quaderni di Malte Laurids Brigge", romanzo di Rainer Maria Rilke: "Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità di uomini, ma i volti sono ancora più numerosi perchè ciascuno ne ha più di uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene livido, si piega alle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano in volto, non lo fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poichè hanno più volti, cosa se ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli. Capita anche, però, che li portino i loro cani. E perchè no? Una faccia è una faccia. Altri si mettono un volto dopo l'altro con rapidità inquietante, e li logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma sono appena sulla quarantina, e già arriva l'ultimo. Questo naturalmente è una tragedia. Non sono abituati a tenere da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora, a poco a poco vien fuori il rovescio, il non volto. E vanno in giro con esso". Loris Dalla Mariga Pavia Una grande pubblico per la Coppa Italia Qualche giorno fa Pavia ha preso parte a un importante e bellissimo evento sportivo: le Final Four di Coppa Italia A2 femminile. E le ragazze della Riso Scotti, nonostante la sconfitta contro Busto Arsizio, hanno regalato delle bellissime emozioni. Un pubblico così caloroso, numeroso e giovane non si era mai visto al Palaravizza. Grida e applausi hanno scandito l'entrata in campo dello starter six e non hanno smesso un minuto durante tutti e tre i set... e questo tifo, le ragazze della Riso Scotti se lo meriterebbero sempre!!! Uno striscione accanto a me diceva "Regalateci un sogno. Forza Scotti!", e il sogno lo avete regalato perchè una emozione e una gioia così grande vi e ci ha accompagnato per tutta la partita. Brave bimbe... grazie! Valentina Arena Pavia.


 

L’Unità 24-4-2007 Bufalopoli Marco Travaglio Ricordate i minimizzatori di Calciopoli, quelli che "non è successo niente", "non ci sono prove", "solo chiacchiere al telefono"?

 

Ora si scopre una dozzina di arbitri telecomandati via cavo da Moggi, che forniva schede estere criptate per parlare in libertà. Ma sul Foglio, che sosteneva la normalità del sistema Moggi e dava la colpa a Rossi e Borrelli, si parla d'altro. Anche Ostellino, che sul Corriere definiva il processo alla Juventus "un mostro giuridico", un "processo staliniano", è piuttosto distratto. Ricordate i pompieri di Vallettopoli, quelli che "non c'è reato", "le inchieste di Potenza sono bolle di sapone", "Woodcock cerca solo le prime pagine", "il problema sono le intercettazioni"? Bene. Ora si legge che Fabrizio Corona sta collaborando con la giustizia, facendo i nomi di decine di vip che hanno pagato per non veder pubblicate le loro foto compromettenti. E non solo i giudici di Potenza, ma anche quelli di Roma, Torino e Milano emettono mandati di cattura. Ma chi un mese fa delirava a reti ed edicole unificate, da Vespa a Mentana ai tre quarti dei commentatori della carta stampata, ora si volta dall'altra parte. Nessuno chiede scusa, nessuno fa pubblica ammenda delle fesserie dette e scritte. Ma, se fosse soltanto un problema di giornali e tv, passi. Verba volant. Il fatto è che, sulla base di quegli slogan bugiardi, si son presentati disegni di legge, varate riforme, consacrate verità parlamentari. Il ddl Mastella, oltre a imbavagliare la stampa su tutti gli atti d'indagine, anche quelli non segreti, limita i centri d'ascolto delle Procure (da 163 a 26) e minaccia i magistrati che "intercettano troppo" di risponderne di tasca propria davanti alla Corte dei Conti. L'han votato tutti i partiti, dall'estrema destra all'estrema sinistra. Sapevano quel che votavano? È lecito dubitarne. In vista del voto del Senato, farebbero bene a leggersi il Corriere di domenica, che riporta i dati del ministero della Giustizia sulle intercettazioni nelle 165 Procure italiane. La spesa totale è 250 milioni all'anno, 4 euro e 30 centesimi per ciascun cittadino: visto che gran parte degli ascolti serve a individuare narcotrafficanti, mafiosi e assassini, ogni persona di buonsenso è ben felice di devolvere il costo di quattro caffè all'anno per vivere più sicura. Cos'è questa storia delle "troppe intercettazioni", in un paese con tre regioni e mezza in mano alla criminalità organizzata? Si dirà: ma "certe procure" intercettano troppo. Per esempio quella di Potenza, come autorevolmente dice a ogni inaugurazione dell'anno giudiziario il procuratore generale Vincenzo Tufano. Ecco, dai dati del ministero emerge che sono balle: la Procura di Potenza è solo trentesima in classifica. Preceduta da quelle di Busto Arsizio, Latina, Nuoro, Trento, Monza, Varese, città non proprio infestate dalla 'ndrangheta (sempre più presente, invece, in Basilicata). Nelle prime dieci comunque ci sono Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Catania e Caltanissetta: le capitali della mafia, della camorra e della 'ndrangheta, a riprova del fatto che i bersagli primari sono le mafie, non il povero principe di Savoia, i poveri politici e i poveri ricattatori di vip. E allora di che abbiamo parlato per tutti questi mesi, quando il pm Woodcock e il gip Iannuzzi venivano additati come i primatisti mondiali dell'intercettazione facile? Ultima bufala. L'11 luglio 2006 il ministro dell'Interno Amato, parlando delle inchieste di Woodcock, denuncia in Parlamento un fatto gravissimo: "Sono esterrefatto, mi dicono che esistono contratti tra giornalisti e chi fornisce notizie e collegamenti fra Procure e giornalisti, per cui, al momento in cui un atto viene comunicato agli indagati, viene fornita ai giornalisti la password per entrare". Ora, dagli atti dell'inchiesta del pm De Magistris, emerge che tutti i magistrati lucani ascoltati in merito alla "password" han risposto con una grassa risata. Anche perché non c'è password che consenta l'accesso ai computer della Procura. Pare che quella leggenda metropolitana sul conto di Woodcock sia stata raccontata da Tufano al prefetto di Potenza, che la segnalò al ministro Amato, che senz'alcun controllo la rilanciò in Parlamento. A nove mesi di distanza, Amato potrebbe forse scusarsi, ed eventualmente consigliare al collega Mastella di occuparsi di questo Tufano. Visto che gli ispettori ministeriali sono sempre a Potenza per occuparsi di Woodcock, potrebbero dare un'occhiata, già che ci sono, al procuratore generale. Pare che sia un tipo interessante. Uliwood party.


 

Marketpress.info 24-4-2007 RICERCA RIVELA L'EVOLUZIONE CONTINUA DELL'INFLUENZA AVIARIA IN EUROPA

 

Studi genetici dettagliati di campioni di influenza aviaria H5n1 raccolti in Europa, Medio Oriente e Africa hanno rivelato l'esistenza di un specifico ceppo euroafricano della malattia presente nella regione e hanno fornito nuove spiegazioni sulla sua diffusione. Lo studio, finanziato in parte dall'Ue, è stato pubblicato nella rivista "Emerging Infectious Diseases". I ricercatori hanno sequenziato i genomi completi di 36 campioni di H5n1 prelevato da uccelli ritrovati in Europa, Medio Oriente, Africa (Ema) e Vietnam. L'influenza aviaria è stata individuata per la prima volta nella regione Ema tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006. I ricercatori hanno scoperto che i campioni dell'area Ema erano strettamente correlati, malgrado provenissero da volatili trovati in paesi tra loro molto distanti, quali Slovenia, Afghanistan e Sudan. Tutti i campioni rientravano in un ceppo distinto euroafricano, diverso dalle altre tre principali famiglie virali di H5n1 che circolano attualmente in Asia. Tale ceppo Ema è a sua volta suddiviso in tre sottofamiglie. "è la prima volta che vengono esaminati tutti i genomi H5n1 presenti in occidente", ha commentato Steven Salzberg dell'Università del Maryland, l'autore principale dell'articolo. "Finora, gli studi si sono concentrati principalmente sui campioni provenienti dall'Estremo Oriente. Il nostro studio mostra che il virus si sta diffondendo a occidente e che vi sono stati tre diversi momenti di penetrazione dell'H5n1 in Europa, Medio Oriente e Africa. " "Il fatto che i virus appartengano allo stesso ceppo indica una fonte genetica unica di introduzione dell'influenza (H5n1) in Europa occidentale e in Africa settentrionale e occidentale", scrivono i ricercatori, che individuano tale fonte in Russia o nella provincia cinese di Qinghai. Inoltre, mentre le tre sottofamiglie si stanno evolvendo in maniera indipendente, un campione del virus prelevato da un pollo nigeriano ha evidenziato un genoma generato dall'unione di due delle sottofamiglie Ema. Secondo i ricercatori, il fatto che tutte e tre le sottofamiglie siano presenti nella stessa area geografica significa che vi sono varie possibilità di "riassortimenti" del genere. "Occorreranno misure di sorveglianza aggiuntive per determinare se tale ceppo frutto del riassortimento si diffonderà ulteriormente nella popolazione aviaria e per valutare la sua capacità di contagiare i mammiferi", osservano i ricercatori. Lo studio ha inoltre rivelato che i ceppi Ema presentano una mutazione che è associata alla virulenza nei topi e che si adatta agli ospiti mammiferi. "La diffusione nell'Ema è coincisa con il rapido emergere di contagi ai danni dei mammiferi, compresi gli umani in Turchia, Egitto, Iraq e Gibuti, e i gatti in Germania, Austria e Iraq", fanno presente i ricercatori, aggiungendo che i ceppi Ema del virus sembrano avere la medesima virulenza dei ceppi asiatici, in quanto quasi la metà dei contagi umani ha avuto esiti letali. Secondo i ricercatori, l'ampia diffusione della malattia suggerisce inoltre che, responsabili del rapido contagio ad opera dell'H5n1sono gli spostamenti degli umani e non le migrazioni degli uccelli selvatici. "Le rotte migratorie degli uccelli selvatici non corrispondono agli spostamenti dei genomi da noi sequenziati", ha spiegato il dottor Salzberg. "Gli umani trasportano pollame attraverso molti dei paesi oggetto del nostro studio e spesso coprono grandi distanze. Questo fattore, unito ai bassi standard di biosicurezza presenti nella maggior parte delle aree rurali, indica i trasferimenti di pollame vivo da parte degli umani come causa dell'introduzione dell'H5n1 in alcuni paesi. " "Tali conclusioni dimostrano come l'analisi genomica completa dei virus dell'influenza sia vitale per comprendere meglio l'evoluzione e l'epidemiologia di tale infezione", concludono i ricercatori. "Tale analisi e altri studi correlati, agevolati da iniziative globali di condivisione dei dati sull'influenza, ci aiuteranno a comprendere la dinamica delle infezioni tra popolazioni di uccelli selvatici e domestici, una comprensione che a propria volta dovrebbe promuovere lo sviluppo di strategie di controllo e prevenzione. " Lo studio ha riunito ricercatori di molti paesi, tra cui Egitto, Costa d'Avorio, Iran e Afghanistan. "Collaborazioni del genere sono essenziali se la comunità scientifica vuole monitorare l'influenza aviaria, ma quasi tutti i ricercatori nell'ambito di tale disciplina continuano a lavorare da soli", ha commentato il dottor Salzberg. "Dobbiamo riconoscere che l'influenza non ha confini, e che dobbiamo non solo collaborare intensamente, ma anche condividere reciprocamente e liberamente i dati, come è successo in quest'occasione. "


 

Il Giornale di Brescia 24-4-2007 ESTERO PRESIDENZIALI FRANCESI: IL CANCELLIERE PREFERISCE IL CANDIDATO UMP ANCHE PER LE SUE POSIZIONI SULLA TURCHIA

 

Eliseo determinante per le riforme Ue, Berlino attende l'esito con ansia Il cancelliere Angela Merkel, presidente di turno dell'Ue BERLINO - Angela Merkel, soprattutto nella sua veste di presidente di turno dell'Unione europea, attende con ansia di sapere chi sarà il nuovo inquilino dell'Eliseo destinato a diventare il nuovo partner di Berlino in questa fase cruciale della presidenza europea. L'esito finale delle presidenziali francesi, con il ballottaggio del 6 maggio fra il conservatore Nicolas Sarkozy e la socialista Ségolène Royal, avrà infatti ripercussioni significative sulla presidenza tedesca della Ue, condizionandone probabilmente il successo o l'insuccesso. Al centro di tutto resta la soluzione della crisi costituzionale, che la presidenza tedesca ha posto fra i temi prioritari del suo programma. Per il vertice di fine giugno a Bruxelles, infatti, la Merkel ha fatto sapere di voler non solo presentare una tabella di marcia ma indicare anche proposte di contenuto per la soluzione del nodo costituzionale. E per questo ha bisogno dell'assenso di Parigi e del successore di Jacques Chirac. La Cdu, il partito cristianodemocratico presieduto dalla Merkel, ha detto ieri apertamente - per bocca del segretario generale Ronald Pofalla - di auspicare un successo finale di Sarkozy, cosa questa che avrebbe ripercussioni "positive" sul difficile processo verso la definizione del Trattato costituzionale. Il candidato conservatore all'Eliseo - leader di un partito alleato della Cdu/Csu tedesca - sembra essere infatti più vicino alle posizioni della Merkel in fatto di Costituzione europea. A differenza di Ségolène Royal - che auspica un nuovo referendum sul testo costituzionale - Sarkozy non mira a una seconda consultazione, puntando invece come la Merkel a salvare gli elementi essenziali e basilari del Trattato. A indurre il cancelliere tedesco a preferire Sarkozy è anche la posizione del leader conservatore francese contraria a una piena adesione della Turchia alla Ue, a differenza del presidente uscente Chirac che invece appoggia l'ingresso a pieno titolo di Ankara. Un nuovo interlocutore a Parigi è essenziale per la politica europea della Merkel, ma anche per il futuro dell'Unione europea, che nella seconda metà del 2008 sarà guidata proprio dalla presidenza di turno francese. Il governo spagnolo di Zapatero ha invece confermato, ieri, di puntare molto sulla Royal. Una vittoria della candidata assicurerebbe infatti di nuovo al premier la sponda francese costruita in Europa con Chirac e gli consentirebbe di rilanciare quell'impulso riformatore che langue in Europa, ma ormai anche in Spagna. L' opposizione di centrodestra vede invece nel successo al primo turno del candidato dell'Ump il segno di un prossimo "asse europeo" fra Nikolas Sarkozy, Angela Merkel e Mariano Rajoy leader del Partito Popolare (Pp). "È questo il cuore dell'Europa", ha detto Angel Acebes segretario generale del Pp parafrasando una frase coniata da Zapatero quando insieme a Chirac e Gerhard Schroeder celebrò "il ritorno della Spagna al cuore dell'Europa" dopo il filoamericanismo di Aznar.


 

Milano Finanza 24-4-2007MFT Il Testo unico minaccia i siti In vista l'obbligo di doversi trasformare in società di consulenza. Sotto accusa i segnali operativi offerti. Perché sono riconducibili ad attività di consulting. Ma il decreto colpirà solo chi fornisce indicazioni personalizzate. Giuseppe Di Vittorio

 

Timore e disappunto per i siti che offrono segnali per il trading: il ministero del Tesoro ha pubblicato le bozze del nuovo Testo unico sulla finanza, in vigore dal prossimo novembre. Che potrebbe colpire non solo i fornitori di servizi di supporto al trading, ma anche le migliaia di utenti che li prendono a riferimento. In che modo? E' molto semplice: fino a oggi infatti chiunque poteva offrire segnali operativi attraverso la rete, 'compra questo, vendi quello' giusto per fare un esempio. Tutte raccomandazioni per lo più basate sull'analisi tecnica, con solo qualche deviazione verso considerazioni di carattere fondamentale. Un sistema che ha retto per anni, da quando nel 1991 il legislatore fece sparire la consulenza in materia di investimenti dall'elenco dei servizi possibili. Un colpo di spugna non da poco visto che per prestare tali servizi occorrevano determinati requisiti soggettivi e patrimoniali. Servizi però presto rimpiazzati da chi appunto forniva segnali.Indietro tutta. E adesso? Ora si fa nuovamente marcia indietro, nel senso che la consulenza in materia di investimenti torna a essere servizio possibile. La volontà è stata espressa prima dal parlamento europeo e poi recepita dal governo italiano. Un cambio di rotta che risente evidentemente della scia dei crac della finanza mondiale: dall'Argentina, a Enron, passando per le vicende tricolore con Cirio, Parmalat e Banca 121. Il ragionamento è semplice: per dare consigli occorre disporre di un'adeguata professionalità e onorabilità. E stavolta i requisiti non saranno solo annunciati genericamente, ma verranno stabiliti da uno specifico decreto del Ministero delle Finanza di concerto con quello della Giustizia, sentite Banca d'Italia eConsob.Il nuovo consulente. Il problema, come accennato, è che in tutto questo tempo sono nate una serie di iniziative, gratuite o meno, mirate a fornire indicazioni operative. Alcune di queste offerte erano proposte sulla rete da vari soggetti, altri da professionisti. Ed sono state proprio le proteste di questi ultimi a far decidere per una modifica della regolamentazione. In futuro potranno svolgere l'attività di consulenza non solo le sim, ma anche le singole persone fisiche che non sono incorse in particolari pendenze giudiziarie e in possesso di specifici titoli e conoscenze. Allo stesso tempo i consulenti di investimento dovranno essere indipendenti, dimostrando di non incorrere in conflitto di interessi, di non suggerire prodotti più per un tornaconto personale che per la bontà dell'investimento. Questi professionisti dovranno possedere inoltre un patrimonio in grado di risarcire i danni arrecati a terzi nello svolgimento della loro attività. Su quest'ultimo punto gli aspiranti consulenti si potranno attrezzare anche con una specifica assicurazione. 'Già da molto tempo, in vista dell'approvazione della nuova normativa', ha sottolineato Stefano Masullo, segretario di Assoconsulenza, 'abbiamo avviato contatti con le compagnie assicurative per offrire coperture dai rischi'. Se i siti web offrono una consulenza personalizzata, tagliata su misura per chi la richiede, devono necessariamente chiedere l'iscrizione al costituendo albo. Essere in questo elenco garantirà ai consulenti la possibilità di fregiarsi della titolarità di tutti i requisiti prima indicati, ma li obbligherà a proporre operazioni adeguate al profilo di rischio, agli obiettivi di investimento e alla loro capacità di sostenere le perdite in termini di patrimonio e reddito del cliente. Si tratta di incombenze non secondarie che chiaramente delimitano poi le proposte di investimento che vengono offerte. Quando l'analisi è un accessorio. E per chi non offre la consulenza personalizzata cosa succedete? Sembrerebbe che tutto rimanga com'è. 'L'area delle raccomandazioni di carattere generale non è sicuramente materia di consulenza', ha precisato Guglielmo Gugliotta, avvocato e segretario generale di Assosim. 'Ciò che preoccupa però è un altro comma della futuro Testo unico, nel quale si stabilisce la definizione di servizio accessorio', ha aggiunto Emilio Tommasini di lombardreport.com. Nella bozza di decreto legislativo la ricerca in materia di investimenti, l'analisi finanziaria o altre forme di raccomandazioni generale riguardanti operazioni relative a strumenti finanziari sono riconosciute come servizio accessorio. Un successivo articolo precisa inoltre che tale attività può essere svolta dalle sim. Gugliotta però si richiama a un principio del diritto per cui se un'attività non è esplicitamente vietata o riservata può essere svolta liberamente. Per cui mentre per i servizi di investimento la legge precisa i soggetti chiamati a svolgerli, per quelli accessori non esiste questa riserva. Un chiarimento in proposito da parte delle autorità interessate forse sarà opportuno, visto che i rischi non mancano e novembre incombe. L'esercizio abusivo della professione può comportare la reclusione da sei mesi a quattro anni e una pena pecuniaria da 2 mila a 10 mila euro. (riproduzione riservata) MFT Numero 081, pag. 1 del 24/4/2007 Autore: Giuseppe Di Vittorio


INDICE 23-4-2007

+ Il Sole 24 Ore 23-4-2007 Paese che vai, paniere per calcolare il caro vita che trovi. Inflazione. I prezzi calcolati con i valori indicati da 5 Paesi. Chiara BussiIn base ai parametri americani l'inflazione sarebbe così salita al 3,3%, con quelli inglesi al 3,2% e con quelli tedeschi al 3,1 per cento.

+ Reuters 23-4-2007 Frode agricola alla Ue, 45 arresti in Calabria

+ La Stampa 23-4-2007 Parigi reclama gli eroi Barbara Spinelli

Il Riformista 23-4-2007 Ecco che arriva l'America. Oppure no. DEMOCRAT. UN GIUDIZIO (PROVVISORIO) SUL PARTITO CHE STA NASCENDO Paolo Franchi

La Gazzetta del Sud 23-4-2007 Travagliata elezione dei 98 componenti del "parlamentino" Lo "strappo" di Arturo Parisi contro le logiche delle correnti Giovanni Innamorati

Il Piccolo di Trieste 23-4-2007 IL PD E I COSTI DELLA POLITICA di Franco A. Grassini

Il Corriere della Sera 23-4-2007 La Francia e noi di Michele Salvati

Marketpress.info 23-4-2007  STRASBURGO FRA I PUNTI FORTI DELLA SESSIONE PLENARIA: LE BARRIERE CHE INTRALCIANO I PAGAMENTI TRANSFRONTALIERI IN EUROPA

Corriere Economia 23-4-2007 La bolla immobiliare non si gonfia più Stop agli aumenti diffusi e ininterrotti.

La Repubblica 23-4-2007 Usa, la rivincita dell'italiano è boom di corsi all'università dal nostro corrispondente MARIO CALABRES

La Repubblica 23-4-2007 Annunciata fusione Barclays-Abn Nasce la seconda banca europea

Il Corriere della Sera 23-4-2007 Mediatore di Emergency, accusa di omicidio. Le autorità afghane: «Colpevole di un reato contro la sicurezza nazionale» Fiorenza Sarzanini

 


 

+ Il Sole 24 Ore 23-4-2007 Paese che vai, paniere per calcolare il caro vita che trovi. Inflazione. I prezzi calcolati con i valori indicati da 5 Paesi. Chiara Bussi

In base ai parametri americani l'inflazione sarebbe così salita al 3,3%, con quelli inglesi al 3,2% e con quelli tedeschi al 3,1 per cento.

 

Con i panieri degli altri l'Italia è la più cara. Lo dimostra una simulazione effettuata dal Sole24 Ore del Lunedì, applicando all'Italia i pesi che cinque grandi Stati danno alle diverse voci. In base ai parametri americani l'inflazione sarebbe così salita al 3,3%, con quelli inglesi al 3,2% e con quelli tedeschi al 3,1 per cento. Ben oltre il 2,1%effettivamente registrato con il paniere ufficiale. E spulciando tra le liste degli altri Paesi si scoprono molte curiosità: in Gran Bretagna, per esempio, quest'anno ha fatto il suo debutto addirittura il solitario di diamanti. Bussi u pagina 3 l'articolo prosegue in altra pagina.

Brillanti e lifting nei panieri del mondo La casa pesa di più in Germania e Usa Italia e Spagna attente al costo di ristoranti e pizzerie Chiara Bussi Il solitario di diamanti spodesta l'anello di gemme colorate. Succede in Gran Bretagna,dove il 19 marzo scorso il "re delle pietre" ha fatto il suo ingresso nel paniere dei prezzi, diventando così a pieno titolo uno dei 650 prodotti sotto osservazione ogni mese per calcolare l'inflazione del Paese. Il romanticismo qui non c'entra e prevale la fredda ragione della statistica: il mercato dei diamanti è più trasparente e rilevare i prezzi è più semplice. I nuovi arrivi al di là della Manica tratteggiano anche il profilo di un Paese che ha aperto le porte alla cucina mediterranea. Così l'olio di oliva ha sostituito quello vegetale e i broccoli hanno preso il posto dei cavolini di Bruxelles. Il Sole24 Ore del Lunedì ha messo a confronto i panieri utilizzati per calcolare gli indici di inflazione nazionali di sei Paesi per mettere a fuoco la loro composizione, il peso assegnato ai singoli capitoli di spesa e gli aggiornamenti più curiosi. Per meglio evidenziare le differenze, su consiglio degli esperti, per Francia, Germania e Spagna è stato analizzato quello del Cpie non dell'Hicp, l'indice armonizzato che viene trasmesso a Eurostat, l'ufficio di statistica della Ue. Stesso criterio per la Gran Bretagna con il paniere dell'indice Rpi, che misura i prezzi al dettaglio. Per l'Italia è stato preso in esame il Nic, l'indice per l'intera collettività, quello che l'Istat diffonde ogni mese. E provando a calcolare l'inflazione italiana con i panieri degli altri si scopre che i prezzi al consumo del nostro Paese dal 2001 al 2006 sarebbero più alti (vedi grafico a fianco). Nella gara tra entrate e uscite nella Penisola le pantofole da donna hanno ceduto il passo a un bene di consumo più glamour come i sandali, mentre i ritmi frenetici della famiglia hanno imposto l'inserimento dei sughi pronti. In Spagna tra i servizi paramedici spuntano le operazioni di chirurgia estetica e gli interventi laser contro la miopia. In Germania solo nel 2003 è stato creato un paniere unificato per la parte occidentale e orientale del Paese. Per la prima volta hanno fatto il loro ingresso le voci di spesa legate alla protezione sociale, dalla retta mensile per gli asili nido all'assistenza degli anziani. Negli Usa la ponderazione avviene ogni due anni , ma il Department of Labor può inserire un prodotto in qualunque momento. è il caso del Viagra,sul mercato dal 1998 ed entrato nella lista in tempi record l'anno seguente. Il paniere si presenta dunque come una borsa della spesa virtuale, una sorta di matrioska composta da capitoli di beni e servizi con una rilevanza diversa a seconda dei consumi effettivi di un Paese,in alcuni casifrutto di una precisa scelta metodologica. E, al loro interno, singole voci di spesa che si scompongono successivamente in voci di prodotto in numero diverso a seconda dei Paesi: dai mille per la Francia ai 180 per gli Usa per un numero complessivo di prezzi che vanno dagli 80mila negli Usa a circa 400mila inItalia. Diversa anche la copertura del territorio: 85 Comuni in Italia (19 capoluoghi di regione e 66 capoluoghi di provincia), 190 Comuni sugli oltre 12mila in Germania, l'87% della popolazione negli Usa. La casa pesa di più negli Stati Uniti,in Germania e in Gran Bretagna. A conferma dei luoghi comuni, Italia e Spagna si distinguono invece per la rilevanza nel panieredelle spese per cibie bevande analcoliche, ma anche di hotel, caffè e ristoranti. è sull'abitazione che si scorge la differenza tra le due sponde dell'Oceano. Gli Usa, oltre a monitorare le spese per gli affitti reali, si cimentano in un esercizio teorico calcolando il valore della retta mensile se una dimora di proprietà fosse messa in locazione. Una voce che pesa per il 23,8%e assegna al capitolo "casa, acqua elettricità" la maggiore rilevanza tra i Paesi considerati con il 35,4%. I tedeschi sono un popolo di affittuari: solo il 56% secondo i dati Eurostat sceglie l'acquisto contro l'82% dell'Italia e l'89% della Spagna. E si vede: se il capitolo "casa" vale il 30,2%,ben il 21,1%è rappresentato dagli affitti reali. In Gran Bretagna il capitolo vale il 27,7%. Qui, però, a differenza degli altri Paesi, il paniere preso i considerazione tiene conto degli interessi sui mutui e del deprezzamento dell'abitazione, ovvero dei costi da sostenere per mantenere costante la sua qualità, esclusi gli interventi di manutenzione di routine. Ben diverso è il caso dell'Italia, dove la casa pesa per il 9,79% e dove le locazione reali rappresentano il 2,1% appena della borsa della spesa. Nel confronto con gli altri cinque Paesi la Penisola si distingue per il capitolo "Mobili e servizi per l'abitazione" (8,67%), ma la voce con maggiore rilevanza è quella relativa a ristoranti e pizzerie ( 4,7%).Anche se poi va alla Spagna il primato per questa categoria: la movida nei tapas bare nei caffè vale il10,6 per cento.

chiara.bussi@ilsole24ore.com

LA COPERTURA L'Istat effettua le sue rilevazioni su 540 prodotti: in Francia sono 1.000 e 180 negli Stati Uniti

LE TIPOLOGIE Complessivamente sono registrate variazioni per un milione e mezzo di beni e servizi.

 

+ Reuters 23-4-2007 Frode agricola alla Ue, 45 arresti in Calabria

 

ROMA (Reuters) - Le forze dell'ordine hanno arrestato 45 persone e sequestrato beni per circa 50 milioni di euro nell'ambito di un'inchiesta su contributi agricoli europei ottenuti illegalmente da una serie di produttori calabresi, con il presunto sostegno di alcuni funzionari regionali. Lo riferisce un portavoce del Comando Carabinieri Politiche Agricole. L'operazione, denominata "Withdrawal" (ritiro dal mercato), dice un comunicato dell'Arma, si è svolta oltre che in Calabria anche in Lazio, Toscana e Piemonte. I mandati di custodia cautelare -15 in carcere, gli altri 30 agli arresti domiciliari - hanno riguardato "dirigenti e funzionari regionali, presidenti di cooperative, amministratori e soci di organizzazioni e unioni di produttori del settore dell'ortofrutta", accusati, secondo i casi, di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata, "consumata e tentata", ai danni dell'Unione europea, corruzione e falso in atto pubblico. L'operazione è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Palmi, dopo le indagini cominciate nel 2003, ha detto il portavoce dei Carabinieri. Oltre all'Arma, al blitz di oggi hanno partecipato anche gli agenti della Guardia di Finanza. Secondo le prime informazioni, gli inquirenti accusano gli arrestati di aver procurato od ottenuto illegalmente i finanziamenti previsti per il ritiro dal mercato (di qui il nome dato all'operazione) di prodotti ortofrutticoli in eccedenza. In pratica, alcuni produttori avrebbero gonfiato le cifre delle loro produzioni per ottenere rimborsi sui prodotti da ritirare dal mercato.

 


 

+ La Stampa 23-4-2007 Parigi reclama gli eroi Barbara Spinelli

 

Ségolène infine è riuscita a restituire l'onore perduto al partito socialista. Non è stata eliminata al primo turno, come cinque anni fa era accaduto a Lionel Jospin. La sinistra è riabilitata, la candidata ottiene il 25 per cento e si colloca subito dopo il vincitore di questa prima prova, che è il gollista Nicolas Sarkozy. Ma la destra esce rafforzata dal voto, e non è più la destra di ieri: Sarkozy ha fatto una campagna impostata sulla rincorsa di Le Pen, e ha ottenuto un consenso più vasto del previsto: più del 30 per cento. Ha preso numerosi voti a Le Pen, che nel 2002 aveva ottenuto il 16,8 per cento e oggi scende all'11. Il Fronte nazionale comincia a essere assorbito, una parte della destra estrema dovrà disimparare la violenza cui è abituata: è un progresso, e solo un uomo di destra poteva conseguirlo. Ma l'elettorato di Sarkozy combinato con quello di Le Pen dà vita a una grande e ambigua forza, e questo vuol dire che i socialisti di Ségolène non potranno vincere con le vecchie coalizioni di sinistra. Hanno bisogno a tutti i costi di François Bayrou, che non ha vinto la scommessa - entrare nella gara finale - ma che resta determinante e che dà vita a una terza forza assai potente (il 18 per cento circa), a un centro mai esistito nella Francia presidenziale fondata da de Gaulle. Senza di lui Ségolène Royal può difficilmente vincere, e Bayrou è dunque la vera novità di questo scrutinio.

Ancora una volta, i francesi sono andati al voto con enorme passione: l'affluenza alle urne è formidabile. Era già accaduto al referendum sulla Costituzione europea, nel 2005, e la passione è sempre quella. I più diffidenti lo chiamano entusiasmo dell'antipolitica, protesta contro le élite: nell'aprile 2002, quando al primo turno delle presidenziali fu eliminato Jospin, si parlò addirittura di rivolta contro le istituzioni. In realtà la Francia è in permanente stato di sofferenza, da quel giorno. Ha paura, ma questa paura la spinge a usare l'antipolitica come arma di partecipazione più che di rigetto. È una Francia che non ha precisamente una speranza, ma in cambio ha un'attesa e dalla politica si aspetta moltissimo. Si aspetta che la persona eletta ai vertici dello Stato la capisca, la riconosca, e non solo la protegga ma le indichi la via del cambiamento con un certo eroico volontarismo. «Infelice il paese che ha bisogno di eroi!», esclama Galileo nel dramma di Brecht. Quel che hanno intuito tutti i candidati e che Sarkozy ha intuito più di tutti è che la Francia ha invece bisogno proprio di questo: di eroi.

Non stupisce l'immagine che ha dominato le ultime ore della campagna: Nicolas Sarkozy su un cavallo bianco nelle campagne della Camargue, jeans e camicia a scacchi, circondato da tori d'allevamento. In questa ferina ansia di divenire leggenda Sarkozy ha superato se stesso, quasi esagerando. L'icona del cavaliere senza paura è francese, sino in fondo. Volutamente il candidato ha copiato l'immagine apparsa sulla copertina dell'Economist: travestito da Napoleone, accigliato, Sarkozy inforca il cavallo bianco di conquistatore. «Un pragmatico brutale più che un liberale convinto», scrive il settimanale. Chi conosce Sarkozy ha più volte pensato a Napoleone, alla sua storia di illimitata ambizione. Il cavallo montato da Sarkò in Camargue si chiama Univers. C'è una dismisura evidente nel candidato che ha vinto il primo turno, che l'ha portato a ignorare le elementari regole della dissimulazione. Ma questa dismisura per ora lo premia. Mentre Sarkozy era sul bianco cavallo si vedeva sui telegiornali Ségolène, prima del voto: passeggiava sull'allegra rue Montorgueil in una Parigi assolata e si fermava a bere un kir col sindaco Delanoë. Era un'immagine più calma, meno eroica-parossistica. 

Ma in fondo ciascun candidato ha cavalcato destrieri salvifici in questa campagna, proponendosi come uomo o donna provvidenziale che si costruisce un destino personale contro le rigidità degli apparati partitici, delle burocrazie, dei vecchi modi di far politica. Anche Ségolène ha voluto diventar leggenda, scegliendo come icona una santa - Giovanna d'Arco - e vestendosi il più delle volte di bianco. E salvifico ha voluto essere Bayrou, anche se fra i candidati è apparso il più naturale, il meno nervoso e retorico. Proprio lui tuttavia è stato accusato di essere populista, di distruggere il tradizionale scontro fra blocchi. Le Monde lo ha descritto come figlio delle disillusioni, dell'insurrezione contro la classe politica, come se Sarkozy e Royal fossero di una stoffa più legittima perché appartenenti ai due campi di destra e sinistra. Ma Bayrou non è solo figlio della disillusione. Ha raccolto consensi perché propone una via diversa, una nuova separazione: non più fra destra e sinistra, ma fra riformatori (di sinistra e destra) e non riformatori. Perché ha lanciato un messaggio che la sinistra non potrà trascurare: in questa Francia dove Sarkozy rincorre Le Pen, la sinistra deve abbandonare la tradizione mitterrandiana e apprendere nuove forme di alleanza fra centro e sinistra anziché fra socialisti e estrema sinistra. Bayrou non è riuscito a ottenere questa rivoluzione subito. Ma la sua proposta alla lunga non è aggirabile. È quello che nei giorni scorsi hanno voluto dire socialisti e riformatori come Michel Rocard, Bernard Kouchner, Daniel Cohn-Bendit.

Bayrou ha avuto contro di sé i partiti classici e anche i giornali, e questa cecità di stampa e televisione non è nuova, né in Francia né fuori. Già nel 2005 stampa e televisione non avevano visto la nascita di un enorme rigetto dell'Europa. Sarkozy e Ségolène hanno invece capito: ambedue si sono proposti come personaggi nuovi, di rottura. Sarkozy aveva rotto con Chirac, ed è giunto sino a sposare alcune tesi di Le Pen. Ségolène aveva rotto con l'establishment socialista, con i cosiddetti elefanti: «Sono una candidata della non sottomissione», ha ripetuto più volte. Nelle prossime settimane capiremo la vera natura delle loro rispettive novità.

 

Il Riformista 23-4-2007 Ecco che arriva l'America. Oppure no. DEMOCRAT. UN GIUDIZIO (PROVVISORIO) SUL PARTITO CHE STA NASCENDO Paolo Franchi

Tra i problemi del Partito democratico alla stato (quasi) nascente non c'è di sicuro, almeno per il momento, quello di non godere di buona stampa. Tanto che, a voler prendere sul serio tanti commenti entusiasti letti e sentiti in questi giorni, bisognerebbe dire che Ds e Margherita, nei loro congressi d'addio, hanno posto le basi non solo per un nuovo, grande soggetto post-ideologico, ma anche per una rapida evoluzione, in senso inevitabilmente bipartitico, nuova legge elettorale permettendo, del sistema. In sostanza: mentre molti, e noi tra questi, nemmeno se ne accorgevano, persi come si era a baloccarci attorno a questioni e questioncelle dall'insopportabile retrogusto novecentesco, stava arrivando l'America. Secondo le previsioni (o le prescrizioni) formulate in apertura delle assise della Quercia dal direttore del Corriere della sera. E come in fondo si conviene, se vuole uscire dalla sua eterna condizione di crisi, al paese per tanti aspetti più americanizzato dell'Europa continentale.
Sarà. Noi ci consentiamo di avere molti dubbi e molti interrogativi, che i congressi non hanno sciolto, e nemmeno potevano sciogliere, ma ai quali il Pd, quando di qui a qualche mese prenderà corpo, dovrà pure aver individuato delle risposte. Insistiamo, e non solo per tigna, su una questione che notoriamente ci sta a cuore, quella della collocazione internazionale del nuovo partito. Mai nel Pse (tutt'al più, ci mancherebbe, con il Pse), come giura solennemente Francesco Rutelli, e con lui tutti i margheritini di ogni specie e confessione? O prima o poi, più prima che poi o più poi che prima, nel Pse, come continua ad assicurare, ma con accenti più flebili e formulazioni non propriamente chiarissime Piero Fassino? Può darsi che, a metterlo giù così, il dilemma non sia interessantissimo. E però fa qualche impressione (torniamo per un attimo agli osservatori entusiasti) leggere tante appassionate esortazioni a non farsi riacchiappare dai «fantasmi socialisti», e soprattutto tante dotte spiegazioni di come e perché il socialismo europeo abbia a dir poco il fiatone, e convenga andar oltre, e anzi riscoprire le nostre italiche, connaturate virtù oltriste, per cambiar le faccia della politica non solo qui da noi, ma in tutta Europa.
Anche se sta arrivando l'America, fa qualche impressione (e stimola anche qualche riflessione) pure il modo in cui questi appelli sono ascoltati e raccolti. Con aperta soddisfazione dalla Margherita, si capisce. Con imperturbabile tranquillità da molti Ds, e questo si capisce un po' meno, visto che qualche sofferenza in più di fronte alla prospettiva di ritrovarsi fuori, o nel migliore dei casi solo nei paraggi, della casa socialista i Ds dovrebbero pure provarla. In fondo, non è solo di un gruppo parlamentare a Bruxelles, ma di una questione identitaria che si parla. O no? Al congresso di Firenze sull'argomento si è in sostanza preferito glissare (anche per non suscitare ancor più fieri “non possumus” da parte della Margherita). Tranne che in un intervento, forse il più applaudito e di sicuro il più coerentemente democrat e il più coerentemente “americano”, quello di Walter Veltroni. Che per motivare l'assoluta irrilevanza, a suo giudizio, della questione non si è limitato a rilevare che Gandhi e Luher King non erano socialisti, ma ha ricordato pure, e giustamente, che non lo erano, e proprio non volevano esserlo, né Occhetto né i ragazzi dell'89, tanto è vero che nel nome del nuovo partito non vollero, e non solo per via di Craxi, alcun richiamo al socialismo, ma preferirono chiamarlo democratico, seppure di sinistra. 
Chi scrive non fu d'accordo allora con quella scelta, e tuttora ritiene a dir poco sconsiderato considerare il socialismo un cane morto o un inutilmente pesante bagaglio novecentesco. Ma non può non riconoscere alla posizione del sindaco di Roma, che la pensava così fin da quando, poco più che ragazzo, riusciva a tenere insieme Enrico Berlinguer e i Kennedy, una limpida coerenza. È vero che i Ds ormai quasi non ci sono più, e da ieri, con l'esclusione di chi non ci sta, «siamo tutti democratici», bipolari e bipartitici. Ma la domanda rimane: gli altri, quelli che a Firenze hanno glissato, sulla storia e sull'identità del partito che chiude i battenti (e quindi su quello che intendono portare nel partito nuovo) la pensano come lui?


 

La Gazzetta del Sud 23-4-2007 Travagliata elezione dei 98 componenti del "parlamentino" Lo "strappo" di Arturo Parisi contro le logiche delle correnti Giovanni Innamorati

 

ROMA È finita come da copione, ma la "guerra" delle diverse anime della Margherita sulle quote dell'assemblea federale è andata avanti senza esclusione di colpi per tutta la notte tra sabato e domenica. Al dunque, come era scritto, Francesco Rutelli è stato confermato leader con un solo voto contrario (anche se è stato rafforzato il ruolo del coordinatore, che spetterà agli ex Ppi). E il ministro della Difesa, Arturo Parisi, è andato via prima di votare, sancendo l'ultimo strappo rispetto alle logiche correntizie. Nella sala riunioni le correnti trattavano sui 98 componenti del "parlamentino" da eleggere (che si aggiungono ai 118 eletti dai congressi regionali). Le difficoltà sono aumentate anche per le divisioni dell'area popolare, dove per la prima volta Enrico Letta si è presentato autonomamente, con un proprio uomo: il consigliere regionale campano Guglielmo Vaccaro, che si è aggiunto ai rutelliani Rino Piscitello e Renzo Lusetti, al diniano Italo Tanoni e ai popolari Antonello Giacomelli e Nicodemo Oliverio: il primo franceschiniano e il secondo mariniano doc. Parisi ha fatto chiedere che si rispettasse il regolamento: con l'elezione dei 98 a scrutinio segreto. Niente quote e niente liste bloccate elette per acclamazione. Ma alla scadenza del termine per le candidature, alla presidenza sono arrivati sei candidati di area Parisi: la quota che le altre correnti gli attribuivano. Immediatamente sono arrivati gli altri 92 nomi concordati dalle altre correnti (26 rutelliani, 6-8 diniani, il resto ex popolari, 16 dei quali legati a Letta). Esattamente 98 candidati (con sole otto donne dentro, però, una scoperta che ha creato scompiglio tra le delegate e irritazione nei vertici). E si è passati alla votazione per alzata di mano o, meglio di delega. Già prima, però, Parisi aveva voluto segnalare che non ci stava, lasciando la sala. (lunedì 23 aprile 2007).


 

Il Piccolo di Trieste 23-4-2007 IL PD E I COSTI DELLA POLITICA di Franco A. Grassini

 

Con i congressi appena conclusi il Partito democratico sta avvicinandosi alla realtà e, quindi, alla necessità di affrontare i nodi del Paese se non vuole essere destinato a una vita grama. Tra questi, quello del costo della politica è certamente uno dei più sentiti dall'opinione pubblica anche se spesso in termini piuttosto vaghi e spesso qualunquisti. In realtà i costi della politica sono almeno di tre diverse categorie. Alla prima appartengono tutte quelle spese sostenute dallo Stato o da altri enti pubblici che non sarebbero strettamente necessarie per il raggiungimento delle finalità che si vogliono perseguire. Per fare solo un esempio, se si desidera raggiungere livelli occupazionali elevati e si ritiene che per conseguire tale obiettivo sia opportuno disporre di imprese pubbliche che effettuino quegli investimenti che le aziende private non vogliono o non possono compiere e le prime non sono efficienti nel realizzare i propri obiettivi, siamo di fronte a un costo della politica pari al divario tra i mezzi che si sono impiegati e quelli che si avrebbero avuti scegliendo altri strumenti. È ovvio che questo tipo di costi non sono agevolmente individuabili ed in larga misura sono considerati tali solo se si dispone di soluzioni alternative. Il che molto spesso è funzione delle ideologie o, se preferiamo, delle visioni del mondo che abbiamo. Alla seconda categoria appartengono i costi della politica intesi come costi per il funzionamento delle istituzioni. Si va dalle spese per il Parlamento, a quelle del più piccolo comune, a quelle dei partiti e delle altre organizzazioni parapolitiche che spesso sono il sale della democrazia. Ed è questo il terreno dove l'Italia non è certamente all'avanguardia. Abbiamo un sistema con due Camere, ambedue più numerose di quelle degli Usa. I nostri parlamentari ricevono notevolmente più dei loro colleghi europei: quasi il doppio dei francesi e il 95% maggiore dei tedeschi. A una situazione del genere si è giunti soprattutto per una ragione: la politica è diventata una professione; si comincia dal consiglio comunale per salire tutta la scala. Rarissimi sono gli innesti dall'esterno. Appare, quindi, logico che in una professione i livelli più alti (anche se di fatto gli assessori siciliani guadagnano più di un ministro) abbia delle retribuzioni più che discrete. Il perché della professionalizzazione della politica, a sua volta, dipende dallo scarso ricambio della classe dirigente, dal fatto che i partiti - in parte per ideologia in parte per necessità - raccolgono voti in rapporto all'esistenza di un'organizzazione permanente, dalla necessità di evitare che solo i benestanti possano dedicarvisi. Il guaio maggiore è che non di rado la professione politica è scelta non per vocazione, ma per mera convenienza economica: soprattutto nelle zone del Mezzogiorno dove non ci sono molte alternative promettenti. La terza categoria dei costi della politica sono le spese pubbliche compiute solo al fine di conquistare voti. Anche qui si va dalla ferrovia con rari utenti mantenuta per non scontentare questo o quel paese, alle assunzioni degli amici incompetenti in enti pubblici e così via. L'eccesso di spesa pubblica ha spesso questa origine. È possibile ridurre i costi della politica? Decisamente sì. Il Partito democratico propone una modifica costituzionale per modificare le funzioni delle Camere: occorre incidere anche sul numero dei componenti. Ma soprattutto va combattuta la professionalizzazione dellapolitica. E il metodo non è troppo difficile: basta iniziare annullando i compensi per tutti quegli incarichi pubblici che non richiedono impegni a tempo pieno come i consigli comunali, anche delle grandi città, che possono benissimo riunirsi di sera o nelle vigilie festive. Si eviterebbe, in tal modo, che migliaia di persone trovino nella politica e nella conquista di voti un vantaggio economico. Sta scritto nel Manifesto del Partito democratico "Sappiamo che la politica, soprattutto quando implica l'assunzione di responsabilità istituzionali, richiede straordinarie doti di dedizione, talento e competenza". Se queste belle e giuste parole saranno tradotte in proposte concrete, non ostante le difficoltà da superare con i propri esistenti apparati, la nascita del nuovo partito sarà veramente un passo avanti per il taglio di almeno uno dei nodi che stringono, sino quasi a soffocarlo, il nostro amato Paese.


 

Il Corriere della Sera 23-4-2007 La Francia e noi di Michele Salvati

 

C'è non poco orgoglio gallico nell'articolo di Jacques Attali che il Corriere ha pubblicato ieri. Anche se alcuni degli esempi con i quali Attali giustifica il suo orgoglio non sono proprio convincenti (le migliaia di inglesi che comprano case in Francia contro i pochi francesi che fanno l'opposto: da quando il sole e la natura sono un merito per il Paese che ne gode?), altri però lo sono. La Francia è un Paese molto ricco, con una qualità della vita eccellente, complessivamente ben amministrato. Le sue istituzioni sono solide e l'efficienza media del suo ampio settore pubblico è elevata, specie se spostiamo il confronto all'Italia. Le sue grandi imprese dominano molti mercati mondiali, la produttività oraria è molto alta e la sua crescita robusta e continua. Naturalmente le élite, gli economisti e gli intellettuali francesi si lamentano, e i timori di «declino» ai quali periodicamente danno voce non sono secondi a quelli italiani. Ma si lamentano a partire da obiettivi assai diversi dai nostri. Noi abbiamo paura di sprofondare ancora nelle graduatorie di benessere, produttività, efficienza istituzionale che ci relegano ai livelli più bassi tra i grandi Paesi europei. Loro temono di non essere all'altezza di un ideale di primato, di grandeur, che noi non ci siamo mai posti. Si lamenta anche la gente comune e qui le lamentele sono più fondate. Fatte le debite proporzioni — il salario minimo legale è di 1250 euro e la signora Royal si propone di portarlo a 1500, un livello superiore al salario medio italiano — i loro problemi sono molto simili a quelli della gente comune del nostro Paese. La disoccupazione è elevata ed elevatissima quella giovanile. La precarietà del lavoro diffusa. La scuola non funziona come uno strumento di mobilità sociale, per selezionare i capaci e i meritevoli quale che sia la condizione delle loro famiglie. Forte è la preoccupazione che i regimi pensionistici — finanziariamente insostenibili — saranno ritoccati in peggio. E ancor più forti sono quelle relative alle condizioni di vita nelle città, alla violenza nelle periferie, al fallimento del disegno di integrazione del gran numero di immigrati esistenti in Francia, dei loro figli e nipoti: e in questi campi nevralgici per il consenso politico la situazione è peggiore che in Italia. Di fronte a queste preoccupazioni, delle élite e della gente comune, l'offerta politica è chiara solo ai lati estremi dello spettro politico: la destra autoritaria e xenofoba di Le Pen e la sinistra radicale, quella il cui successo costò il ballottaggio ai socialisti di Jospin nelle presidenziali del 2002. Chiara, naturalmente, ma del tutto insostenibile come proposta di governo, come programma effettivamente attuabile in un Paese democratico e in un'economia di mercato. Le proposte di governo, in queste elezioni, sono state tre e sono il frutto di una forte innovazione nei tre partiti che si fronteggiano e nei candidati che essi esprimono. In due di essi, i socialisti e i gollisti, si è trattato soprattutto di una rottura generazionale.

Una rottura frutto di un lotta interna tra i dinosauri del passato e un candidato giovane e mediaticamente allettante: Sarkozy non godeva certo del sostegno di Chirac e la signora Royal ha affrontato e sconfitto i maggiorenti socialisti attraverso elezioni primarie tra i membri del partito. L'innovazione programmatica è più modesta, anche se per entrambi i candidati qualche passo in avanti è stato fatto in direzione liberale. Liberal- conservatore, nel caso di Sarkozy, col conseguente appoggio dei grandi poteri economici. Liberale di sinistra nel caso della Royal, anche se il termine liberal resta ancora un insulto tra i socialisti francesi. E tuttavia, dato il basso tasso di liberalismo sia dei gollisti che dei socialisti, qualche progresso esiste, seppur frenato dalle eredità ideologiche del passato e dalle domande di protezione che salgono dalla società. Da un punto di vista programmatico l'innovazione maggiore è stata quella del «democristiano» Bayrou, che ha spostato decisamente a sinistra la proposta di un partito che in passato era alleato colla destra e parte dei governi di questa: europeista convinto, difensore delle piccole imprese contro lo strapotere delle grandi, nemico delle diseguaglianze regionali, accoppia rigore di bilancio (si preoccupa perché il debito pubblico ha superato il... 60%) alla lotta contro l'esclusione sociale. La campagna elettorale è stata la più «americana» che si sia condotta in Francia e i programmi dei candidati hanno avuto diverse accentuazioni più o meno opportunistiche, all'inseguimento di un enorme numero di sondaggi. Ed è solo apparente il paradosso che vede insieme un grandissimo interesse degli elettori e un'altrettanto grande incertezza: l'elettore cerca ansiosamente risposte ai suoi problemi, ma è frastornato da proposte programmatiche tra le quali fa fatica a trovare differenze di rilievo. Sicché è probabile che, alla fine, saranno le immagini tradizionali di destra e sinistra, del gollismo e del socialismo, quelle che risulteranno determinanti nel voto, e non le innovazioni programmatiche che pur ci sono state. La destra di Sarkozy probabilmente ha trovato una definizione più stabile e chiara, che le consente di ricevere sia l'appoggio di intellettuali liberali, sia di cittadini comuni che la votano perché dà una risposta più civile di quella di Le Pen ai problemi che essi avvertono come dominanti. La sinistra una definizione altrettanto chiara non l'ha ancora trovata e questo è uno dei pochi campi in cui, forse, la Francia può accettare una lezione dalla sua più povera cugina. I paragoni vanno sempre fatti con cautela, perché il Ps non è i Ds e l'Udf di Bayrou non è la Margherita: ma la prossima formazione del Partito democratico, l'integrazione in nome di un comune futuro di due eredità del passato che in Italia sembrano ancor più difficili da integrare che in Francia, forse qualcosa può insegnare.

23 aprile 2007


 

Marketpress.info 23-4-2007  STRASBURGO FRA I PUNTI FORTI DELLA SESSIONE PLENARIA: LE BARRIERE CHE INTRALCIANO I PAGAMENTI TRANSFRONTALIERI IN EUROPA

 

Strasburgo, 23 aprile 2007 - Oggi una relazione all'esame della Plenaria chiede che le nuove adesioni non compromettano l'ammissibilità ai fondi regionali delle attuali regioni beneficiarie. Allo stesso tempo i deputati propongono di determinare un periodo di tempo massimo durante il quale sarebbe possibile ottenere tali fondi e un aumento del tasso di cofinanziamento nazionale. Sanzioni più severe solo sollecitate contro gli abusi (relazione Pieper). L'aula esaminerà una proposta di direttiva che prevede sanzioni penali - come reclusione e ammende pecuniarie - per i responsabili di atti di pirateria e contraffazione. Accogliendo con favore il provvedimento, i deputati precisano i diritti da esso tutelati e chiedono l'esclusione dei brevetti dal suo campo d'applicazione. Nel chiarire poi i reati punibili, propongono un'eccezione per giornalisti e insegnanti e chiedono di garantire la libera concorrenza, ma anche i diritti degli imputati (relazione Zingaretti). Il Parlamento è chiamato a pronunciarsi su una proposta di regolamento che intende armonizzare la legislazione inerente alle terapie avanzate che ricorrono ad approcci genici e cellulari per il trattamento di malattie e disfunzioni del corpo umano. Sono in corso negoziati con il Consiglio volti a trovare un compromesso che permetta l'adozione del provvedimento in prima lettura, ma la molto controversa questione delle garanzie etiche complica la situazione (relazione Milolá?ik). La Plenaria esaminerà una direttiva volta a eliminare le barriere che intralciano i pagamenti transfrontalieri in Europa con l'armonizzazione della normativa sui prodotti e l'integrazione dei servizi di pagamento. Ciò consentirebbe di razionalizzare le infrastrutture, offrendo ai consumatori una scelta più ampia e meno costosa e un livello di tutela elevato. Gli emendamenti negoziati con il Consiglio, se fatti propri dalla Plenaria, dovrebbero permettere l'adozione definitiva della direttiva. (relazione Gauzes). Una concorrenza libera e non falsata è indispensabile per la vitalità del mercato interno, l'eccellenza imprenditoriale, gli interessi dei consumatori e gli obiettivi dell'Ue. E' quanto afferma una relazione all'esame dell'Aula, sottolineando la necessità di misure volte ad agevolare i ricorsi per il risarcimento dei danni provocati da comportamenti anticoncorrenziali. I deputati chiedono inoltre di riconoscere alle vittime la possibilità di avviare azioni legali comuni (relazione Sánchez Presedo). Martedì 24 aprile 2007 - L'aula si esprimerà, in prima lettura, su cinque proposte legislative relative al nuovo pacchetto sulla sicurezza marittima che mira a una migliore prevenzione e a un più efficiente trattamento degli incidenti e dell'inquinamento. Si tratta di testi riguardanti la responsabilità in caso di incidente di navi-passeggeri, l'assistenza alle navi in pericolo, i sistemi di controllo da parte dello Stato di approdo e le ispezioni delle navi nonché il quadro europeo per le inchieste sugli incidenti (relazioni Sterckx, Kohlicek, Costa, Vlasto e de Grandes Pascual). Il Parlamento esaminerà un regolamento volto a rinnovare le disposizioni sulla sicurezza degli aeroporti e dei voli adottate in urgenza dopo gli attentati dell'11 settembre. I deputati sollecitano norme più severe nonché maggiore rigore sul trasporto di armi a bordo e sulla presenza di "sceriffi del cielo". Insistono nel definire regole sul finanziamento delle misure di sicurezza e chiedono che i relativi costi siano indicati chiaramente sul biglietto. Ma l'accordo con il Consiglio appare difficile (relazione Costa). L'aids non è stato sconfitto. Anzi, vi è una tendenza a un aumento dei contagi. Una relazione all'esame della Plenaria chiede pertanto la raccolta di dati affidabili e misure di prevenzione indirizzate ai gruppi a rischio. Occorre anche sostenere campagne di informazione e promuovere l'educazione sessuale nelle scuole, visto che la metà dei nuovi contagi riguarda giovani con meno di 25 anni. E' poi necessario aumentare gli sforzi finanziari nella ricerca di nuovi farmaci e ridurne il prezzo. Una relazione all'esame della Plenaria concede il discarico per l'esecuzione del bilancio 2005. Allo stesso tempo i deputati rilanciano l'idea delle "dichiarazioni nazionali" e reclamano che gli Stati membri si assumano la responsabilità della gestione dei fondi comunitari. Sollecitano anche la razionalizzazione del rapporto costi/benefici dei controlli sulla spesa comunitaria (relazione Garriga Polledo). Il Parlamento si pronuncerà sulla direttiva relativa alla valutazione e alla gestione dei rischi di alluvione. I deputati ripropongono numerosi emendamenti già avanzati in prima lettura, e non accolti dal Consiglio, che sottolineano le responsabilità delle attività umane nel verificarsi delle alluvioni e che chiedono di tenere maggiormente conto del ruolo delle pianure alluvionali. Insistono anche sulla necessità di un maggiore coordinamento tra gli Stati membri (relazione Seeber). Mercoledì 25 aprile 2007 - In vista del Vertice che si terrà a Washington Dc il prossimo 30 aprile, l'Aula terrà un dibattito sulle relazioni tra l'Unione europea e gli Stati Uniti. La Cancelliera Merkel e la Commissaria Ferrero-waldner considerano prioritario intensificare le relazioni transatlantiche sia nel campo economico sia in quello politico. Il Parlamento adotterà una risoluzione. L'aula esaminerà un'ampia relazione sulla situazione dei diritti umani nel mondo nel 2006 che si prefigge l'obiettivo di esaminare e, se del caso, criticare le attività dell'Ue in materia di diritti dell'uomo nel 2006, formulando anche dei suggerimenti. I deputati ribadiscono l'impegno a favore di una moratoria sulla pena di morte e chiedono una politica dell'immigrazione rispettosa dei diritti umani. Denunciano anche le violazioni realizzate in numerosi paesi, come Cina, Russia e Turchia (relazione Coveney). A seguito delle discussioni al Consiglio affari esteri sull'iniziativa italiana in sede Onu, si terrà un dibattito in Aula riguardo alla moratoria universale sulla pena di morte. Il Parlamento adotterà anche una nuova risoluzione su questo tema, dopo quella del gennaio di quest'anno con la quale ribadiva la sua posizione contraria a questo tipo di pena "in tutti i casi e in tutte le circostanze". Tale questione è anche affrontata nella relazione all'esame dell'Aula sui diritti umani nel mondo. L'attualità ha riportato alla ribalta nuovi casi di omofobia in Europa. I gruppi politici hanno quindi deciso di inserire un dibattito in Plenaria su questo tema, cui parteciperanno Consiglio e Commissione, e di adottare una risoluzione. Il Parlamento, all'inizio del 2006, aveva già rivolto un appello a garantire ai partner dello stesso sesso il rispetto, la dignità e la protezione riconosciuti al resto della società, la libertà di circolazione e la non discriminazione in materia di successione e fiscalità. Il Parlamento è chiamato ad approvare il compromesso raggiunto con il Consiglio in merito al regolamento che istituisce un meccanismo di assistenza rapida tra gli Stati membri per fare fronte ad afflussi massicci di immigrati illegali alle proprie frontiere. Gli Stati membri dovranno mettere a disposizione del personale che possa essere mobilitato entro cinque giorni. I salari saranno a carico dello Stato di origine della guardia di frontiera, ma gli altri costi saranno sostenuti dall'Agenzia Ue (relazione Deprez). La Croazia va elogiata per i progressi verso l'adesione all'Ue, ma occorrono ulteriori sforzi per rispettare pienamente i criteri prefissati. E' quanto sostiene una relazione all'esame dell'Aula ribadendo che senza la riforma dei Trattati non si potranno realizzare altri ampliamenti. Alla Croazia è chiesto di procedere con le riforme amministrativa e giudiziaria, di perseguire i criminali di guerra, di tutelare le minoranze e di permettere l'acquisto di proprietà immobiliari ai cittadini Ue (relazione Swoboda). Una relazione all'esame dell'Aula sottolinea il ruolo del Patto di Stabilità e di Crescita riveduto e, chiedendone un'applicazione coerente e vigorosa, sollecita gli Stati membri a ridurre gli scarti in termini di disavanzo, debito e crescita per non arrecare pregiudizio all'euro. I deputati insistono poi sulla necessità di riforme strutturali che, beneficiando del favorevole ciclo economico, riducano il debito pubblico e consentano di affrontare la sfida dell'invecchiamento della popolazione (relazione Lauk). Il Parlamento europeo intende svolgere "un ruolo chiave in materia di sensibilizzazione" sul cambiamento climatico e inserire tale sfida "ai primi posti dell'agenda internazionale". E' questo il senso della decisione presa il 19 aprile dalla Conferenza dei Presidenti del Parlamento, che propone di creare una nuova commissione temporanea sul cambiamento climatico. Tale proposta sarà sottoposta all'approvazione dell'Aula. Giovedì 26 aprile 2007 - Nell'ambito dei dibattiti urgenti sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, il Parlamento adotterà una risoluzione sulla recente repressione delle manifestazioni in Russia e un'altra sul rapimento del giornalista Alan Johnston a Gaza.


 

Corriere Economia 23-4-2007 La bolla immobiliare non si gonfia più Stop agli aumenti diffusi e ininterrotti.

 

Nel primo trimestre dell'anno quotazioni stabili secondo l'indagine di Ubh Previsti valori in calo a Firenze e Palermo. Roma e Milano trainate dalle zone di pregio C ontinua, sia pure a ritmi blandi e a macchie di leopardo, la crescita delle quotazioni immobiliari. Lo conferma il primo aggiornamento disponibile sul 2007, elaborato dall'Ufficio studi di Ubh, l'holding cui fanno capo i network di agenzie Professione Casa e Grimaldi. I dati, aggiornati con tutto il primo trimestre 2007, segnalano che, tra le grandi città del Paese, è Bari ad aver messo a segno l'aumento più robusto, con un incremento medio dal gennaio 2006 a fine marzo 2007 che sfiora il 10%. La classifica delle performance vede appaiate al secondo posto Genova e Palermo ("7,5%), mentre i due mercati principali, quello milanese e quello romano, registrano un aumento rispettivamente del 4,5% e del 7%. Roma con i 20mila euro al metro di Piazza di Spagna può vantare la location più cara d'Italia per gli immobili residenziali; seguono, in questa particolare classifica, le zone top di Firenze e Venezia, mentre Milano arranca, si fa per dire, al quarto posto con Via della Spiga, dove si raggiungerebbero i 15mila euro al metro. Va però detto che gli immobili di lusso nelle aree di reale prestigio delle grandi città sfuggono ai criteri normali di valutazione: nella definizione del prezzo,ad esempio, di una casa con grande terrazzo a Milano in via Montenapoleone (ammesso che un immobile di questo tipo possa mai passare per le mani di un'agenzia) il numero dei metri quadrati è solo uno dei fattori che vengono presi in considerazione e non il più importante, perché la quotazione è determinata soprattutto dall'esclusività dell'offerta. Fare il prezzo a metro di una casa di questo tipo, dicono spesso gli agenti, sarebbe come valutare a centimetro un quadro di Raffaello. Tornando all'analisi di Ubh, il responsabile dell'Ufficio Studi, Alessandro Ghisolfi, sottolinea che "le performance registrate nelle grandi città sono quasi tutte imputabili al 2006, mentre nell'80% delle zone il primo trimestre 2007 non ha fatto registrare variazioni apprezzabili nei valori. Oggi appaiono più vivaci le città medie, soprattutto per le abitazioni di fascia alta e per le zone centrali. Nei centri maggiori il dato medio complessivo è determinato soprattutto dal buon andamento dei prodotti di maggior prestigio, contraddistinti da una offerta molto bassa, mentre se si considerano gli immobili da ristrutturare nelle zone semicentrali e periferiche si evidenziano anche alcuni segni meno, seppure compresi nell'intervallo tra -3 e -5%". Il rallentamento della domanda degli immobili di minor pregio è dovuto anche, secondo Ghisolfi, al cambiamento delle scelte da parte degli extracomunitari. "E' vero che si tratta di un target di crescente importanza, ma la domanda si sta sempre più indirizzando verso gli hinterland e si tratta di un fenomeno non solo economico, ma anche di portata sociologica: gli immigrati che comprano hanno una stabilità lavorativa - necessaria oltretutto per ottenere il mutuo - e soprattutto hanno tutta l'intenzione di restare in Italia. Per questo comprano, a parità di prezzo, abitazioni più vivibili e di maggiore dimensione rispetto a quello che, a parità di budget e di rata mensile, potrebbero permettersi in città e si sobbarcano gli inconvenienti del pendolarismo". Le previsioni formulate dall'ufficio studi di Ubh per i prossimi mesi sono di piccoli spostamenti del mercato e solo in alcune città. In particolare i prezzi sono pronosticati in leggera discesa a Palermo e Firenze e in lieve salita a Venezia. A Milano e a Roma si stima un aumento dell'offerta e una diminuzione delle transazioni a domanda costante. La spiegazione che si ricava leggendo i grafici è che il peggioramento del rapporto qualità/offerta finirà per costringere alcuni potenziali acquirenti a rimanere in attesa. Sul mercato rimane l'incognita dell'andamento dei mutui. Il costo del denaro è previsto in ulteriore ascesa almeno nel breve periodo (entro l'estate viene data per scontata un'altra manovra da 25 centesimi di punto da parte della Bce): a questo proposito Ubh ha fornito anche un'analisi sulle preferenze dei clienti Rexfin (broker di intermediazione finanziaria che fa capo alla holding) in fatto di finanziamento immobiliare. I dati di sintesi evidenziano un fenomeno che anche altri osservatori hanno segnalato, e cioè la grande crescita della domanda di finanziamenti a rata costante, che secondo Rexfin oggi rappresentano quasi la metà delle richieste. I fissi sono più amati al Sud (46,5% delle scelte) che al Nord (43,9%) e più a Roma (46%) che a Milano. Quanto alle durate, si consolida il trend dell'allungamento del debito, scelta necessaria per abbassare la rata. Nel 72% dei casi il finanziamento prescelto è di durata compresa tra 25 e 40 anni. I finanziamenti decennali ormai rappresentano solo il 5% delle richieste. Salita dei tassi significa anche aumento dei rendimenti obbligazionari: la conseguenza ovvia è la diminuzione dell'interesse per l'investimento immobiliare, perlomeno nella sua forma classica, cioè l'acquisto finalizzato alla locazione a terzi. La quota di chi compra casa a questo scopo è - conferma Ghisolfi - ai minimi storici e il rendimento teorico (cioè la percentuale che si ottiene confrontando il canone annuo di locazione con il valore di mercato della casa) certo non è allettante: nelle principali città si situa al 4,4% lordo, con oscillazioni che vanno dal 3,5% di Bologna al 5,5% di Roma. Se si considerano le spese di gestione e le tasse queste performance vanno dimezzate e quindi si pongono molto al di sotto del rendimento non solo dei Btp, ma anche dei Bot.

 


 

La Repubblica 23-4-2007 Usa, la rivincita dell'italiano è boom di corsi all'università dal nostro corrispondente MARIO CALABRES

 

In dieci anni raddoppiati gli iscritti, nuove cattedre perfino in Alaska e Porto Rico
Ottanta atenei americani hanno una sede anche a Firenze. "Merito di moda e cibo"

INEW YORK - "Quando il professore fece l'appello, il primo giorno, tutti si voltarono a guardarmi: il mio cognome era l'unico che non finisse con una vocale". Università della Pennsylvania, anno 1956, Daniel Berger, ebreo newyorkese, è l'unico studente del corso di italiano a non essere figlio di emigranti. 
Gli americani fanno studiare ai loro figli il francese, la lingua dei viaggi, della gastronomia raffinata e della cultura, l'italiano è identificato con il dialetto che parlano i muratori, i giardinieri e i camerieri dei ristoranti. Mezzo secolo dopo la nostra lingua si è presa la rivincita, in crescita costante da dieci anni, ora è la quarta più studiata nelle università americane e oltre 60mila ragazzi nel 2006 hanno scelto di seguire un corso di lingua e cultura italiana. 
"E' un momento magico, ci sono cattedre ovunque negli Stati Uniti perfino in Alaska e alle Hawaii, ne sono appena state aperte due a Puerto Rico". Massimo Ciavolella, che guida il dipartimento di italiano all'Università della California a Los Angeles, ha studiato l'evoluzione del fenomeno: "Vedo tre ragioni per questo boom: è sparita l'idea dell'italiano come emigrante, oggi la nostra lingua si è liberata da quell'immaginario ed esprime un'idea di cultura e di stile. Il successo dei prodotti italiani è servito da traino, penso alla moda e al cibo. L'Italia ha cambiato il modo di vestire e di mangiare degli americani e questo li ha conquistati. Infine è rinata la moda del Grand Tour: Più di 80 università americane hanno una sede a Firenze. Per un giovane studente oggi il viaggio in Italia rappresenta una tappa fondamentale di formazione". 
La summer school di Columbia University a Venezia, in cui si studiano lingua, architettura e storia dell'arte, non ha più posti disponibili, come ci racconta Francesco Benelli, che nell'ateneo di Manhattan tiene il corso di architettura rinascimentale: "È nata da tre anni ma ha un successo clamoroso, i ragazzi vogliono scoprire l'Italia e questo è estremamente positivo, ma contemporaneamente va segnalata una crisi degli studi specialistici: a New York c'era una tradizione incredibile di studi sul barocco e il rinascimento, ora sono in forte declino". 
Il suo collega Nelson Moe, che al Barnard College supervisiona i programmi di chi per un periodo viene in Italia, conferma: "Prima l'italianistica era lo studio approfondito della Divina Commedia, naturale che fosse per pochi, oggi c'è un approccio interdisciplinare che ha conquistato molti studenti: arte, letteratura, cinema, musica e anche la cultura del cibo procedono insieme. L'italiano è vissuto come una lingua polisensoriale capace di aprire le porte al "bello"". Moe non si spaventa, è convinto che il successo figlio anche del boom dei ristoranti, degli stilisti, dei libri di cucina e dei viaggi sia un utile primo passo: "La sfida è conquistare questi studenti per poi portarli a corsi più avanzati". 
Negli anni '60, secondo le statistiche della Modern Language Association, 11mila ragazzi studiavano italiano, nel 1970 erano saliti a 34mila, nel 1998 si supera la soglia dei 40mila iscritti, nel 2004 dei 50mila e lo scorso anno dei 60mila. Tra il '98 e il 2002, c'è un balzo del 30%, straordinario se comparato alle altre lingue europee, che negli ultimi cinque anni si è consolidato. Ancora nel '70 il francese la fa da padrone, con 360mila iscritti, poi comincia un declino che oggi ne fa ancora la seconda lingua studiata dietro lo spagnolo (746.000 iscritti) ma a quota 200mila. Al terzo posto c'è il tedesco, che a partire dagli anni '70 venne identificato come la lingua europea degli affari, ma che oggi ha perso questa caratteristica di idioma indispensabile per il business, lasciando il posto al cinese, che cresce insieme all'arabo. 
"Storicamente - spiega Ciavolella, citando la ricerca pensata con Dino De Poli e la Fondazione Cassamarca di Treviso - le cattedre di italiano erano stati aperte soltanto in quelle aree degli Stati Uniti e del Canada dove c'erano i figli degli emigranti, come necessità per lo studio degli italo-americani, oggi non è più così, anche se la maggiore concentrazione resta sulla costa Est". In crescita anche il numero degli iscritti ai master e ai dottorati, si è passati da 925 del '98 a 1100 oggi, ma siamo sotto la soglia dei 1200 iscritti sopra la quale un programma entra nella classifica federale e ha diritto ad avere finanziamenti e borse di studio. 
Oggi non siamo più emigranti, Renzo Piano sta per inaugurare il grattacielo progettato come sede del New York Times, Bulgari lancia la sua sfida a Tiffany con un negozio grande uguale che occupa l'angolo opposto della Quinta strada, un italoamericano come Rudolph Giuliani corre per la presidenza e il vino italiano è al primo posto tra quelli importati, davanti ad Australia e Francia. Daniel Berger adesso lavora a Roma, al ministero dei Beni Culturali, è consulente per il recupero delle opere d'arte trafugate all'estero. Se è in Italia il merito è di quel professore che faceva l'appello cinquant'anni fa: "Si chiamava Domenico Vittorini, al pomeriggio insegnava ai cantanti d'opera la pronuncia e la fonetica, creò in me la passione per la lingua e per farmi migliorare la grammatica ogni giorno nelle vacanze estive mi spediva una lettera con un compito da rimandargli il giorno dopo. Allora ero solo, oggi finalmente l'italiano in America è la lingua della cultura". 
(23 aprile 2007)


 

La Repubblica 23-4-2007 Annunciata fusione Barclays-Abn Nasce la seconda banca europea


AMSTERDAM - La banca olandese Abn Amro e quella britannica Barclays hanno annunciato stamani la loro fusione, dando così luogo al secondo gruppo bancario europeo, il quinto mondiale, con 220.000 impiegati e 47 milioni di clienti. 
Il costo dell'operazione, hanno reso noto le due banche,è di 67 miliardi di euro e darà luogo ad un nuovo gruppo denominato Barclays Plc e sarà controllata al 52% dagli azionisti Barclays. 
Abn Amro ha annunciato la contestuale vendita della banca statunitense LaSalle alla Bank Of America per 21 miliardi di dollari (15,4 miliardi di euro circa). 
(23 aprile 2007)

 


 

Il Corriere della Sera 23-4-2007 Mediatore di Emergency, accusa di omicidio. Le autorità afghane: «Colpevole di un reato contro la sicurezza nazionale» Fiorenza Sarzanini

 

Hanefi accusato di concorso in omicidio: «Lasciò l'interprete di Mastrogiacomo ai talebani»                

ROMA — È la contestazione che può pregiudicare definitivamente la soluzione della vicenda. Il sospetto più pesante. Perché Rahmatullah Hanefi, il mediatore di Emergency che ha negoziato il rilascio di Daniele Mastrogiacomo, adesso è accusato di concorso in omicidio. Secondo i servizi segreti afghani, che lo avevano arrestato per partecipazione al sequestro, sarebbe stato lui a consegnare ai talebani guidati dal mullah Dadullah, Adjmal Nashkbandi, l'interprete sgozzato dai terroristi venti giorni dopo la liberazione dell'inviato di Repubblica. Invece di portarlo in salvo come era stato stabilito, dicono, lo ha lasciato nelle mani della banda che alla fine lo ha ammazzato. «Si tratta di un reato che mette a rischio la sicurezza nazionale — hanno spiegato le autorità di Kabul alla nostra diplomazia — e per il nostro ordinamento in questi casi non è prevista l'assistenza di un legale». 

Hanefi rischia la pena di morte. La scorsa settimana i responsabili dell'organizzazione guidata da Gino Strada hanno ribadito che chiuderanno gli ospedali e lasceranno definitivamente il Paese, se non sarà rilasciato. Ma anche loro sanno che di fronte a questo tipo di contestazioni difficilmente le porte del carcere potranno aprirsi. E lo sa il governo italiano che in queste settimane ha ribadito di aver fatto pressioni sul governo dell'Afghanistan, ma senza ottenere alcun risultato. La fase finale del sequestro Mastrogiacomo rimane un mistero. Il primo accordo siglato con i sequestratori prevede che in cambio del giornalista e del suo interprete, il governo scarcererà tre talebani. La consegna deve avvenire all'alba del 18 marzo. Ma poche ore prima accade qualcosa di imprevisto, i rapitori rilanciano chiedendo altri due detenuti, minacciano di sgozzare gli ostaggi. Di quelle istanze si fa portavoce proprio Hanefi che fino a quel momento ha tenuto i contatti tra le parti. Il governo italiano convince il presidente Hamid Karzai ad accettare le nuove condizioni. Quello stesso pomeriggio la Farnesina chiude la partita con una nota: «Tutte le condizioni sono state rispettate». 

I detenuti sono già a disposizione di Emergency. Il patto è chiaro: cinque contro due. E i due sono Daniele e Adjmal. «Sul luogo dello scambio andiamo da soli — impone Strada — senza gli uomini dell'intelligence o altri». Va Hanefi, ma all'ospedale di Lashkar Gah riporta solo Daniele. «Anche l'interprete è libero — assicura subito il giornalista — gli hanno tolto le catene, l'ho visto andare via». In realtà due giorni dopo il mullah Dadullah fa sapere che Adjmal è ancora nelle sue mani. E per rilasciarlo vuole la scarcerazione di altri tre detenuti. «Non cederemo a nuovi ricatti», afferma pubblicamente Karzai. L'8 aprile, il giorno di Pasqua, l'interprete viene «giustiziato». Perché Hanefi non ha preteso la consegna di entrambi gli ostaggi? A questa domanda, che le autorità italiane continuano a porsi, il mediatore non ha mai potuto rispondere. Gli 007 di Kabul lo hanno arrestato la mattina dopo il rilascio di Mastrogiacomo e da allora non hanno consentito a nessuno, se non ad un funzionario della Croce Rossa che doveva verificare le sue condizioni di salute, di poterlo incontrare. «Non lo ha fatto perché era complice dei talebani», assicurano i servizi segreti afghani. In Italia a quest'accusa non sembra credere nessuno. Il governo gli ha dato piena fiducia concedendo ad Emergency totale autonomia e imponendo al Sismi e ai carabinieri del Ros di tenersi fuori dalla trattativa. Ma gli stessi uomini dell'intelligence non hanno mai espresso dubbi sul suo operato, spiegando che per poter garantire la sicurezza in quella zona a sud dell'Afghanistan bisogna essere in grado di dialogare con tutti anche con i talebani.

23 aprile 2007


INDICE 22-4-2007

 

+ Il Corriere della sera 22-4-2007 Presidenziali, affluenza in forte crescita Alle 12 per eleggere il capo dello Stato francese ha votato il 31,21% degli aventi diritto contro il 21,4% delle elezioni 2002

+ Il Sole 24 Ore 21-4-2007 Al via l'era delle banche senza frontiere di Alessandro Graziani

La Repubblica 22-4-2007 La nave in partenza verso il futuro Eugenio ScalfarI

Europa 21-4-2007 Un evento forte che ha già cambiato la politica. di Stefano Menichini

Il Riformista 21-4-2007 FLOP DI PORTA A PORTA . l Pd, i sondaggi e l'Auditel

Il Secolo XIX 22-4-2007 Ds, parte la resa dei conti "Chi non sta nel Pd, a casa" Alla Spezia si ricompatta il partito mentre è crisi a Genova e Imperia. Alessandra Costante

Il Corriere della Sera 22-4-2007 La politica tra Stato e mercato. Controriforma di struttura. di Mario MontI

La Gazzetta di Reggio 22-4-2007 Il nuovo partito una strada per l'Europa. Sonia Masini Presidente della Provincia

Il Secolo XIX 22-4-2007 Oggi la conclusione di Rutelli Veltroni: ce l'abbiamo fatta. Letta a Follini: vieni con noi. Fischiato Parisi. Angelo Bocconetti

Il Giornale 22-4-2007 Lotta all’ultimo voto per conquistare l’Eliseo. di Marcello Foa

IL Secolo XIX 22-4-2007 Referendum elettorale

 


 

+ Il Corriere della sera 22-4-2007 Presidenziali, affluenza in forte crescita Alle 12 per eleggere il capo dello Stato francese ha votato il 31,21% degli aventi diritto contro il 21,4% delle elezioni 2002

 

PARIGI - Un'elezione che appassiona. E' infatti forte aumento la partecipazione alle presidenziali francesi rispetto alla precedente consultazione del 2002, quando peraltro fu particolarmente bassa: secondo quanto reso noto dal ministero dell'Interno, a mezzogiorno di oggi nella Francia metropolitana avevano infatti votato il 31,21% degli aventi diritto, cioè circa un terzo dei 44 milioni e mezzo di iscritti nelle liste; cinque anni fa non si era andati oltre un modesto 21,4%, con l'astensione che arrivò al 27% del totale.

Molto consistente la partecipazione attuale anche nei dipartimenti e nelle collettività di oltremare, gli ex possedimenti coloniali, dove le operazioni di voto si erano svolte sabato per ragioni di fuso orario. Un nuovo aggiornamento della situazione è previsto alle 17, un'ora prima della chiusura dei seggi nel 70 per cento della circoscrizioni della madrepatria; nei centri medio-grandi si voterà fino alle 19 mentre in quelli principali, Parigi compresa, si andrà avanti fino alle 20. Soltanto dopo di allora cominceranno a essere resi noti i risultati elettorali d'oltremare nonchè i primi exit poll metropolitani.

22 aprile 2007

 


+ Il Sole 24 Ore 21-4-2007 Al via l'era delle banche senza frontiere di Alessandro Graziani

 

Sarà un week end di gran lavoro per banchieri europei. I destini dell'olandese Abn Amro potrebbero essere decisi già domani: il board si riunirà assieme a quello dell'inglese Barclays. Ma su quel dossier-fusione è pronto a intervenire anche lo spagnolo Santander, con la britannica Royal Bank of Scotland e la belga-olandese Fortis. A fianco di Barclays, d'altra parte, sono pronti altri membri della top ten di Eurolandia: l'iberico Bbva e la francese Bnp-Paribas. Che però sarebbe in agguato anche altrove. Ieri la connazionale Société Générale, guidata da Daniel Bouton, è volata in Borsa anche sull'ipotesi di un'offerta di Bnp - otto anni dopo il primo tentativo - anticipando le mosse di UniCredit, che ieri ha ammesso l'esistenza di «contatti esplorativi». Basterà a sopire le attese di blitz immediati, sapere che Alessandro Profumo è in Portogallo, per un fine settimana di relax? 
n Italia, l'attesa per il risiko europeo è tutta concentrata proprio su UniCredit, unico player in grado di giocare un ruolo attivo nel riassetto continentale, ormai in fase di decollo. Intesa-Sanpaolo, prima banca italiana, per sua stessa ammissione (ma anche per l'indole dei suoi grandi azionisti, abituati a giocare in casa) esclude aggregazioni paneuropee. Mentre Capitalia appare sempre più una «preda». A muovere con chance di successo, dunque, può essere solo l'UniCredit. Facendo valere la sua capitalizzazione di 77 miliardi di euro che la pone al secondo posto dell'area euro, dietro al Santander, e al quinto posto nell'Europa «allargata» alle spalle di Hsbc, (156 miliardi), Ubs (96), Rbs (94) e Sch (86). Un'eventuale aggregazione di UniCredit con Société Générale (che vale circa 68 miliardi), creerebbe con 145 miliardi di capitalizzazione il vero campione europeo, con posizioni di leadership in una macroarea che unisce Francia, Nord Italia, Germania, Austria e Nuova Europa. 
>n disegno ambizioso che, malgrado le smentite degli ultimi giorni, sia Profumo che Daniel Bouton avrebbero più volte esaminato negli ultimi anni. E che sarebbe facilitato, anche se non è certo il motivo dominante, dall'avere entrambi come socio il gruppo assicurativo britannico Aviva, più volte candidato a una fusione con Generali.
Ma i tempi di una fusione UniCredit-SocGen, più volte evocata sul mercato anche in passato, sono davvero maturi? Nelle ultime settimane un'accelerazione sembra esserci stata («UniCredit parla di contatti esplorativi»), anche se ora i tempi rischiano di allungarsi, se il titolo SocGen dovesse ancora «volare via», rendendo poco conveniente l'aggregazione agli occhi del management di UniCredit. A sei anni di distanza, allora era il 2001, brucia ancora il fallimento del tentativo con Commerzbank, saltato proprio per le anticipate reazioni di mercato. 
Dal vertice di Piazza Cordusio non filtrano né commenti né indiscrezioni. Ma da una ricognizione all'interno dei soci italiani di UniCredit, l'attesa per una nuova fase nel processo di crescita è forte. «Prima della fine dell'anno, ci aspettiamo che Profumo ci porti una proposta concreta da esaminare — spiega uno dei grandi azionisti — sappiamo che le opzioni sono più di una, in Italia e all'estero». L'opzione Société Générale, forse la più adatta a completare quel disegno paneuropeo caro a Profumo e già avviato con la tedesca HypoVereins Bank, è a portata di mano. Ma potrà realizzarsi solo se, oltre alle condizioni di mercato, non vi sarà l'opposizione di Bnp Paribas, prima banca francese con una capitalizzazione analoga a quella di UniCredit. Bnp Paribas non ha mai rinunciato all'idea di completare il disegno originario di maxi-polo francese (all'epoca, il merger doveva essere a tre: Bnp, SocGen, Paribas). Chissà se per aprire la strada a UniCredit in Francia, chiederà contropartite in Italia. L'acquisizione di Bnl, avvenuta a prezzi tanto elevati da permettere una ritirata senza danni a Unipol, è considerata insufficiente dai francesi che vogliono ancora crescere in Italia.
La quasi certa sistemazione definitiva dell'olandese Abn Amro e le probabili scelte della francese SocGen, ormai rinviate a dopo l'insediamento del nuovo Governo a Parigi, aprono a tutti gli effetti il grande risiko europeo. Difficile, malgrado i tanti rumors, che siano coinvolti i grandi campioni nazionali. La Germania difficilmente «perderà» Deutsche Bank, al centro di un interesse dell'americana Citigroup, né sono prevedibili scossoni — almeno nell'immediato — sui due leader di Spagna (Santander e Bbva) e Francia (Credit Agricole e Bnp Paribas). Ma dopo Abn Amro, tutti gli anelli deboli del sistema europeo sono destinati a diventare possibili prede. 
Chi non ha la taglia troppo grande per potersi difendere, né troppo piccola da sconsigliare battaglie per la sua conquista, è a rischio. Vale per i francesi di SocGen (che pur capitalizzando 67 miliardi hanno un'azionariato frammentato e poco coeso), ma vale soprattutto per la tedesca Commerzbank, per la franco-belga Dexia e per l'italiana Capitalia.


La Repubblica 22-4-2007 LA NAVE IN PARTENZA VERSO IL FUTURO EUGENIO SCALFARI

 

NON è un giudizio di valore ma una semplice evidenza: il congresso della Margherita è stato una registrazione di posizioni tra le varie correnti che compongono quel partito nel momento in cui decide di confluire nel nuovo Pd; quello della Quercia è stato dominato dal "pathos" d'un popolo di militanti con alle spalle una lunga storia che ha attraversato nel bene e nel male gli ultimi ottant'anni della storia del Paese e ieri ha deciso di recidere tutti gli ormeggi per farsi protagonista del futuro. Una classe dirigente che cessa, incalzata dai mutamenti della società, di arroccarsi e chiudersi nella propria identità, che smantella l'oligarchia cui fino ad ora si era affidata e decide di uscire dal limbo dei "post" e degli "ex" per mettersi finalmente nel mare aperto della democrazia senza aggettivi. Accade di rado che un'oligarchia si sciolga di propria volontà: quella che Pareto e Mosca avevano battezzato come la "persistenza degli aggregati" di solito la vince su ogni altra considerazione e continua a mantenere in vita forme logore, gusci vuoti, crisalidi sterili che hanno perduto ogni capacità di generare. La novità vera del congresso della Quercia a Firenze è stata un atto di coraggio che ancora fino alla vigilia sembrava in dubbio per i costi politici e sentimentali che avrebbe comportato, i rischi inevitabili dell'uscita dal porto e della navigazione nell'alto mare aperto. Quest'atto di coraggio è stato compiuto. L'oligarchia si è azzerata consapevolmente e responsabilmente; non poteva infatti ? quell'atto di coraggio ? esser compiuto solo da alcuni o addirittura da un solo demiurgo capace di forzare gli altri suoi compagni a seguirlo. La forza propulsiva del vecchio aggregato si era esaurita e tutti i suoi componenti ne erano ormai persuasi. Ecco perché il sentimento dominante al congresso di Firenze è stato il "pathos", l'addio, l'inizio del viaggio, la "pietas" verso i Lari e i Penati, la separazione dolorosa e rispettosa da chi aveva deciso di non partire. Ed ecco perché l'ultimo atto di questa lunga marcia è avvenuto con nobiltà insolita nei consessi politici dove signoreggiano soprattutto gli interessi e le brame di potere. Piero Fassino, chiudendo il congresso, ha ricordato che il gruppo dirigente della Quercia viene da una grande scuola politica abituata ad anteporre gli interessi generali a quelli del partito. Non so quanto sia esatta questa affermazione, anzi ho molti dubbi che corrisponda all'intera storia del Partito comunista italiano e dei suoi derivati. Ma sicuramente essa coglie alcuni tratti significativi di quella storia: l'ordine di Togliatti di rientrare nella legalità dopo l'attentato da lui subito; il contributo dato alla nascita della Costituzione repubblicana; la conquista dell'autonomia da Mosca effettuata da Enrico Berlinguer, lo strappo di Occhetto alla Bolognina. Il congresso concluso ieri a Firenze con lo scioglimento del partito della Quercia entra a pieno titolo in questa galleria di memorie ed è di buon auspicio per la nuova sinistra italiana e quindi per la democrazia del nostro paese. * * * Credo sia doveroso riconoscere a Fassino una parte notevole del merito di quanto è accaduto a Firenze. Lo scioglimento di una formazione politica che per gran parte del Novecento ha avuto un ruolo rilevante nella società italiana ed ha fortemente contribuito alla sua educazione civile non era un'impresa facile. Il vero pericolo ? lo ha segnalato Mussi con intenti polemici ? era che la sinistra evaporasse, cioè si disperdesse in un pulviscolo di piccoli gruppi o di abbandono individuale d'ogni impegno civile. L'altro rischio ? l'abbiamo già ricordato ? era di chiudersi in difesa senza capire che blindature oligarchiche erano ormai divenute impossibili. Il merito di Fassino è d'aver portato il partito compattamente allo scioglimento finale, indicandogli la sponda sulla quale traghettare e dalla quale ripartire. E d'avere accettato le sollecitazioni allo smantellamento dell'oligarchia della quale lui stesso faceva parte. Ho molto apprezzato il finale del suo discorso e il suo ringraziamento a tre figure di spicco della sinistra, tre vecchi che hanno avuto in comune il pregio di guardare sempre verso il futuro: Giorgio Napolitano, Vittorio Foa, Alfredo Reichlin. Non configurano un Pantheon di memorie ma una presenza attiva e attuale, una sfida rivolta soprattutto ai giovani da parte di tre testimoni del tempo. Ho visto giovedì scorso Fassino nella trasmissione di "Porta a Porta" alle prese con giornalisti che scambiano l'autonomia professionale con la sgarbatezza dei modi e con la riduzione della politica ad una lotta selvaggia per la conquista del potere. Debbo dire: ho apprezzato la sua civiltà e insieme la fermezza delle sue risposte. Ma apprezzo soprattutto il fatto che, nonostante il 75 per cento che la sua mozione ha ottenuto al congresso, Fassino resti per il breve periodo transitorio al suo posto di lavoro ben sapendo che non avrà alcuna rete di protezione in futuro ma solo la coscienza di avere meritato lode dalla carovana della sua gente che ha condotto all'appuntamento con il futuro. * * * D'Alema, Veltroni, Bersani, Finocchiaro e tanti altri, molti dei quali sono poco noti o noti affatto all'infuori delle cerchie locali e settoriali: da questo mix di individualità dovrà nascere il quadro dirigente del nuovo partito insieme alle individualità provenienti dalla Margherita e a quelle espresse dalle associazioni volontarie, e dai nuovi iscritti al nascituro partito. Il congresso della Margherita, come si è già detto, non doveva sciogliere un aggregato con quasi un secolo di storia alle spalle; ma anch'esso doveva sfuggire ad alcune assai pericolose tentazioni. Per esempio a quella di abbandonare il concetto di bipolarismo, una delle poche novità positive che distinguono la Seconda Repubblica dalla Prima e che ? è onesto riconoscerlo ? dobbiamo soprattutto all'irrompere di Silvio Berlusconi nella politica. Il bipolarismo attuale è lungi dall'essere perfetto, ma resta un approdo fermo anche se bisognoso di correzioni radicali. La tentazione di buttarlo a mare in favore di un'opzione centrista è stata forte ? perché negarlo? ? in alcuni settori della Margherita, ma è stata evitata con il contributo di tutto il gruppo dirigente, da Rutelli a Franceschini, da Enrico Letta a Rosy Bindi, da Marini a De Mita e a Parisi. Anche nella Margherita si era formata un'oligarchia, sia pure di assai più fresca data. La tentazione di conservarla non sembra interamente scartata nonostante l'appello ai giovani e ai moderati lontani dalla politica. Probabilmente questo sarà il banco di prova più significativo dei prossimi mesi se non addirittura delle prossime settimane. Infine c'è il tema della laicità. Non vogliamo mitizzare il documento dei famosi Sessanta, cioè della grande maggioranza dei parlamentari cattolici che, nel momento più duro dello scontro tra l'episcopato ruiniano e gli ex Popolari della Margherita, rivendicarono l'autonomia politica del laicato cattolico e si schierarono a favore dei Dico e comunque per il riconoscimento dei diritti delle convivenze di fatto. Questa posizione rappresenta il punto d'equilibrio e la misura della laicità. Direi la soglia minima e quindi non disponibile che il Partito democratico dovrà far propria. Proprio per questo anche l'oligarchia della Margherita dovrà sciogliersi e confrontarsi con i nuovi aderenti del Pd. Le modalità di formazione dell'Assemblea costituente e quelle, altrettanto importanti, dell'elezione dei quadri intermedi del nuovo partito, costituiscono uno strumento fondamentale per sottrarre le decisioni di fondo e la loro esecuzione alle vecchie burocrazie delle tessere. I problemi che hanno inchiodato i partiti ormai dissolti alla cultura del Novecento (mettiamo tra questi anche l'appartenenza a questo o quel partito europeo) diventano irrilevanti per un partito che nasce nel Duemila. Non perché le convinzioni profonde, politiche e morali, debbano venir meno in favore d'un pragmatismo trasformista. Al contrario: la moralità pubblica sarà invece uno dei punti fermi del Partito democratico se vuole veramente che la politica colmi il fossato che oggi la divide dai giovani, dalle donne, dalla società. Ma cambierà l'ottica, salteranno le cristallizzazioni e le divisioni tribali. O almeno: questa è la speranza. Altrimenti perché farlo? * * * Ci sarebbe molto da scrivere sull'economia, il capitalismo, il mercato e la democrazia. Questo è un tema di fondo e anche qui gli schieramenti ideologici hanno fatto (dovrebbero aver fatto) il loro tempo. Sia da parte di chi attribuisce al mercato virtù salvifiche che non ha e non ha mai avuto, sia da parte di chi gli addossa tutti i vizi e le miserie del mondo. C'è poi ? e in Italia alligna più che altrove ? una terza categoria di persone che predicano l'intangibilità del mercato e la sua assoluta sovranità ma danno sistematicamente mano alla sua manipolazione. Si vorrebbe che il nuovo partito abbia le idee chiare in proposito. Difenda il mercato come meccanismo principe per l'allocazione delle risorse. Instauri una regolamentazione coerente che impedisca le manipolazioni. Pretenda che l'autorità politica non discrimini tra gli imprenditori, non favorisca né scoraggi alcuno, ma non rinunci a tutelare i consumatori, i risparmiatori, le maggioranze polverizzate degli azionisti senza voce né potere. Siamo attualmente in una fase di ripresa economica in Europa e anche in Italia. Auguriamoci che duri e facciamo dal canto nostro tutto il possibile perché il governo contribuisca alla sua durata e ai suoi benefici effetti sul sistema Italia. * * * Riservo a Romano Prodi la conclusione di questa mia analisi dopo i due congressi di scioglimento. Il presidente del Consiglio è stato il primo e il più tenace fautore della nascita dell'Ulivo e poi, conseguentemente, del Partito democratico. L'appuntamento da lui voluto quando era ancora il solo a parlarne si è finalmente verificato e potrà modificare radicalmente le modalità della politica italiana, non solo nel centrosinistra ma anche nello schieramento opposto. Bisogna dare atto a Prodi di questo suo contributo determinante all'innovazione politica e istituzionale. Molti pensano che fino alla fine della legislatura, se il governo avrà vita lunga, il leader del nuovo partito e della Costituente debba essere Prodi, tanto più che il "premier" ha ribadito ancora ieri che dopo questa legislatura lascerà la politica. Può darsi che questa programmazione sia saggia. Personalmente non lo credo. Credo che i compiti di governare un Paese come il nostro siano assorbenti e non lascino spazio ad altri compiti altrettanto impegnativi. Credo che il Partito democratico non possa esser tenuto per anni sotto una campana: si riformerebbero oligarchie, rapporti clientelari, cooptazioni, cioè tutto ciò che deve essere definitivamente abbattuto in favore della libera circolazione delle classi dirigenti, nell'attesa della scelta del nuovo leader che caratterizzi con la sua figura il ruolo del nuovo partito. Il Pd ha avuto una lunghissima incubazione; non gli si può infliggere una gestazione ulteriore sotto la campana di vetro di Romano Prodi. A lui spetta di governare il Paese, al Partito democratico di scegliere il suo "reggente" in attesa che, alle prossime elezioni politiche, gli schieramenti si confrontino di fronte al corpo elettorale.

 


Europa 21-4-2007 Un evento forte che ha già cambiato la politica. di STEFANO MENICHINI

 Niente male, signori, queste prime quarantott’ore di vita del Partito democratico. Freddo? Leggero? Burocratico? Oligarchico? Marginale? Trovate qualcos’altro, voi che siete critici o che volete sempre qualcosa di più. Perché tra Firenze e Roma s’è consumato un enorme fatto politico e umano. Dovrebbe averlo capito chi ha affollato i congressi di Ds e Margherita, sicuramente l’hanno capito gli avversari del centrodestra, se ne accorgeranno coloro che nel centrosinistra e tra gli opinion makershanno sempre trattato con sufficienza questa vicenda.
Può darsi che non fossero così le premesse. Anzi, è sicuro. Ds e Margherita, per essere i due principali partiti di governo, si erano presentati piuttosto malconci all’appuntamento. Di nuovo tormentati su di sé e sulle proprie ambizioni frustrate sotto la Quercia, colpiti nell’intimo da una rottura interna poco motivata. Risucchiati i diellini da vizi antichi e inquietudini recenti, tra la conta di tessere improbabili e le critiche politiche alla conduzione rutelliana.
E come finisce? Limitandosi fino ad adesso a Firenze, è finita ballando, tra lacrime di gioia e gli occhi di tutta l’Italia politica addosso.
Piero Fassino ha chiuso l’ultimo congresso della storia postcomunista con uno slancio che tre giorni fa non aveva avuto, rimettendosi al passo con Rutelli, Veltroni e D’Alema. L’allontanamento di una porzione della sinistra è stato molto ridimensionato nei numeri, ma già nel dolore del commiato di Mussi c’è un primo dato, una prima smentita: il Partito democratico nasce caldo, emozionato, con un gesto sofferto.
La platea del Forum Mandela ha dovuto attingere a ogni argomento della ragion politica, per contrastare l’istinto antico ad anteporre l’unità a tutto. Non gli è stato agevole, sciogliersi nel Partito democratico: vuol dire che è una cosa seria.
D’altronde, se solo ci si ferma un attimo a ri- flettere, al suo primo passo il Pd ha già avuto un impatto potente sul sistema politico. Il presidente del consiglio, leader del centrosinistra da dodici anni, ha annunciato che lascerà la mano. Pare poco? Nel centrodestra se lo sognano, un passaggio di consegne così dichiarato. Prodi l’aveva già detto? Sì, ma ripeterlo nella giornata in cui Rutelli rialza la testa, Veltroni scende dal Campidoglio e D’Alema ritorna dalemiano, fa tutt’altro effetto. Non suscita emozioni, suscita conseguenze politiche. E, a proposito di centrodestra: in questi giorni non sono forse stati Berlusconi e Fini i primi testimonial di un cambio di clima politico? Non nella direzione dell’inciucio che tanto angusta i girotondini, ma perché il Partito democratico torna a essere la locomotiva di trasformazioni che riguardano anche loro.
Quanto alla leggerezza. Il dibattito fra Firenze e Roma è stato ricco, non banale. Ieri a Cinecittà Rosy Bindi ha proposto la versione fin qui più rotonda e convincente del ruolo che i cattolici vogliono giocare nel partito nuovo. La sua è un’impostazione che sicuramente anche la sinistra può accogliere in pieno.
Del tema, com’è noto potenzialmente divisivo, ha parlato con grande orgoglio Fioroni, oggi toccherà a Marini e a Franceschini: piaccia o no, la linea teodem in senso proprio è stata battuta, il confronto s’è trasferito sulla sostanza delle politiche per la famiglia.
E siccome discussioni e polemiche non vertevano su astrattezze teologiche, ma su scelte precise, come si farà a dire che il Partito democratico non prende di petto i nodi più sostanziosi – “pesanti” – dell’agenda? Anzi, che è l’unico in grado di affrontarli per scioglierli? Il Pd nasce oligarchico? Arturo Parisi ieri non ha ritirato neanche uno dei suoi noti dubbi, ma non s’è attardato su lamentazioni iperuliviste: per lui si apre ora il terzo tempo della battaglia, quello finalizzato al bipartitismo e all’elezione diretta del premier, e il Partito democratico è lo strumento da utilizzare. Oggi si richiude la Margherita, sbocciata cinque anni fa. La vita dei fiori è breve. Ma le spore viaggiano a migliaia, il vento democratico è forte. C’è già un’altra inseminazione in corso.


Il Riformista 21-4-2007 FLOP DI PORTA A PORTA . l Pd, i sondaggi e l'Auditel 

Da un lato i sondaggi che parlano di un interesse piuttosto moderato (per usare un eufemismo) verso il Partito democratico in gestazione. Dall'altro la stanchezza dei cittadini, segnalata in tanti modi, per una politica autoreferenziale, molto propensa a parlarsi addosso. Mettete le due cose insieme e vi spiegherete i dati “freddi”, molto “freddi” che nostra signora dell'Auditel ci ha messo sotto il naso in occasione della puntata di Porta a Porta messa in piedi da Bruno Vespa, giovedì sera, per la prima giornata del congresso dei Ds e la vigilia di quello della Margherita. Per la circostanza, Vespa aveva trasferito il suo salotto a Firenze, con l'obiettivo di fare tutta una trasmissione sulla Quercia e sul socialismo europeo. Ospiti in studio, il segretario dei Ds Piero Fassino e il presidente dell'Internazionale socialista Georges Papandreou. Una puntata che Vespa ricorderà a lungo, visto che il 10,69% di share registrato è senza dubbio uno dei peggiori risultati del suo Porta a Porta, molto, molto lontano dalla media degli ascolti.
Si tratta di dati freddi, forniti da un organismo che non gode di universale fiducia. E però quel 10,69% a noi pare meritevole di qualche domanda. Non tanto e non solo sul consenso popolare intorno all'operazione Partito democratico - ci mancherebbe che la nascita di un partito venisse valutata sulla base di sondaggi e rilevamenti dell'audience - quanto anche sulla propensione all'autoreferenzialità che caratterizza i nostri rappresentanti politici. Questione alla quale dovrebbero, ci pare, dedicare qualche pensiero.


 

Il Secolo XIX 22-4-2007 Ds, parte la resa dei conti "Chi non sta nel Pd, a casa" Alla Spezia si ricompatta il partito mentre è crisi a Genova e Imperia. Alessandra Costante

 

Genova. Non è stata indolore la scissione di Firenze per i Ds, ma le parole del leader del Correntone Fabio Mussi, quel "noi ci fermiamo qui", un no senza appello al Partito democratico, rischiano di avere pesanti ripercussioni in Liguria. Se i Ds si sono ricompattati alla Spezia dove si vota per Comune e Provincia, tira aria di bufera invece a Genova e Imperia. Nel primo caso le 24 candidature del Correntone tra Comune, Municipi e Provincia sembrano essere sub iudice mentre ad Imperia Carla Nattero e Mario Torelli si stanno attrezzando per dare l'addio ai Democratici di sinistra ed inforcare la strada che Mussi comincerà a tracciare il prossimo cinque maggio con la fondazione del suo movimento politico. Il caso più complicato è quello genovese. Questa mattina i Ds vanno alla direzione provinciale per chiudere le liste dell'Ulivo per le comunali e le provinciali del 27 maggio e, forse, allo scontro con gli esponenti della minoranza interna. Il segretario provinciale Alfonso Pittaluga chiede chiarezza. Niente piede in due scarpe, insomma. O si disconosce la mozione Mussi oppure la presenza nelle liste potrebbe essere ridiscussa. "Bisogna fare una riflessione - avverte - e vedere se c'è una tenuta complessiva. Non possono esserci ambiguità, la mozione Mussi è uscita dai Ds e nessuno dei delegati è entrato a far parte della costituente. Bisogna sapere con chiarezza chi e se condivide il nostro percorso verso il Partito democratico, conoscere chi vuole stare con noi perché Mussi ha fissato la costituente di un nuovo movimento il 5 maggio a Roma e per quella data le liste devono già essere pronte". Ciò che resta del Correntone prima del congresso di Firenze aveva concordato con la maggioranza fassiniana una rappresentanza nelle liste, 24 candidati in tutto. Poi c'è stato il congresso e lo stop di Mussi. Passaggio che, secondo il coordinatore regionale del Correntone, Stefano Quaranta, non porta indietro l'orologio dell'accordo cercando di tenere separati il piano locale e quello nazionale: "Per noi non è cambiato niente. Abbiamo condiviso tutte le tappe che ci hanno portato fino a questo punto". La fedeltà degli uomini della minoranza Ds si ferma al partito "finché esisterà" e ai gruppi dell'Ulivo che saranno formati in consiglio comunale a Tursi e in Provincia. "Nessuno può giurare fedeltà al Pd, che è un partito che non esiste ancora. E poi, comunque, sarei curioso di vedere quanti fassiniani, terminato l'esperienza della costituente, transiteranno nel Partito democratico, entità di cui oggi non si conosce ancora nulla". E, rivolto al segretario provinciale Pittaluga: "Io mantengo le cose che ho detto e che ho concordato. Non saremo noi a provocare la frattura, se poi qualcuno vuole buttarci fuori per sistemare fatti interni alla maggioranza è un altro fatto". Nel comitato di 300 che dovrà gestire il passaggio dai Democratici di sinistra (che non hanno rinnovato gli organi statuari, ma formato una specie di parlamentino) al Partito democratico c'è una larga fetta di Liguria. Sono stati nominati il segretario regionale Mario Tullo, quello provinciale Alfonso Pittaluga, il presidente della Regione Claudio Burlando, il sindaco uscente di Genova Giuseppe Pericu e Marta Vincenzi, candidata ulivista a Palazzo Tursi e per il momento in testa ai sondaggi.


 

Il Corriere della Sera 22-4-2007 La politica tra Stato e mercato CONTRORIFORMA DI STRUTTURA di MARIO MONTI

 

Le riforme strutturali sono la chiave per aumentare la competitività e la crescita. L'Italia è in ritardo rispetto a molti Paesi europei. Le prime liberalizzazioni introdotte dal governo, ad iniziativa dei ministri Bersani e Lanzillotta, sono state salutate come un significativo passo avanti. Molti vorrebbero una marcia più spedita ed incisiva, che approfittasse della buona congiuntura economica e del fatto che le elezioni politiche sono ancora lontane. Intanto, però, emerge un pericolo oscuro: la controriforma strutturale. A differenza delle riforme, essa non viene annunciata. Forse non viene neppure deliberatamente perseguita. Ma in Italia e all'estero è sempre più diffusa la percezione che il governo stia provocando, o consentendo, un'involuzione nel rapporto tra Stato e mercato, tra pubblici poteri e impresa. Un rapporto che solo con ritardo, con difficoltà e spesso sotto la pressione dell'Unione Europea si stava avvicinando a quello che caratterizza le moderne economie sociali di mercato: netta distinzione dei ruoli; non interferenza del governo, e a maggior ragione dei partiti, con il funzionamento del mercato; autorità di regolazione indipendenti ed efficaci. Romano Prodi, da presidente della Commissione europea, ha contribuito a far progredire nell'Unione questi princìpi e a far avanzare la loro realizzazione negli Stati membri, spesso contro forti resistenze politiche. Sarebbe paradossale se, tornato alla guida del suo Paese, promuovesse o tollerasse un riflusso, che per lo sviluppo dell'Italia sarebbe particolarmente nocivo. I casi Abertis/Autostrade e Telecom Italia sono rilevanti in sé - e su specifici atti si pronunceranno le autorità comunitarie - ma sono soprattutto rivelatori della grande confusione mentale, dell'incontrollata imagination au pouvoir , dell'impressione nel migliore dei casi di un'assenza di guida nel governo, nel peggiore di uno spregiudicato disegno. Locuste vengono talora chiamati spregiativamente i fondi di private equity , quando si accingono ad acquisire imprese che ritengono bisognose di ristrutturazione. Assomigliano piuttosto a cicale - per le loro stridule e disparate dichiarazioni, nonché per l'imprevidenza di cui danno prova rispetto alla reputazione del Paese - i numerosi politici che, ad esempio sul caso Telecom Italia, esprimono i loro orientamenti, moniti o diffide: forme, spesso, di public inequity . L'Unione Europea nel 2000 costrinse il governo italiano ad abbandonare la golden share in Telecom Italia, potenzialmente in conflitto con il libero movimento dei capitali, e continua a vigilare sulla materia. Attenzione, allora, a non sostituire la golden share con un istituto innovativo ma equivalente negli effetti, che si potrebbe chiamare golden shake : lo scuotimento delle regole mentre è in corso un'importante operazione di mercato. Come è avvenuto in tema di concessioni durante il caso Abertis/Autostrade. Come sta avvenendo, in termini di vivaci discussioni sul tema delle reti, mentre è in corso il travagliato caso Telecom Italia. Se il quadro normativo è malcerto, se viene percepito il rischio che i politici possano modificarlo a discrezione per tutelare l'italianità (o per favorire la degna intenzione di questo o quel soggetto di tutelare esso l'italianità, magari aprendo ad investitori stranieri sì, ma inclini ad accettare alcune caratteristiche dell'italianità), vi sono due conseguenze. Si riduce la propensione delle imprese straniere, industriali e finanziarie, a investire in Italia. Si accresce il valore che quanti operano nel mercato, se vogliono affermarsi nel mercato italiano, devono annettere alle buone relazioni con i politici. E aumenta anche il valore che i politici annettono alle buone relazioni con coloro che, avendo rilevante potere di mercato, possano aiutarli a realizzare disegni - ad esempio di politica industriale, territoriale o infrastrutturale - che faticherebbero a realizzare con i normali strumenti di public policy, dati i vincoli posti dalle regole che, in Europa e in Italia, presidiano la concorrenza. Qui emerge un altro profilo dell'involuzione in corso, insidioso perché, in apparenza, costituisce un elemento positivo: il "banchiere senza mandato". Il "capitalismo senza capitali", di cui spesso si parla, e i "politici senza politica", di cui non mancano gli esempi, non riscuotono ammirazione. La riscuotono invece quei banchieri che danno prova di gestire con successo le banche a essi affidate - cosa difficile e in sé altamente meritoria anche sul piano sociale - e in più sentono su di sé la responsabilità di dover operare nell'interesse generale. C'è di peggio, certo, nel capitalismo italiano! Ma destano qualche preoccupazione tre aspetti, non pienamente in linea con una moderna economia sociale di mercato. Sarebbe preferibile che l'identificazione dell'interesse generale avvenisse per intero a opera degli organi a ciò preposti nel sistema democratico, quali il Parlamento, il governo, gli enti territoriali. Sarebbe auspicabile che, nella misura in cui comunque abbia luogo questo "servizio nell'interesse generale senza mandato", i banchieri in ciò impegnati non dessero neppure l'impressione di essere "vicini" o "amici" di particolari forze politiche o personalità politiche. Sarebbe infine desiderabile che, con banche sottoposte pienamente ai venti della concorrenza e in un sistema finanziario meno "bancocentrico", le banche stesse non avessero i margini per dedicarsi al perseguimento di altre finalità di interesse generale. Il Parlamento e il governo quali istituzioni pubbliche, le famiglie e le imprese quali utenti di servizi finanziari, gli azionisti delle banche sarebbero tutti avvantaggiati da un minore ruolo dei "banchieri senza mandato". Il 23 agosto 1924 Luigi Einaudi scrisse su queste colonne un articolo dal titolo "Banche con aggettivi". Il Corriere lo ripubblicò integralmente il 24 febbraio 1977. In entrambi quei momenti, i rischi presentati da banche che erano o si sentivano vicine a partiti politici erano ben più gravi di quanto potrebbe verificarsi oggi. Le riflessioni di Einaudi sull'esercizio del "mestiere di banchiere" conservano però intatto il loro valore. Il 13 settembre 1977 Beniamino Andreatta pubblicò, sempre su queste colonne, un lungo articolo intitolato "Ristrutturazione finanziaria delle imprese: ecco come devono comportarsi i banchieri". Metteva in luce alcuni problemi, anch'essi da non dimenticare pur in un contesto molto migliorato, anche per merito del ministro Andreatta e di nuove generazioni di banchieri. Notava, riferendosi agli anni precedenti: "Garantita da questa rete di protezione che il nostro sistema di economia mista le assicurava, la banca italiana è stata in questi anni tradizionalmente riluttante a svolgere la sua funzione di spinta all'intermediazione azionaria, sia imponendo alle imprese un maggior ricorso ad aumenti di capitale, sia promuovendo presso la sua clientela l'assorbimento di nuove azioni". Procedere oltre nel rendere moderno il sistema finanziario italiano, e con esso il sistema delle imprese: resta questo il migliore contributo che i banchieri possono dare, su un terreno proprio, all'interesse generale. E forse anche quello di esercitare tutta la loro influenza, nel dibattito politico, affinché non venga smarrito il sentiero da poco intrapreso delle riforme strutturali. Senza involuzioni o controriforme.


 

La Gazzetta di Reggio 22-4-2007 IL NUOVO PARTITO UNA STRADA PER L'EUROPA SONIA MASINI Presidente della Provincia

 

E se, una volta tanto, l'Italia provasse a stare davanti, in Europa? Piero Fassino, nella sua relazione, ha citato Antonio Gramsci. Lo abbiamo applaudito molto, anche in questo passaggio, perché la memoria di Gramsci ci è cara ed ancora è forte la sua elaborazione culturale. Eppure, oggi, possiamo dire che la scissione di Livorno fu un errore e non soltanto perché finì per indebolire il fronte antifascista. Ma anche perché rappresentò una delle cause - seppure non certamente la principale - che privarono il nostro Paese, dopo la devastazione prodotta dal fascismo, di quell'esperienza straordinaria di governo che è stata la socialdemocrazia europea e, con essa, della crescita nel senso comune dell'etica della responsabilità individuale coniugata alla cultura dei diritti. E' pur vero che, dalla Costituzione agli anni Novanta, l'Italia ha avuto in alcune forze - comunisti e socialisti, laici riformisti, la sinistra democristiana ed il cattolicesimo democratico, il movimento sindacale nel suo complesso - il fulcro attraverso il quale furono costruiti una democrazia vera, lo statuto dei diritti dei lavoratori, un welfare solido almeno in alcune realtà del Paese e l'emancipazione femminile. Ma quanti limiti, quanti errori, quanti ritardi ed inefficienze hanno segnato quel percorso! E quale sistema Paese debole ci ha consegnato, corporativo e con una cultura troppo assistenziale, soprattutto al Sud! Quali difficoltà, ancora oggi, incontriamo a giocare ciascuno la propria parte al meglio, dalla politica alle altre leadership economiche e sociali! Certo le ragioni di tutto ciò sono complesse, hanno radici lontane in una storia fatta di troppe frammentazioni e di scarso senso dello Stato. Ma non vi è dubbio che in quella storia anche la sinistra abbia compiuto i propri errori. Vediamo oggi i nostri limiti e tocchiamo con mano ciò che ci impedisce di essere primi in Europa. Un'Europa che si sta misurando con cambiamenti epocali e che non può più trovare le risposte adatte solo nella socialdemocrazia né nella tradizione popolare. Ambiente, migrazione, conoscenza, rapporto individui-Stati, sicurezze hanno bisogno di un nuovo pensiero politico, di rinnovati programmi ed atti di governo. In Germania solo una Gro e Koalition ha potuto produrre un governo stabile. In Francia come non vedere la necessità di un'alleanza tra Ségolène Royal e FraÑcois Bayrou? Anche l'esperienza di Tony Blair, dopo anni di successi, dovrà essere rivisitata, soprattutto in considerazione degli errori commessi in politica internazionale. Ed i Paesi entrati recentemente, non portano forse esperienze e pensieri nuovi rispetto all'Europa della guerra fredda? Insomma, l'Europa di cui avvertiamo sempre più il valore e la necessità, ha essa stessa bisogno di una politica rinnovata e chiara, che dia nuove opportunità, sicurezze, speranze. Perché non può iniziare a soffiare dall'Italia un vento nuovo, quel vento che in questi giorni ha portato il Partito democratico, non un partito in più, ma un partito "nuovo" in grado di produrre un pensiero nuovo? Tante volte l'Italia e la sinistra italiana hanno perso delle occasioni. Oggi, in un'Europa ormai matura per voltare pagina, proprio l'Italia può tracciare il solco entro cui seminare una nuova politica, che parta dalle tradizioni di ciascuno, ma compia le dovute cesure e sappia davvero guardare al futuro. Una nuova politica che sappia davvero guidare tutta l'Europa in questo percorso di rinnovamento che porti la sinistra ad andare oltre se stessa e, dunque, non a creare un altro partito della sinistra europea, ma una nuova forza democratica in grado di ospitare ogni spinta riformatrice e restituire all'Europa un ruolo trainante nel contesto internazionale. Non si tratta di rinnegare i valori, gli interessi e la storia che la sinistra ha sempre difeso e che sempre difenderà, ma di reinterpretarli coniugandoli con la modernità, con la necessità di assicurare un futuro migliore a noi e ai nostri figli, con le mutate esigenze e le diverse aspettative della società. Una società fatta di giovani, di tante persone e tanti professionisti che anche attraverso nuovi lavori e nuove conoscenze ogni giorno vivono il cambiamento e dimostrano di saperlo interpretare e governare. Non per loro, ma con loro, le sinistre di ciascun Paese, la sinistra europea nel suo complesso dovrà cogliere e vincere questa sfida. Se non lo farà, concederà alle forze della destra di relegare l'Europa ad un ruolo ancora più arretrato e sempre più subalterno sfruttando le ansie e le insicurezze che, inevitabilmente, questa fase di mutamenti epocali produce in tanti di noi. E' un'occasione nuova, tocca a noi non sprecarla ancora. Sonia Masini Presidente della Provincia.


 

Il Secolo XIX 22-4-2007 Oggi la conclusione di Rutelli Veltroni: ce l'abbiamo fatta. Letta a Follini: vieni con noi. Fischiato Parisi. Angelo Bocconetti

 

Roma. La strada verso il Partito democratico non passa solo attraverso le "forche caudine" della collocazione europea del nuovo soggetto politico. Ieri, al Congresso della Margherita, è emerso il secondo nodo irrisolto: la laicità del Pd. Una vera e propria battaglia, condotta a suon di interventi e di documenti. Il ministro Bindi contro il ministro Fioroni; i documenti dei "teodem" contrapposti a quelli dei "giovani dei Dl". Difficile capire chi abbia vinto la sfida: al ministro sono stati tributati 17 applausi in un quarto d'ora di intervento; dall'altra parte, il documento di Bobba e Binetti ha raccolto la firma di quasi 170 delegati. Sarà Francesco Rutelli, questa mattina, nella relazione conclusiva, a fissare con esattezza i paletti attraverso i quali anche la Margherita confluirà nel Partito Democratico. Ieri mattina, però, il vicepremier ha voluto togliersi subito un sassolino dalla scarpa: "Ho letto sui giornali cose non vere. Io non ho mai detto "mai con il Pse". Ho detto "mai nel Pse". E' una cosa ben diversa", ha spiegato, prendendo il microfono, a sorpresa. Una risposta concordata con Fassino: a nessuno dei due leader sono piaciute le critiche contenute nei giornali del mattino. Il problema dei rapporti con il mondo cattolico, invece, è diventato protagonista di prepotenza. Lo ha evocato, per primo, l'ex Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita, uno dei "grandi padri" dell'ala democristiana del partito: "Se il partito dovesse partire con una competizione sulla laicità del futuro soggetto, e sull'ingresso o meno nel Pse, darebbe una risposta sbagliata ai problemi". Poi è toccato a Luigi Bobba accendere i riflettori sulla questione della laicità del nuovo partito: "Mica penserete che io sia uno scolaretto cui impartire lezioni di laicità dello Stato a colazione, a pranzo o a cena!". Bobba, del resto, era già corso ai ripari: sua la prima firma in calce ad un documento nel quale si chiede che "le politiche della famiglia rientrino tra gli obiettivi strategici" del partito democratico. Di lì a pochi minuti, la federazione giovanile del partito, ha risposto, presentando un proprio "ordine del giorno" in cui si chiede: "Il Pd assuma come valore fondante la laicità della politica e delle istituzioni". Quando ha preso la parola Rosy Bindi, la platea ha fatto silenzio d'improvviso, proprio come si addice ad un big di un congresso: "Spetta a noi cattolicisuperale un clericalismo che vuole imporre i propri valori. Basta con i "non possumus" di fronte alle soluzioni più ardite. Altrimenti arriveremmo al paradosso: noi siamo qui a fare il Partito democratico e l'Italia torna a dividersi tra laici e cattolici". Mai, neppure una volta, durante il suo intervento, il ministro ha pronunciato la parola "Dico", ma era superfluo farlo. La risposta alla Bindi è arrivata dalla "teodem" Paola Binetti: "Io non credo di essere intollerante, ma non mi piace essere tollerata. Io chiedo di entrare nel partito democratico, ma con le mie convinzioni. I valori irrinunciabili non vanno declinati". Pochi applausi per lei. Poi è intervenuto il ministro dell'Istruzione, Beppe Fioroni: "A chi ci accusa di sostenere certe opinioni solo perché lo dicono i vescovi, non viene mai in mente che, forse, ci crediamo davvero?". Le questioni politiche, in senso stretto, sono passate in secondo piano. A cominciare dall'invito lanciato da Enrico Letta all'ex segretario dell'Udc, Marco Follini, ad aderire al nuovo soggetto politico: "Lo chiedo a te - ha detto il sottosegretario alla Presidenza - come lo chiedo a tutti quelli che vogliono riprendere una militanza in una storia diversa". Per passare ad Arturo Parisi che ha ricevuto, unico tra gli oratori, qualche fischio dalla platea. E' accaduto quando si è pubblicamente rammaricato di aver ritirato la sua "mozione filoulivista": "Uno sbaglio che ho compiuto per malinteso spirito unitario. La degenerazione della vita interna del partito è visibile a tutti. O almeno a chi vuole vedere" ha detto, in aperta critica a Rutelli. E, a ben guardare, anche la presenza di Veltroni, in platea ma non sul palco, è stata una scelta tutta politica. Il successo personale ottenuto, dal sindaco di Roma, il giorno precedente al congresso Ds, se ripetuto ieri, nello studio cinque di Cinecittà, avrebbe assunto il valore di una ricerca di investitura alla successione di Prodi. Veltroni ha capito: ha raccolto gli applausi, l'abbraccio di Rutelli ed una sola frase sussurrata al leader Dl. "Alla fine ce l'abbiamo fatta" ha detto il sindaco di Roma. 22/04/2007.


 

Il Giornale 22-4-2007 Lotta all’ultimo voto per conquistare l’Eliseo di Marcello Foa

 

nostro inviato a Parigi

Dunque, in Francia si vota per il primo turno delle presidenziali. Certezze nessuna. Paure tante, sempre di più. I pronostici ufficiali dei cinque istituti autorizzati dalla Commissione dei sondaggi indicano Nicolas Sarkozy primo e Ségolène Royal seconda. Ma venerdì sera il Nouvel Observateur e Le Monde hanno scoperto il sesto incomodo, la società “3C Etudes”, regolarmente autorizzata e di cui finora nessuno aveva sentito parlare, che ha contribuito a rendere ancor più confusa la vigilia. Non solo perché, secondo le sue rilevazioni, Ségolène sarebbe in testa, Sarkozy secondo, tallonato da Jean-Marie Le Pen e da François Bayrou; il tutto nell’arco di pochi punti, tra il 18 e il 26%, il che renderebbe possibile ogni combinazione, persino un duello tra la Royal e il leader del Fronte nazionale.
“3C Etudes” ha fatto sensazione anche perché, oltre a fornire i dati ponderati, ha pubblicato per la prima volta quelli grezzi, con esiti sorprendenti. I quattro favoriti sono molto meno popolari di quanto si supponga. Di prima intenzione la Royal ottiene il 14% dei consensi, Sarkozy il 13%, Bayrou l’8% e Le Pen il 5%. Gli indecisi sono tantissimi, oltre il 50%. Da qui il dubbio: sono attendibili i sondaggi diffusi nelle scorse settimane e che hanno condizionato la campagna elettorale? O a essere ingannevole è proprio l’ultimo arrivato?
Recentemente si è saputo che cinque anni fa gli uomini vicini a Jacques Chirac trovarono il modo di far pubblicare un sondaggio che volutamente dava Lionel Jospin in testa, il presidente uscente in caduta, Le Pen in crescita. Lo scopo? Disperdere il voto della sinistra e spingere alle urne gli indecisi di destra. L’operazione, come noto, riuscì fin troppo bene. Ora qualcuno sospetta il bis.
Di certo i sondaggisti francesi non possono vantare una grande tradizione. Non predissero il crollo dei comunisti nel 1981, né il primo posto di Jospin nel 1995, né il successo di Le Pen nel 2002. E nel 2005 sottovalutarono i «no» nel referendum alla Costituzione europea. Proprio ieri uno dei massimi esperti, Pascal Perrineau, direttore del centro di ricerca di Scienze politiche, ha pronosticato «un’altra grande sorpresa». Per questo sia a destra che a sinistra la parola d’ordine è: prudenza. Gli strateghi elettorali gollisti hanno ridimensionato le attese trionfalistiche, ponendosi come obiettivo minimo il 20,84% ottenuto da Chirac dodici anni fa; quelli socialisti non hanno nemmeno indicato cifre e si sono limitati ad auspicare l’accesso al secondo turno.
Ieri è stata una giornata di riflessione in cui è stata vietata qualunque forma di propaganda, incluso l’aggiornamento dei siti ufficiali. Stamane la parola passa, finalmente, ai 44,5 milioni di elettori; di cui circa un milione (i residenti nei territori oltre Oceano) ha già iniziato a votare per ragioni di fuso orario. Si attende una partecipazione molto più alta rispetto al 2002, quando venne toccato il minimo storico al 71,6%. Ottantadue comuni useranno, per la prima volta, il voto elettronico e come è già accaduto in altri Paesi l’innovazione è stata accolta con scetticismo, soprattutto da parte dei partiti di sinistra, che temono brogli e hanno imposto la sostituzione di 200 cabine apparentemente non omologate. 
Non è stata, questa, l’unica polemica. Due noti giornalisti radiofonici, Jean-Marc Morandini e Guy Birenbaum, hanno annunciato di voler violare l’embargo che vieta ai media di diffondere gli exit poll prima delle 20.00. Il sistema francese contempla una particolarità: i seggi chiuderanno in tutto al Paese alle 18, tranne a Parigi dove resteranno aperti due ore in più. E da sempre nelle redazioni circolano confidenzialmente i risultati preliminari, che stasera i due reporter intendono rendere pubblici diffondendoli tramite propri blog. 
L’iniziativa, come prevedibile, ha suscitato l’entusiasmo del “popolo di internet” e al contempo l’ira della Commissione di controllo elettorale che ha annunciato multe di 75mila euro e condanne fino a un anno di prigione. Le autorità sono inflessibili e lo saranno ancor di più tra quindici giorni, quando la Francia tornerà alle urne.

 

IL Secolo XIX 22-4-2007 Referendum elettorale

 

Roma. Martedì si mette in moto la macchina del referendum, mentre domani il ministro Vannino Chiti, anche se non sembra imminente un accordo tra i partiti, riferirà in commissione alla Camera e al Senato sulle consultazioni per la riforma elettorale con le forze politiche di maggioranza e opposizione. Intanto, Giovanni Guzzetta, il costituzionalista che presiede il comitato promotore del referendum, conferma che dal 24 aprile partirà la raccolta delle firme a sostegno dei tre quesiti referendari per l'abolizione delle coalizioni alla Camera e al Senato e delle candidature plurime in diverse circoscrizioni. "Mi chiedo: è in grado il Parlamento di fare una riforma? Io mi auguro di sì, ma anche se Prodi sostiene che il cavallo ha cominciato a correre io sono un pò più pessimista di lui. La situazione - sottolinea Guzzetta - è molto complessa, non ci sono accordi in vista ". La raccolta delle firme per il referendum sulla legge elettorale dovranno essere presentate in Cassazione entro il 30 settembre . 22/04/2007.


 

INDICE 21-4-2007

ANTITRUST, STABILITE ULTERIORI RIDUZIONI PER I SERVIZI BANCARI

La Nuova Sardegna 21-4-2007 Chiusa l'inchiesta sulla maxi truffa all'erario, in ventisei sott'accusa per un danno di 3 milioni

Borsa e Finanza 21-4-2007 La Mega Bolla del Mattone Cinese

 

 


 

ANTITRUST, STABILITE ULTERIORI RIDUZIONI PER I SERVIZI BANCARI

 

Vai al testo del provvedimento

 

COMUNICATO STAMPA

BANCHE: ANTITRUST, STABILITE ULTERIORI RIDUZIONI DELLE COMMISSIONI INTERBANCARIE PER SERVIZI DI INCASSO, PAGAMENTO E BANCOMAT CON TAGLI MINIMI TRA L’11 E IL 64%. ACCETTATI IMPEGNI DI ABI E CO.GE.BAN.


Una riduzione dell’entità di 5 commissioni interbancarie - i prezzi corrisposti tra banche che fungono da base per i prezzi finali alla clientela - che devono diminuire tra valori che oscillano, come minimo, tra l’11% per il prelievo bancomat da sportelli di altre banche, e il 64% per il Rid veloce. Lo ha deciso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che nella riunione del 19 Aprile 2007 ha accettato e reso obbligatori gli impegni presentati da ABI e Co.Ge.Ban a seguito dell’istruttoria per possibili intese restrittive della concorrenza.

L’Autorità, il 29 marzo 2006, aveva aperto il procedimento per accertare l’esistenza di violazioni della normativa antitrust, consistenti nella fissazione collettiva a livello associativo del valore massimo delle commissioni interbancarie che governano l’offerta dei servizi per il prelievo di contanti con il Bancomat presso sportelli di altre banche e per i servizi di pagamento RID (Rapporti Interbancari Diretti) e Ri.Ba (Ricevuta Bancaria Elettronica). Nella riunione del 23 novembre 2006 l’Autorità aveva disposto la pubblicazione degli impegni allora presentati da ABI e Co.Ge.Ban, permettendo ai terzi interessati di esprimere le loro osservazioni entro 30 giorni. Ad esito di tale procedura di consultazione, ABI e Co.Ge.Ban hanno presentato, il 26 febbraio 2007, nuovi impegni, che riducono ulteriormente i valori delle commissioni interbancarie. 

Gli impegni costituiscono una rivisitazione della metodologia di calcolo delle commissioni interbancarie rispetto ai criteri fissati da Banca d’Italia nella propria precedente decisione relativa ad accordi aventi la medesima natura.

Nello specifico, le parti, a seguito della prima versione degli impegni, hanno già eliminato la commissione per il servizio ‘Ri.Ba. con tramite”, accorpato le commissioni ‘RID utenze’ e ‘RID commerciale’ in una unica commissione e hanno ridotto i valori di quelle restanti. Tali minori valori conseguono l’applicazione di una nuova metodologia di calcolo che, rispetto al passato, prevede da subito l’orientamento ai soli costi diretti attraverso, tra l’altro, l’esclusione della voce dei “costi indiretti” e della voce del “mark up” (margine di profitto), oltre all’inclusione di risparmi di costo derivanti da innovazioni di processo.

Il 26 febbraio 2007, le parti si sono impegnate anche a fissare dei valori minimi, inferiori a quelli vigenti a gennaio, per i futuri nuovi valori delle commissioni, che verranno calcolati dal luglio 2007 ad esito di nuove rilevazioni di costi effettuate su campioni di banche più rappresentativi di quelli attuali. Tali minori valori sono stati calcolati sulla base di stringenti criteri di efficienza, escludendo il 50% delle banche con i costi più elevati, con correttivi specifici per le singole commissioni. 

Infine, ogni due anni verrà verificata la possibilità di ridurre ulteriormente le commissioni alla luce di eventuali riduzioni di costo, fermo restando come tetto massimo il valore della precedente rilevazione.

Nell’approvare gli impegni, l’Autorità ha sottolineato che continuerà a monitorare l’andamento delle commissioni, riservandosi di verificare se variazioni nel contesto europeo di riferimento, nelle modalità di offerta dei servizi e nella struttura del sistema bancario italiano, non richiedano ulteriori riduzioni delle commissioni. 

L’Autorità ha emesso il provvedimento sul presupposto che i risparmi conseguenti alla riduzione dei costi interbancari derivanti dalla procedura si risolvano prevalentemente, se non in tutto, in una riduzione del prezzo finale ai consumatori per il prelievo bancomat e alle imprese per i servizi Ri.Ba e RID, come è giusto in un mercato basato sulla correttezza dell’offerta commerciale. Se dal monitoraggio risulterà che il vantaggio è rimasto solo a favore degli operatori economici, l’Autorità adotterà i necessari provvedimenti.

L’Autorità confida inoltre che le imprese che fanno largo uso dei servizi di incasso in esame, come quelle che si avvalgono del servizio di domiciliazione delle bollette, trasferiscano ai consumatori finali tali riduzioni dei prezzi bancari.

In tale ambito, la previsione negli impegni di ABI e Co.Ge.Ban. di dare pubblicità sul proprio sito internet ai valori delle commissioni interbancarie attuali e future, introdurrà una trasparenza dei costi interbancari - alla base dei prezzi applicati alla clientela - che consentirà un atteggiamento più attivo della clientela bancaria.


Nella tabella i valori massimi delle commissioni proposti da ABI e Co.Ge.Ban

Commissione Interbancaria all’avvio del procedimento

Valore all’avvio del procedimento (euro)

Commissione interbancaria a seguito di impegni pubblicati

Valore applicati a seguito di impegni pubblicati , a partire dal gennaio 2007
(euro)

Valore massimo a seguito di ulteriori impegni (euro)

Riduzione percentuale minima dall’avvio

RiBa disposizione di incasso

0,95

RiBa disposizione di incasso

0,71

0,66

31%

RiBa disposizione di incasso con tramite

0,34

ELIMINATA

RiBa insoluto

0,84

RiBa insoluto

0,57

0,41

51%


RID commerciale incasso

0,66


RID

0,39

0,28

58%

RID utenze incasso

0,52

25%

RID veloce incasso

2,5

RID veloce incasso

1,08

0,90

64%

Bancomat

0,75

Bancomat

0,67

0,67

11%


Roma, 20 aprile 2007


 

La Nuova Sardegna 21-4-2007 Chiusa l'inchiesta sulla maxi truffa all'erario, in ventisei sott'accusa per un danno di 3 milioni

 

PROCURA DELLA REPUBBLICA Chiusa l'inchiesta sulla maxi truffa all'Erario, in ventisei sott'accusa per un danno di 3 milioni CAGLIARI. Per la Procura della Repubblica non ci sono dubbi: l'organizzazione capeggiata da Salvatore Dessì, appoggiato da alcuni funzionari della Bipiesse Riscossioni, ha creato un danno allo Stato di circa 3 milioni di euro. Erogati ad imprenditori accusati di aver truffato l'Erario ottenendo falsi rimborsi Iva, a suon di mazzette. Dopo gli arresti e i sequestri dei primi di febbraio, arriva ora l'atto di chiusura dell'inchiesta che il sostituto procuratore Giangiacomo Pilia ha fatto notificare ai 26 indagati, molti dei quali accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, corruzione e falso. Stando agli atti, che ora saranno depositati integralmente, l'ex titolare di un oleificio di Narcao, Salvatore José Dessì, contattava imprenditori ai quali si proponeva come curatore delle domande di rimborsi Iva non dovuti, da presentare tramite la Bipiesse riscossioni all'Agenzia dell'entrate. Era suo compito - secondo l'accusa - oleare l'ingranaggio corrompendo il funzionario Bipiesse Antonio Carboni, che deve rispondere di associazione a delinquere, truffa, corruzione, rivelazione di segreti d'ufficio, falso ideologico, concussione. Sotto accusa anche Rosario Trusiano (difeso da Rodolfo Meloni), funzionario dell'Agenzia delle entrate, indagato per associazione a delinquere, truffa e rivelazione di segreti d'ufficio. I tre erano stati arrestati il 7 febbraio e poi rimessi in libertà, mentre Trusiano è rimasto ai domiciliari. Indagini concluse anche per il ragioniere commercialista Venanzio Pisu (difeso dall'avvocato Michele Schirò), accusato di associazione a delinquere e truffa perché avrebbe messo a disposizione della presunta organizzazione la sua professionalità e il suo studio come base operativa; per l'impiegato dell'Agenzia delle entrate Enrico Diomedi, indagato per associazione a delinquere; e la convivente di Dessì, Candida Gianeri, titolare di una lavanderia, chiamata a difendersi dall'accusa di ricettazione, versando sui suoi conti correnti gli assegni che le dava il compagno. In fase di chiusura dell'inchiesta, alcune contestazioni potrebbero essere state modificate, ma finora agli altri indagati erano mosse queste accuse: Giancarlo Piga Raffo (truffa), Agostino Caso (truffa e ricettazione), Fabrizio Cau (tentata truffa), Maria Teresa Fadda (truffa e ricettazione), Efisio Fadda (truffa), Massimo Melis (tentata truffa), Marco Melis (truffa), Graziano Collu (truffa), Massimiliano Cannas (tentata truffa), Elisabetta Cara (truffa), Luigia Manca (corruzione e truffa), Walter Cadeddu (tentata truffa), Laura Lai (corruzione e truffa), Alessandro Ombrello (corruzione e truffa), Marco Palumo (truffa), Angelo Caso (truffa), Massimo Piludu (concussione), Lara Stefania Iannuzzi (ricettazione), Roberto Diomedi (truffa e falso ideologico). Dopo la discovery degli atti, gli avvocati hanno venti giorni di tempo per presentarsi dal magistrato con i loro assistiti oppure depositare memorie difensive. Poi, il pm Pilia chiederà il processo. Elena Laudante.


 

Borsa e Finanza 21-4-2007 La Mega Bolla del Mattone Cinese

 

ANALISI TECNICA Nei prossimi 10 anni migreranno nelle città da 150 a 300 milioni di persone. Occorrerà costruire una Milano al mese. E le grandi banche straniere saranno il volano dei mutui Il risultato sarà una corsa agli acquisti, da cavalcare con le società quotate a Hong Kong di Redazione - 21-04-2007 Con ogni probabilità, ci troviamo alle soglie di un eccezionale boom del mercato immobiliare cinese. A tempo debito temo che diventerà la maggiore bolla speculativa della nostra epoca. Basti dire che circa il 50% della forza lavoro è tuttora impiegato in campagna, con un macroscopico spreco di risorse umane per il Paese. Con la migrazione di massa verso le città saranno possibili progressi colossali. Nel 2004, il salario medio in agricoltura era di 300 dollari l'anno, nei servizi di 900 e nell'industria di 3.000. La robusta espansione dell'economia riflette in primo luogo la migliore allocazione del capitale umano. Quali le cifre in ballo? In base alle stime più accreditate, nei prossimi 10 anni l'afflusso di uomini e donne verso i centri urbani dovrebbe collocarsi fra i 150 e i 300 milioni di unità. Insomma, una folla oceanica per la quale occorrerà costruire una Milano al mese o una Roma al mese. PROPRIETÀ PRIVATA. Non si tratta di iperboli, tant'è vero che nel decennio appena trascorso l'ondata ha raggiunto i 100 milioni di individui e sono sorte 200 "nuove" città. Vale la pena di notare che i prezzi attuali del mattone non sembrano esagerati: a Shanghai un appartamento "impareggiabile" passa di mano fra i 2.500 e i 4.500 euro al metro quadro, ma le quotazioni medie supera con difficoltà i 750 euro. In capoluoghi come Wuhan o Chongqinq, le abitazioni di lusso si vendono a 700-1.100 euro al metro quadro. Tengo particolarmente d'occhio anche il nascente mercato dei mutui ipotecari. Avete fatto caso come le autorità cinesi abbiano venduto quote rilevanti delle loro banche a istituti esteri? La decisione potrebbe apparire bizzarra se uno pensa all'immane dimensione delle riserve valutarie e all'attivo della bilancia commerciale per la quale non si riesce a trovare uno sbocco proficuo. Di primo acchito la vendita alle varie Citigroup, Goldman Sachs, Bank of America, Hsbc o Hang Seng Bank risulta un controsenso. Eppure, la linea d'azione di Pechino va capita. Si vogliono porre le basi per un vivace e moderno mercato dei mutui che eserciti un'influenza positiva sulla diffusione della proprietà privata e la compravendita immobiliare. Mancando le professionalità ed esperienze in casa, si è pensato di importarle con l'ausilio di primari istituti di credito internazionali. Le quote cedute equivalgono a un'iniezione di cento miliardi di dollari. E poichè il rapporto tra prestiti e base di capitale supera non di rado il livello di 8 a 1, stiamo parlando di un potenziale che sfiora i mille miliardi. Persino lo sfondo normativo beneficia di evidentissimi margini di miglioramento: il più eloquente consiste nell'aver riconosciuto il diritto inviolabile alla proprietà. Del resto lo stesso ex presidente Jiang Zemin, nel discorso di commiato al Parlamento si era espresso in termini perentori: "Tutte le barriere istituzionali e politiche all'urbanizzazione vanno rimosse". SVILUPPO TUMULTUOSO. Ci sono altre considerazioni che entrano nel novero dei fondamentali, tutte propizie al mercato residenziale. Per incominciare i tassi d'interesse. Al netto dell'inflazione sono negativi, rendendo conveniente il travaso della liquidità dal reddito fisso a quello immobiliari. Gli acquisti sono poi supportati dalla vivacità della crescita economica combinata con l'elevato saggio di risparmio dei cinesi. Infine l'impatto migratorio è il più sensazionale che la storia ricordi. Le sfide non mancano, ovviamente. Il Partito vuole evitare di creare nella Repubblica Popolare il proliferare di città tipo Calcutta, archetipo di degrado e condizioni disperanti, e per ora gli sforzi sono ricompensati da uno sviluppo tumultuoso, ma controllato. Per concludere, non sarei stupito se nel giro di qualche anno si verificasse una gigantesca corsa agli acquisti, capace di innescare la più fenomenale bolla speculativa dei nostri giorni. Rimane l'ultima domanda: come partecipare? I ricchi possono sottoscrivere dei fondi di private equity; i piccoli risparmiatori diano un'occhiata alle società di costruzioni quotate sulla piazza di Hong Kong.


INDICE 20-4-2007

 

++ AgenParl 20-4-2007 NEI NUOVI SCENARI: CDL IN FRANTUMI E BIPOLARISMO AL TRAMONTO. DA FORZA ITALIA UN GRIDO D’ALLARME. CALDEROLI DETTA E CHITI SCRIVE. MUSSI: UNA COSTITUENTE ALLA SINISTRA DEL PD. ANGIUS: IL PD NON MI CONVINCE MA NON ESCO

+ Il Corriere della sera 20-4-2007 «Incidenti d'auto finti»: Bologna, truffa da 15 milioni di euro nella banda 30 poliziotti. Centinaia nell'inchiesta: avvocati, medici e carrozzieri. Certificavano scontri e danni inesistenti o gonfiati. Marco Imarisio

+ La Stampa 20-4-2007 Il doppio strappo LUIGI LA SPINA 

Il Corriere della Sera 20-4-2007 Fantasmi socialisti di Gian Antonio Stella

Il Secolo XIX 20-4-2007 E dirà "Addio".

Europa 20-4-2007  Bene, Ds e Dl. Ora però ditelo agli italiani

L’Unità 20-4-2007 Turchia-Ue, Prodi: la strage non aiuta Ankara "a disagio", la stampa critica il lassismo del governo verso i gruppi fondamentalisti L'Europa condanna.

Il Sole 24 Ore 19-4-2007  Evade il fisco il 50% dei medici in intramoenia «Centinaia di medici nel mirino del Fisco.

Il Riformista 20-4-2007 LA PARTITA TELECOM Fratelli d'Italia il Cavaliere s'è desto.

Il Corriere della Sera 19-4-2007 In Tibet la prima neve artificiale Esperimento riuscito con successo nella regione cinese

Gazzetta del Sud 20-4-2007 Sale operatorie Strumenti cinesi insicuri

 


++ AgenParl 20-4-2007 NEI NUOVI SCENARI: CDL IN FRANTUMI E BIPOLARISMO AL TRAMONTO. DA FORZA ITALIA UN GRIDO D’ALLARME. CALDEROLI DETTA E CHITI SCRIVE. MUSSI: UNA COSTITUENTE ALLA SINISTRA DEL PD. ANGIUS: IL PD NON MI CONVINCE MA NON ESCO

 

Roma, 20 Aprile 2007 – AgenParl -L’on Cesare Campa, esponente veneto di Forza Italia, conversando con un redattore dell’AgenParl, non ha nascosto i suoi timori per la tenuta della Casa delle Libertà e del bipolarismo come essi sono ancora concepiti. La minaccia proviene dagli scenari che saranno frutto della costituzione del Partito Democratico e dei conseguenti nuovi assetti politici.
Campa osserva infatti che: “Ormai non c’è più alcun dubbio. Il Partito Democratico verrà costituito attraverso una serie di scissioni. La nascita del nuovo partito e la ricollocazione di chi, appartenendo oggi alla Quercia o alla Margherita, non aderirà alla nuova formazione politica, determineranno una serie di reazioni a catena di questi sommovimenti le altre forze politiche, in un modo o nell’altro, ne subiranno gli effetti. Prevedendoli di già, Rifondazione Comunista ha aperto il cosiddetto cantiere della Sinistra Italiana ed Europea, lo SDI ha avviato l’unificazione socialista offrendosi ai dissidenti diessini e agli amici di Gianni De Michelis. Da parte sua l’UDC si è aperta ai moderati dell’una e dell’altra sponda del nostro bipolarismo malato,avviando dialoghi,oltre che con Mastella, con Di Pietro e Rotondi e lasciando attivo il filo con Rutelli”.
“Si verificherà,quindi, un concatenamento di conseguenze, dirette ed indirette, di cui – dice Campa – Forza Italia dovrà tener conto anche in relazione al disegno, tuttora incompiuto, di dar vita, assieme alla sola AN, al Partito delle Libertà. Partito questo che corre il pericolo di diventare la casa,non del centro-destra,ma della sola destra. E’ inutile illudersi su quanto potrà accadere, anche per noi, in questi nuovi scenari che comportano, ovviamente, una profonda revisione non solo del nostro essere ma anche della nostra collocazione nel contesto generale della politica italiana”.
“Tanto più che l’Udc – afferma Campa a denti stretti – dopo essersi differenziata rispetto agli altri partiti della Cdl, potrebbe candidarsi come punto di riferimento dei moderati dei due obsoleti poli politici, la cui sopravvivenza è fortemente minacciata perché non hanno saputo cogliere le istanze nuove e dare alla politica un’anima”.
C’è da aggiungere che, in questo contesto, la Lega di Bossi tende sempre di più ad avere “le mani libere”, come sta oggi dimostrando nelle trattative per la riforma della legge elettorale e per le modifiche costituzionali intese all’introduzione del federalismo fiscale. “Calderoni detta e Chiti scrive”. Con questa battuta ironica, il presidente del gruppo senatoriale delle Autonomie, Oskar Peterlini, ha definito il clima di collaborazione tra l’esponente della Lega e il ministro per i rapporti col Parlamento. E in questo contesto di collaborazione la Lega sembra impegnata ad assicurare la sopravvivenza del governo Prodi.

 

MUSSI: UNA COSTITUENTE ALLA SINISTRA DEL PD

Roma, 20 Aprile 2007 – AgenParl – Com’era previsto è arrivato l’addio di Fabio Mussi. Intervenendo al congresso Ds ha ufficializzato il suo abbandono al partito: “questa non è la svolta della Bolognina dell'89 ma è la svolta figlia di un fallimento”.
Inoltre il leader del Correntone critica il “traghettatore” Fassino: “caro Piero precipitiamo verso il Partito democratico senza aver chiarito nulla, a partire dalla collocazione europea”.
Comunque il ministro dell’Università ha già pronta l’alternativa alla futura forza unitaria: “l’obiettivo è costruire un movimento politico autonomo, che si propone di aprire un nuovo processo”. Insomma una fuga a sinistra del Pd. (F.C.)

 

ANGIUS: IL PD NON MI CONVINCE MA NON ESCO

Roma, 20 Aprile 2007 – AgenParl – “Separarsi non è la soluzione. Ma confermo il mio dissenso al Partito Democratico”. Intervenendo al congresso Ds Gavino Angius ha ribadito la linea della sua mozione. Una “terza via“ tra quella di Piero Fassino e quella di Fabio Mussi: la proposta di una federazione tra Quercia e Margherita e l’ancoraggio al Pse. Non a caso Angius bacchetta entrambi: “si sta sbagliando il percorso, anche se convengo con Fassino che separarsi non è la soluzione. Ma non è sbagliato chiedersi su che cosa ci si unisce”.
Insomma la strada scelta è quella della “battaglia interna”: “non condivido il progetto del Pd così com'è. Il manifesto va rifatto tutto, di sana pianta”.
Viene fatto notare all’AgenParl come però questa strategia sia quasi obbligata, dal momento che sia il progetto del polo socialista di Enrico Boselli sia il “cantiere della sinistra” di Fausto Bertinotti non rappresentano per Angius gli approdi più adatti. (F.C.)

 

 

+ La Stampa 20-4-2007 Il doppio strappo LUIGI LA SPINA 

 

Non esageriamo. A Firenze, ieri, non è davvero cominciata una «nuova storia», come, con la retorica tipica dei congressi, ha evocato la relazione di Fassino. Forse, e sarebbe già tanto, si potrebbe sperare che sia cominciata almeno una «nuova politica». Ecco perché l’avvio, faticoso e non certo esaltante, del partito democratico dovrebbe interessare non solo militanti, elettori, tifosi, più o meno convinti, del centrosinistra italiano, ma anche tutti i cittadini del nostro Paese. Per la possibile nascita, dopo la prima Repubblica, finita con la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, e dopo la seconda, caratterizzata dalla frantumazione del nostro sistema partitico, della terza Repubblica, quella improntata a un normale bipolarismo all’europea.

Il significato del congresso che si è aperto a Firenze, del resto, è stato manifestato chiaramente da due «segni» che hanno distinto la giornata di ieri, uno psicologico e l’altro fisico. Il primo riguarda, in modo apparentemente paradossale, il clima privo di drammaticità, esistenziale e politica, nel quale si è dipanato il lungo discorso del segretario Ds. Il secondo si riferisce alla presenza di Berlusconi che, con la sua solitaria, tra gli altri leader dell’opposizione, comparsata congressuale ha come imposto anche il suo sigillo all’avvio della «terza Repubblica italiana». 

Perché se la composizione di due grandi partiti, uno progressista e l’altro conservatore, è soprattutto «una necessità», come ha affermato Fassino, non si possono ammettere lacrime e nostalgie, ma, come si è avvertito sia sulla tribuna sia in platea, solo l’emergere di quel leggero turbamento che colpisce chi si avvia su una strada nuova, ancorché obbligata. E che fosse «una necessità», chi poteva confermarlo più autorevolmente se non il leader del campo avverso?

C’è già stato, in Italia, il tempo di due grandi partiti: erano la Dc e il Pci, cardini, appunto della prima Repubblica. Ma non era normale che l’uno fosse condannato al governo e l’altro all’opposizione. Così come c’è stato e c’è ancora il tempo di due schieramenti, nella seconda Repubblica. Ma non era e non è normale che fossero e che siano in balia di piccole minoranze che, di fatto, impediscono di cambiare quello che in Italia la stragrande maggioranza dei cittadini ritiene urgente cambiare. Così è avvenuto per la mancata rivoluzione liberale promessa da Berlusconi, così rischia di avvenire per quella che i riformisti dell’Ulivo temono di non poter realizzare. Ora, sia pure con molto e giustificato scetticismo, si è avviato un processo che potrebbe anche risolversi in una catastrofe elettorale e politica, come fu l’unificazione socialista di tanti anni fa, ma che è davvero interesse di tutti i cittadini italiani si concluda, invece, con la raggiunta «normalità» europea della nostra politica.

Senza pianti e senza drammi, si può affermare però che, ieri a Firenze e oggi a Roma con il congresso della Margherita, si sono compiuti almeno due «strappi», come si diceva una volta nel gergo comunista, importanti e delicati. Il primo riguarda una divisione, qui davvero storica, in Italia: quella tra laici e cattolici. È vero che nella Margherita sono presenti anche, sparute, forze laiche. Ma è incontestabile che l’impronta determinante di questo partito sia data dalla tradizione popolar-cattolica. Ed è altrettanto vero che nel passato comunista, e poi nel presente diessino, i cattolici hanno contato e contano, sia pure molte volte utilizzati strumentalmente, ma è indubbio che il laicismo con venature anticlericali abbia prevalso, soprattutto nella base dei militanti e dei votanti. La scommessa, resa più ardua da una stagione di risorgenti reciproche intolleranze anche nella società civile, è adesso quella di fondere davvero, in un unico partito, i due filoni cultural-politici della storia italiana. Un’impresa difficile, come testimonia non tanto la tormentata vicenda dei «Dico», la legge sulle coppie di fatto, quanto la persistente indisponibilità degli eredi Dc a ritrovarsi nella famiglia europea dei socialdemocratici.

Il secondo «strappo» è, invece, del tutto involontario, ma pesantemente obbligato. La costruzione di un nuovo partito, per fusione dei due più importanti nello schieramento di centrosinistra, porterà inevitabilmente all’accelerazione, meglio all’avvio, del famoso, sempre promesso e mai intrapreso, rinnovamento di quella classe dirigente. Non foss’altro perché i posti che contano si dimezzeranno e non è escluso che i meccanismi della Costituente e delle primarie riescano a sfuggire, almeno in parte, dal controllo della nomenclatura ex Ds e ex Margherita. Fassino ha promesso che il partito democratico si farà per i giovani che avranno vent’anni nella prossima decade del secolo. Chissà se ha pensato anche a quelli che hanno già vent’anni o anche trenta e che il partito democratico ambirebbero a farselo pure un po’ da soli.

Il Corriere della Sera 20-4-2007 Fantasmi socialisti di Gian Antonio Stella

 

Non ha mai nominato, manco una volta, la parola operai, mai la parola fabbrica, mai la parola masse. Temi che un tempo incendiavano i militanti di quello che si vantava di essere il più grande partito comunista d’Occidente. Non ha mai citato, neppure una volta, quel Silvio Berlusconi il cui solo nome per un decennio riusciva magicamente a riaccendere anche le più ammaccate e tristi riunioni di piazza. E dopo aver rimosso le arie dell’ «Internazionale» e «Bandiera Rossa» e perfino della «Canzone Popolare» o dell’ironica «Il cielo è sempre più blu», ha affidato la missione di scaldare i cuori al robusto inno di Mameli e a «Over the Rainbow», come non ci fossero più canzoni capaci di riassumere con parole italiane e comprensibili all’intera platea una fede buona per tutti.

Eppure nella sua appassionata relazione al quarto congresso dei Ds, così appassionata da fargli venire infine un groppo in gola, Piero Fassino è stato chiamato a fare i conti soprattutto con una parola antica: socialismo. E lì, ha dovuto tentare più acrobazie del mitico Giovanni Palmiri il giorno in cui fermò il fiato ai milanesi comparendo su un trapezio nel cielo di piazza Duomo.

Doveva infatti, lassù sul filo, reggere contemporaneamente in equilibrio quattro socialismi differenti. Il primo, ovvio, era il richiamo al socialismo che doveva rassicurare Fabio Mussi o almeno instillare qualche dubbio nei suoi fedeli, con un continuo rimando alla lunga storia della sinistra e un monito sulle scissioni del passato, «nessuna delle quali è stata foriera di maggiori opportunità». Il secondo doveva confortare Poul Rasmussen, George Papandreou, Kurt Beck e Martin Schultz, che certo non erano venuti a Firenze per essere smentiti dopo aver detto più volte di aspettarsi che il «partito nuovo» entri senz’altro nella grande famiglia socialista europea. Il terzo dovrebbe, se non subito almeno in un futuro ravvicinato, convincere i socialisti della diaspora a non vedere nel Partito democratico «una riedizione in scala minore del compromesso storico » ma piuttosto «la casa anche dei socialisti». Operazione complessa per l’erede di quell’Enrico Berlinguer che, al di là della rivendicazione di una diversità morale, marchiò Bettino Craxi come «un pericolo per la democrazia» e di quel Massimo D’Alema che ammiccava: «Diciamo che non son mai stato un socialista italiano. Sono diventato direttamente un socialista europeo».

L’esercizio più arduo, però, era il quarto: fare digerire questo continuo appello al socialismo, nominato e invocato nelle sue varianti 31 volte, a chi nella Margherita ha già detto e ridetto di non avere alcuna intenzione di entrare nel Pse e men che meno nell’Internazionale Socialista. Anche se per il segretario diessino «già oggi è costituita per quasi metà dei suoi 185 partiti da forze di ispirazione culturale diversa dall’esperienza socialista». Esempio? Il Partito del Congresso Indiano e il Partito dei Lavoratori di Lula. Due esempi, come dire, esotici. Basteranno? Francesco Rutelli dice che risponderà oggi. Ma potete scommettere che da qui all’appuntamento fondante della prossima primavera, che appare lontana lontana, il tema sul tappeto resterà questo.

20 aprile 2007


 

Il Secolo XIX 20-4-2007 E dirà "Addio".

 

Roma. Questa mattina, Fabio Mussi salirà ancora una volta, sul palco di un congresso del "suo partito" (che fu prima il Pci, poi si chiamò Pds e che ora è Ds), leggerà la sua relazione. Dopo quarant'anni non avrà più una casa politica: a 59 anni, il ministro dell'Università e della Ricerca, amico e collega di studi di Massimo D'Alema fin dal liceo e dai tempi della Fgci, collaboratore di Piero Fassino da almeno un decennio, scriverà la parola "fine" ad un'esperienza politica. La decisione è stata presa, all'unanimità, mercoledì sera, in una riunione di tutti i 250 delegati della "seconda mozione", a Roma: nessun membro dell'ex correntone accetterà di partecipare ai lavori congressuali, di fatto ponendosi fuori dal nuovo Partito democratico. Tecnicamente si dovrebbe dire scissione: "Ma non è così. Si sta fondando un nuovo partito - ha protestato ancora ieri pomeriggio, Mussi, nella platea del congresso - che io non sento come mio ed in cui non entrerò. Non sto rompendo un partito che già esiste". L'interrogativo di queste ore, però, è: le parole di Piero Fassino, visibilmente commosso dal palco ("Caro Mussi, spararsi non risolve i problemi") sono riuscite a fare breccia? Non certo in Mussi: "Il segretario - ha spiegato - ha fatto un appello toccando corde profonde che sono quelle dell'amicizia personale. Ma non mi pare che ci siano le condizioni politiche per ripensarci. Il Pd cancella, persino dal proprio simbolo e dal nome le insegne del socialismo e della sinistra!". E quanti lo seguiranno? Tutti i 250? Ai rappresentanti della sinistra dei Ds, Mussi, l'altra sera, ha spiegato che il discorso che farà oggi sarà il più difficile della sua vita. "Già nel 2000 rispondemmo di no a Parisi che ci invitava a scioglierci in una grande sinistra ed in un grande Ulivo. Ora - ha spiegato il ministro dell'Università - l'Ulivo è molto più piccolo di allora, e la sinistra è addirittura sparita. Nel 2001, in effetti, vidi al congresso di Pesaro una china che puntava dritto verso un approdo sbagliato. Non possiamo accettare che scompaia la sinistra dalla geografia politica italiana". Quello che resta, invece, molto incerto è l'approdo verso cui punta la "seconda mozione". Ieri, da Rifondazione comunista, è arrivato un invito pressante: "A giugno ci sarà un'assemblea di tutta la sinistra europea. Aspettiamo Mussi, perché rispettiamo le sue scelte, e siamo pronti ad avviare un confronto con lui - ha fatto sapere il segretario del Prc, Franco Giordano -. Anche noi abbiamo interesse a costruire un soggetto pacifista ed antiliberista". "Per me oggi è una giornata molto triste - concorda anche il segretario dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto -. Finisce un tormentatissimo travaglio che ha portato il pezzo più rilevante di quello che fu il Pci, ad uscire definitivamente dalla sinistra". In realtà, l'idea cui si sta lavorando è molto più complessa che una semplice migrazione di esponenti della sinistra della Quercia verso gli altri partiti di sinistra, da Rifondazione al Pcdi. Il progetto prevede la nascita di un vero e proprio nuovo soggetto politico: una sorta di "superpartito" della sinistra che raccolga da Mussi a Bertinotti, passando per Diliberto e, forse, anche per Boselli. Secondo alcune indiscrezioni si sta lavorando ad una soluzione già sperimentata in Germania dall'ex esponente socialdemocratico, Oskar Lafontaine. In tedesco il partito si chiama semplicemente "Die Linke", ovvero "La sinistra", ed ha raccolto non solo i socialisti tradizionali, ma anche gli ex comunisti della Ddr. Una cosa simile, in Italia, potrebbe fare la stessa cosa. E Fabio Mussi, secondo una sorta di minisondaggio interno, risulterebbe il più gradito alla segreteria di questa "nuova cosa"; anche perché Fausto Bertinotti ha fatto capire che, dopo l'esperienza di Presidente della camera, considera chiusa la sua carriera parlamentare. Un altro prezioso indizio è la nascita di due nuove testate. La prima ad apparire sarà"Alternative per il socialismo": arriverà a maggio (appena prima dell'assemblea della sinistra europea) e Bertinotti ne sarà il direttore. La seconda iniziativa editoriale è ancora tutta da definire: di certo c'è solo l'intestazione, "Il Progressista" che dovrebbe fare da contraltare a "Il Riformista". Ma si tratta di tempi lunghi. E, in ogni caso, il governo Prodi deve restare fuori da questo terremoto che si annuncia nel centrosinistra: "La nascita del Pd e le conclusioni di questo congresso, non devono spostare di una virgola la questione politica della stabilità del governo. Si deve continuare a lavorare per trovare le intese all'interno di questa coalizione"è l'ultima assicurazione che Mussi lascia, in eredità, al suo ormai ex partito. Angelo BocconetTI 20/04/2007.


 

Europa 20-4-2007  Bene, Ds e Dl. Ora però ditelo agli italiani

Dunque Piero Fassino ha mollato gli ormeggi. Mussi scuoteva la testa, Angius sorrideva appena, i giornalisti cronometravano gli applausi per Finocchiaro o Bersani, Schultz avrebbe tentato di far danni un’altra volta con quella fissazione dell’obbligo di iscrizione al Pse.
Tutti si interrogavano – as usual – su cosa vuole fare D’Alema. Va bene: un po’ sono i riti prevedibili di un’assise di partito, un po’ è la politica che scorre sempre e non si ferma a celebrare se stessa. Nello sminuzzamento della cronaca congressuale, andando in giro a distinguere quercia da quercia, si rischia però di perdere di vista la foresta. Di perdere di vista il Fatto, che poi sarebbe un evento a suo modo storico.
Al termine dello stradone che taglia in due il PalaMandela c’è un segretario piegato sul leggio che si conferma per quello che è: un ottimo mediano, l’instancabile e indistruttibile lavoratore del centrocampo ulivista, l’uomo che recupera palloni e tiene insieme i reparti.
Ma alla fine della strada c’è soprattutto il completamento di una vicenda.
D’ora in poi non sarà più Pci- Pds-Ds, non potrà ripeterlo neanche quel Berlusconi che a Firenze s’è preso applausi molto democratici.
Non era detto che andasse così.
Poteva esserci più continuismo, nella conduzione di questa transizione al Pd. Poteva esserci – come fu nel ’90 – l’estenuante tentativo di non perdere neanche un frammento, fino a smarrire il senso stesso di quello che si stava facendo.
È chiaro ed è comprensibile: la platea di Firenze non vuole la scissione.
Ma perché non capisce «dove vogliono andare quei compagni », non perché avrebbe preferito che Fassino rimanesse fermo. Lo sa bene anche D’Alema, che non reciterà qui la parte molto sincera e un po’ perfida riservata a Occhetto tanti anni fa. A modo suo, da oggi a Cinecittà anche alla Margherita tocca dare una risposta di discontinuità. Certo, il bagaglio è meno ingombrante, il partito da superare è leggero e già lo si sospettava transitorio. La platea fiorentina però sta affrontando un passaggio difficile, dunque merita di vedere un analogo sforzo dall’altra parte. Non solo o non tanto sui soliti temi sensibili – la laicità, i rapporti internazionali – quanto sulla generosità di mettersi a disposizione. Di riconoscere i limiti di ciò che si è fatto e di ciò che si è. Di vincere quell’invincibile e indicibile sensazione di un’operazione fatta solo perché si deve, non perché ci si creda davvero.
Perché se Firenze fin qui ha un limite, che Cinecittà può aiutare a superare, è questo: si parla ancora agli iniziati e agli interessati, non si è cominciato a “parlare” davvero agli italiani. È arrivato il momento di spiegare a loro, e con parole adatte, ciò che Fassino ieri ha ripetuto ai suoi delegati: questo partito nuovo serve all’Italia. D’accordo, non c’è dubbio. Ma l’Italia, lo sa?


 

L’Unità 20-4-2007 Turchia-Ue, Prodi: la strage non aiuta Ankara "a disagio", la stampa critica il lassismo del governo verso i gruppi fondamentalisti L'Europa condanna.

 

Dieci fermati: "Abbiamo agito per la patria, è una lezione ai nemici dell'Islam" di Marina Mastroluca DIECI PERSONE FERMATE, tutti giovani intorno ai vent'anni. Qualcuno avrebbe anche fatto le prime ammissioni. "La religione si sta perdendo. Che il nostro gesto sia una lezione ai nemici della religione". Un brutto colpo per il governo turco, solo pochi giorni fa Erdogan aveva sollecitato Angela Merkel ad indicare una data per l'ingresso nella Ue. Oggi la preoccupazione di Ankara è palpabile, lo stesso Erdogan teme ripercussioni, anche perché una delle vittime era un tedesco. "Un crimine orrendo", l'Europa condanna e chiede che i responsabili siano assicurati alla giustizia. Ma tende una mano alla Turchia. "Non è un atto organizzato dal governo, ma un atto criminale che è stato già duramente condannato dal premier Erdogan", fa sapere un portavoce. Da Seul, il premier Romano Prodi sollecita Ankara ad una maggiore sorveglianza. Ma è costretto ad ammettere che questo clima "certo non aiuta il cammino" della Turchia verso l'Europa, anche se chiede di "non farsi influenzare da tragedie come queste". "Bisogna vedere come reagirà la società turca", aggiunge il presidente del Consiglio. Tre cristiani sgozzati, colpevoli di lavorare nella casa editrice che stampa la Bibbia. "L'incubo continua", titola il quotidiano turco Milliyet, mentre diverse testate chiamano in causa il lassismo del governo nei confronti del fondamentalismo islamico, ricordando l'omicidio di don Santoro e del giornalista turco armeno Hrant Dink. La piccola comunità cristiana si interroga, ha paura, qualcuno come il pastore Behnan Konutgan traccia un filo conduttore tra l'insofferenza di certi leader politici islamici verso i missionari cristiani e le violenze ripetute. Il governo di Ankara si confessa "a disagio". "Eventi del genere si stanno ripetendo e danneggiano l'immagine della Turchia nel mondo", dice il ministro degli esteri Gul, annunciando che il governo "prenderà da ora in poi misure più vaste". "Condanniamo con forza l'attacco che ha incrinato la tranquillità della Turchia e la lunga tradizione di tolleranza e stabilità - afferma il ministro -. Sull'eccidio sarà fatta piena luce". La pista più accreditata è quella ultrafondamentalista islamica, venata di nazionalismo. Chimati in causa gli Hezbollah turchi, un'organizzazione che non ha nulla a che vedere con quella libanese, ma si indaga anche su altre sigle, finora sconosciute. "Siamo in cinque legati da fratellanza. Andiamo alla morte. Forse non torneremo più. Pregate per noi. Dio ci condoni i nostri debiti, l'abbiamo fatto per la patria": è il messaggio trovato nelle tasche di alcuni dei giovani arrestati, probabilmente indirizzato alle famiglie. Almeno cinque degli arrestati, studenti iscritti ad un corso pre-universitario, alloggiavano in un ostello gestito da una fondazione fondamentalista, "Ilhas". Uno del gruppo, probabilmente il capo, Emre Gunaydin, era stato cacciato il mese scorso dall'ostello: sembra che sia lui l'uomo trovato gravemente ferito sul selciato, dopo essersi buttato, o forse caduto, da un cornicione subito dopo la strage, forse per sfuggire alla cattura. L'eco della tragedia di Malatya è inevitabilmente arrivata in Europa, rilanciando le perplessità di quanti già osteggiavano l'ingresso della Turchia nella Ue. Voci polemiche in Italia e anche in Germania, dove la Cdu non è mai andata oltre al riconoscimento di una partnership privilegiata con Ankara, e nella Francia di Sarkozy. "È chiaro che tutti gli stati sono tenuti a rispettare i diritti umani fondamentali, in particolare la libertà di religione", ha voluto sottolineare la Ue, escludendo che la strage possa chiudere definitivamente le porte dell'Europa alla Turchia.

 


 

Il Sole 24 Ore 19-4-2007  Evade il fisco il 50% dei medici in intramoenia «Centinaia di medici nel mirino del Fisco.

 

Da Udine a Catania: non fanno ricevute e truffano la Asl». In una nota dell'Agenzia delle Entrate trasmessa al Senato si legge: «La mancata emissione delle fatture risulta mediamente intorno al 30- 40 per cento, con picchi superiori al 50 per cento». La notizia sarà pubblicata domani dal settimanale l'Espresso che ha realizzato un servizio su camici bianchi e soldi neri. Finora le verifiche hanno riguardato cento medici siciliani, settanta laziali, quindici liguri e, nelle ultime settimane, 18 studi del Friuli Venezia Giulia. A breve partiranno gli accertamenti in Campania e poi nelle altre regioni italiane. 
«C'è il cardiochirurgo che dichiara 12 visite in un anno. - si legge nell'anticipazione - C'è il ginecologo che in cassa dall'attività intramoenia 500 euro al mese, meno dell'affitto del suo studio. E non manca il primario con il dono dell'ubiquità: risulta virtualmente in ospedale, ma contemporaneamente visita nel suo centro privato. C'è tutto il nero sotto il camice bianco nelle indagini sull'evasione fiscale dei medici nel settore dell'intramoenia». Su 250 verifiche eseguite in Sicilia, cento sono risultate «positive» per un totale di un milione e 380 mila euro di imposte evase. E stiamo parlando di controlli mirati su una percentuale minima di camici bianchi. In Liguria, per esempio, otto medici su 15 sono risultati evasori. 
Mentre l'Agenzia delle entrate avvia i controlli in Liguria, Friuli, Lazio e Sicilia, anche la Guardia di Finanza completava una serie di verifiche su tutto il territorio nazionale con esiti ancora più allarmanti: su 172 medici controllati nel biennio 2005-2006, ben 104 non rilasciavano le ricevute. 
L imposta evasa sull'attività intramoenia, da Macerata a Bari, da Battipaglia a Torino, da Cosenza a Lucca, da Giulianova a Lecce, supera i 614 mila euro

 


Il Riformista 20-4-2007 LA PARTITA TELECOM Fratelli d'Italia il Cavaliere s'è desto. 

«Noi siamo stati semplicemente richiesti nel caso di una cordata italiana e il mio gruppo ha detto che per mantenere l'italianità di un'azienda così importante siamo disponibili a parità di intervento di altri imprenditori». L'azienda così importante si chiama Telecom; il gruppo che si muove a compassione per il rischio di perdere l'italianità è Fininvest-Mediaset; il dichiarante, naturalmente, è Silvio Berlusconi.
Dopo giorni di voci e smentite, di ipotesi e suggestioni, è direttamente il fondatore del Biscione a esporre la posizione del gruppo, scegliendo con cura platea e parole. È stato un imprenditore esperto e un politico assai accorto, infatti, il Silvio Berlusconi che così ha parlato, rispondendo alle domande dei cronisti, prima di godersi lo spettacolo dell'ultimo congresso dei Ds dal posto in prima fila riservatogli. L'interesse dell'imprenditore Berlusconi per un pezzettino sinergico di Telecom è così arrivato forte e chiaro a una platea diessina che, nei giorni scorsi, è riuscita ad agitarsi da subito, appena il suo nome è stato accostato alla Telecom di domani. Naturalmente, quella stessa platea, quello stesso mondo politico, di fronte all'ipotesi di un suo ingresso - anche laterale o marginale - nel nocciolino italiano che potrebbe essere domani, ha già mostrato, ieri, di potersi sgretolare in mille pezzi ancora una volta. Come sempre quando c'è di mezzo il Cavaliere e il suo conflitto d'interessi. 
Ma il vero capolavoro tattico di Silvio sta tutto in una parola: italianità. Basta raccogliere e antologizzare tutte le dichiarazioni di governo e maggioranza, da Romano Prodi fino all'ultimo sottosegretario, da Massimo D'Alema fino all'ultimo peones, per capire che il Cavaliere, come quasi sempre, ha preso bene la mira. Telecom? Un'azienda strategica che deve restare italiana. Telecom? Un patrimonio di questo paese che non possiamo permetterci di perdere. Telecom? Una grande e redditizia azienda che non può non fare gola alla nostra imprenditoria. Al netto del mercatismo internazionalista di Daniele Capezzone, o dell'acuta osservazione sulla «italianità di Tavaroli» di Emma Bonino, insomma, un coro a mille voci che canta Fratelli d'Italia sulle reti telefoniche. 
E così, carico dell'italianità di tutto il centrosinistra, e anche e soprattutto di quella del premier, Silvio Berlusconi ha buttato sul tavolo una fiche pesantissima. Perché dopo settimane di tam-tam tricolore, lungo l'affaticata cinghia di trasmissione che ancora parte dai vertici per arrivare alla base della sinistra italiana, l'argomento non si può smontare con due parole veloci sul Cavaliere né, tantomeno, sul suo sempre verde e mai affrontato - pesa quasi ripeterlo ancora una volta - conflitto d'interessi. A contattare il gruppo nell'affannosa ricerca di costruire una filiera italiana decente, peraltro, sarebbe stata direttamente Intesa-Sanpaolo, non certo una banca antiprodiana.
Poi, naturalmente, c'è l'interesse di un gruppo, Mediaset, a mettere le mani su nuovi asset strategici, a sviluppare concretamente sinergie positive per un futuro industriale che altrimenti non sarebbe poi così roseo, magari a portarsi a casa Alice per far correre su internet i suoi contenuti e, semmai tra poco, quelli accresciuti dall'eventuale acquisto di Endemol per cui sta lavorando in Spagna. Mosse strategiche importanti, per il più grande gruppo televisivo italiano - sottolineiamo: italiano - che mira probabilmente a darsi un futuro competitivo sulle tecnologie che decideranno domani, spendendo assai meno di quanto costerebbe, sul mercato. E contribuendo in modo importante a lasciare in mani italiane - italiane - la prima azienda di tlc, cioè la Telecom. Tutti contenti, fratelli d'Italia?


 

Il Corriere della Sera 19-4-2007 In Tibet la prima neve artificiale Esperimento riuscito con successo nella regione cinese

 

Il test dimostra che è possibile cambiare il clima attraverso l'intervento dell'uomo

PECHINO - In Tibet non è la prima volta che nevica fuori stagione, ma è la prima volta che nevica a telecomando. Da Lhasa (Tibet) è giunta la notizia che nel Nord del Tibet sono state create con successo precipitazioni artificiali di neve.

L'ESPERIMENTO - Il 10 aprile scorso il dipartimento meteorologico della Regione Autonoma del Tibet ha effettuato un esperimento per creare artificialmente precipitazioni nevose. La notizia del successo è stata comunicata solo oggi. Approfittando delle condizioni meteo favorevoli con un anticipo di 6 ore rispetto alle previsioni, sono state create le condizioni necessarie a far nevicare. Non è stato spiegato quale metodo abbia portato all'incredibile risultato. La contea di Naqu, dove è stato condotto l'esperimento, è stata coperta da un manto nevoso spesso 1 cm, risultato di una precipitazione moderata di 2.2 mm di neve.

I RISVOLTI - Yu Zhongshui, ingegnere del dipartimento Meteo del Tibet, ha sottolineato la difficoltà dell'esperimento nel creare una condensazione di vapore acqueo sufficiente a far nevicare sull'altopiano più alto del mondo. Ha poi aggiunto: «Provocare nel Nord del Tibet precipitazioni a carattere piovoso-nevoso può risolvere favorevolmente le situazioni di siccità che si vengono a creare nei mesi estivi». Questo fatto può dare un sostegno importante all'industria locale legata all'allevamento del bestiame, che subisce notevoli danni dalla siccità annuale che colpisce i terreni coltivati a erba in altura. I tecnici cinesi hanno voluto spiegare come l'esperimento dimostri che l'intervento dell'uomo può cambiare il clima sul Tetto del Mondo.

Vittorio Patrucco

19 aprile 2007


 

Gazzetta del Sud 20-4-2007 Sale operatorie Strumenti cinesi insicuri

 

ROMA  Non solo errori umani o di eventuale imperizia: in sala operatoria il pericolo può arrivare anche da paesi emergenti come la Cina o la Corea. A causa della politica di risparmio imposta dall'ultima Finanziaria, infatti, iniziano a diffondersi strumenti chirurgici fabbricati nei Paesi asiatici e scelti solo perché meno costosi, senza che il chirurgo abbia parola in merito. A lanciare l'allarme è la Società italiana di chirurgia (Sic) in occasione della presentazione del VII Convegno di Primavera, aperto ieri a Roma. Suturatrici, strumenti per la laparoscopia, forbici, bisturi ma anche tecnologie come valvole cardiache e pacemaker, ha affermato il presidente Sic Roberto Tersigni, "se scelti solo in base al costo nell'ottica di un risparmio per il Servizio sanitario nazionale, potrebbero non possedere i requisiti qualitativi necessari e rappresentare quindi un fattore di rischio elevato per i pazienti". Questi strumenti fabbricati in Paesi non tecnologicamente evoluti e il cui costo di produzione è un terzo di quello degli analoghi dispositivi medicali prodotti in Paesi a elevata tecnologia, ha infatti spiegato l'esperto, "è probabile che non rispettino quei criteri di appropriatezza fondamentali per la gestione degli interventi chirurgici". Il pericolo è dunque "scritto" nella Finanziaria 2007, e il pericolo è concreto perché, mettono in allerta i chirurghi, questi strumenti sono già in circolazione. (venerdì 20 aprile 2007).


INDICE 19-4-2007

 

+ AgenParl 19-4-2007 CONGRESSO DELLA MARGHERITA: IO RESTO, SONO LORO CHE SE NE VANNO

+ AgenParl 19-4-2007 CASINI SPINGE PER IL DDL LANZILOTTA. PUNTANDO AL GRANDE CENTRO

+ Il Sole 24 Ore 19-4-2007Sfida su Telecom tra Telefonica e AT&T di Michele Calcaterra

+ La Padania 19-4-2007 L’eccesso di potere. ROBERTO SCHENA

L’Unità 19-4-2007 Legge intercettazioni. Al Cittadino non far Sapere Marco Travaglio

Il Corriere della Sera 19-4-2007 La nuova formazione del centrosinistra Il partito americano di  Paolo Mieli

Bresciaoggi 19-4-2007 Telecom, scontro Bertinotti-industriali Altre accuse Ue: in Italia spinte protezionistiche

Milano Finanza 19-4-2007 MF Bernabè, quell'opa fu un errore. Meglio i private equità. Stefania Peveraro.

Il Giornale di Brescia 19-4-2007 L'Europa resta ai margini del dibattito politico LA CORSA PER L'ELISEO SARKOZY, ROYAL E BAYROU D'ACCORDO NEL RILANCIARE LE TRATTATIVE PER LA COSTITUZIONE UE

Europa 19-4-2007 Ancora polemiche su Moro: ma fummo tutti a non volere la capitolazione dello Stato FEDERICO ORLANDO RISPONDE

Il Secolo XIX 19-4-2007 A TRE GIORNI DAL PRIMO TURNO DELLE PRESIDENZIALI Milioni di elettori cambiano idea in continuazione o non dicono il vero Parigi. Gabriele Parussini

 


+ AgenParl 19-4-2007 CONGRESSO DELLA MARGHERITA: IO RESTO, SONO LORO CHE SE NE VANNO

 

Roma, 19 Aprile 2007 – AgenParl – Come la Quercia, anche la Margherita, il cui congresso inizia domani a Roma nello Studio 5 di Cinecittà, perderà radici e petali: le radici per creare le fondamenta del Partito Democratico; i petali perché non a tutti vanno bene queste fondamenta.
Infatti, diversi suoi esponenti, paventando un Anschluss e quindi un’annessione piuttosto che una fusione, sono sul chi va là, in attesa degli eventi per definire le loro decisioni.
In sostanza temono che la costituzione del nuovo partito si risolva con un assorbimento della Margherita da parte della Quercia.
Ad esternare questi timori, è in primo luogo uno dei leader storici della ex DC, Ciriaco De Mita. Il quale ci ha confermato che sarà presente al congresso e aderirà al PD “provvisoriamente” in attesa di verificare se si riuscirà a scongiurare il pericolo di un’egemonia dei DS.
Questi timori sono avvalorati dal fatto che mentre gli epigoni del Pci hanno conservato una struttura solida e ben articolata, la Margherita ha una conformazione partitica più moderna ma, come tale con una base più fragile.
Ma se De Mita ed altri sono tuttora indecisi e quindi in attesa di eventi, categorico, avendo già definita la sua posizione, è Gerardo Bianco. L’ex dirigente Dc, attualmente leader del Movimento Popolare che ha raccolto l’eredità del Ppi, ha dichiarato all’AgenParl “io resto, sono loro che se ne vanno”.“Tuttavia” – “ ha aggiunto –“ al congresso ci sarò, ma come osservatore”.
Le motivazioni di Bianco condivise da altri ex Dc, si fondano soprattutto sulla incompatibilità di convivere con quanti, anche se cattolici, accettano il “relativismo” che porta a commistioni che in un modo o nell’altro allontanano dalla dottrina cristiano-popolare.

 

 

+ AgenParl 19-4-2007 CASINI SPINGE PER IL DDL LANZILOTTA. PUNTANDO AL GRANDE CENTRO

 

Roma, 19 Aprile 2007 – AgenParl – Pierferdinando Casini si dice pronto a sostenere il disegno di legge del ministro Linda Lanzillotta sulla privatizzazione dei servizi locali.
Così sembra che il leader dell’Udc getti nuovamente l’amo. Spera che il suo invito sia accolto dai centristi dell’Unione, specie la Margherita.
Non poco tempo fa, infatti, anche Francesco Rutelli aveva bacchettato il resto della coalizione per aver “accantonato” il ddl, invitando il premier Prodi a smuovere le acque.
I provvedimenti richiesti dalla Lanzillotta – viene fatto notare all’AgenParl – pare vadano in una precisa direzione: l’adozione di politiche liberiste, ben oltre la “lenzuolata” di Bersani. Questo lo sa bene il capo della Confindustria Montezemolo, il quale non a caso ha “invogliato” il governo a portare avanti tali misure, sconfiggendo le resistenze della “sinistra frenatrice”.
Casini si pone sulla stessa lunghezza d’onda del leader industriale. Attacca frontalmente la sinistra alternativa, dando alla Margherita una facile sponda. E la soluzione del problema: il suo appoggio sostitutivo a quello degli “antiliberisti”.
Insomma continua la road map dell’Udc, che continua a cercare intese programmatiche con i moderati dell’Unione in modo da approdare al suo progetto: la creazione di un “grande centro” nel Paese con l’esclusione della sinistra alternativa. Il ddl Lanzillotta porterebbe acqua al mulino.(G.R.S.)

 

 


+ Il Sole 24 Ore 19-4-2007Sfida su Telecom tra Telefonica e AT&T di Michele Calcaterra

 

MADRID. Dal nostro corrispondente
Telefonica torna in campo su Telecom Italia. E AT&T, che si era chiamata fuori dalla partita, detta ora le condizioni per riesaminare il dossier: «Se la politica deciderà di fare un passo indietro - ha detto ieri sera a Boston Randall Stephenson, direttore operativo del colosso americano delle tlc - potremmo tornare a valutare l’operazione: le resistenze politiche hanno bloccato l’accordo e oggi c’è troppa incertezza per investire in Italia. Telecom è una buona società con ottimi asset e grande capacità nel wireless: se le interferenze politiche cesseranno e se ci sarà un’altra opportunità per trattare, lo faremo».
Il caso Telecom Italia continua dunque a riservare colpi di scena. E i prossimi giorni non saranno da meno. Al tavolo negoziale di Pirelli (i cui soci si riuniranno lunedì in assemblea) potrebbe infatti tornare a sedersi non solo AT&T, ma anche Telefonica, che proprio con la Bicocca aveva siglato un memorandum of understanding a fine gennaio. L’accordo con gli spagnoli naufragò per l’opposizione dell’allora presidente di Telecom Italia Guido Rossi. Ora lo scenario è cambiato, in Telecom c’è un nuovo consiglio d’amministrazione e un nuovo presidente e gli spagnoli sembrano intenzionati a tornare all’attacco.
Secondo il quotidiano madrileno «el Economista», infatti, Telefonica è sul punto di formalizzare un’offerta per il 66% di Olimpia — la stessa quota cui puntavano AT&T e America Mòvil — che valuterebbe Telecom Italia attorno ai 3 euro per azione contro i 2,92 proposti dalla cordata «Tex-Mex». L’offerta sarebbe ancora al vaglio dei vertici del gruppo spagnolo e delle banche coinvolte nella vicenda e una decisione potrebbe essere presa nel giro di pochi giorni. Tra l’altro, secondo fonti interpellate da Il Sole 24 Ore, Telefonica avrebbe preso anche in considerazione la possibilità di un’Opa su Telecom Italia, operazione estremamente costosa — e forse improbabile — ma che avrebbe un miglior impatto di immagine sul mercato (e sul Governo italiano) e soprattutto sugli azionisti di minoranza, che nel caso di un’offerta sulle sole quote di Olimpia sarebbero invece tagliati fuori.
Per saperne di più bisognerà dunque aspettare. E in ogni caso, gli ostacoli a un accordo sono molti. Sempre secondo il quotidiano madrileno, Telefonica avrebbe infatti posto paletti e cioè che le attività di Telecom Italia in Argentina e in Brasile non vadano a Carlos Slim, l’imprenditore messicano proprietario di America Mòvil e anch’egli interessato al gruppo italiano. In cambio, Telefonica sarebbe intenzionata a lasciare in mano italiana la gestione della società, diventando il solo partner industriale. Telefonica non ha commentato le indiscrezioni. Fonti vicine al gruppo hanno però sottolineato che i negoziati stanno avanzando e che da parte di Telefonica esiste un concreto interesse a concludere positivamente l’operazione.
Difficile comunque dire a che punto stiano le cose. Se Telefonica sembra intenzionata a non lasciarsi scappare la ghiotta occasione, Pirelli starebbe valutando la situazione e le differenti opzioni sul tappeto: da quella messicana (ieri il gruppo di Slim ha risposto con un «no comment» alle indiscrezioni su un possibile ritiro dell’offerta) a quella tedesca e francese. Senza contare il fatto che per dipanare la complicata matassa è necessario che si pronuncino anche altri importanti attori, a cominciare da Mediobanca. Inoltre, si attendono notizie sul futuro della rete e quindi di un asset che non è certo secondario quando si valuta un’azienda tlc. Le schiarite su questi fronti potrebbero comunque giungere in tempi brevi.
Di certo, per ora, c’è solo il nuovo quadro di riferimento. Il fatto che il vertice di Telecom Italia sia stato rinnovato con l’arrivo di Pasquale Pistorio, denota la volontà del principale socio del gruppo di arrivare a un esito positivo della vicenda. Pistorio è un manager di cultura internazionale, abile nelle trattative, che ha guidato con successo e portato ai vertici mondiali Stmicroelectronics: conosce i valori in campo e sa qual è il miglior futuro per Telecom Italia.
Per quanto riguarda infine Telefonica, va ricordato che il gruppo guidato da Cesar Alierta, nonostante l’indebitamento di oltre 50 miliardi di euro è un’azienda sana, con ottimi risultati e senza alcun problema nel reperire i mezzi per l’investimento in Italia. Tenuto conto anche del fatto che in vendita c’è il 75% della controllata Endemol ed eventualmente la partecipazione del 10% in Portugal Telecom. Per un totale di circa 4 miliardi di euro.

 

IL CONFRONTO

 

Telefonica - Un colosso internazionale 
Telefonica è uno dei colossi mondiali del settore delle telecomunicazioni, presente in Europa, Africa e America Latina. La compagnia è caratterizzata da una marcata impronta internazionale: il 60% delle sue attività è infatti generato al di fuori della Spagna.
Costituita nel 1924, Telefonica aveva a fine 2006 più di 44 milioni di clienti in Spagna, in America Latina raggiunge 114,5 milioni di clienti. Ed è proprio quest’ultimo mercato il più interessante in prospettiva: alla fine dello scorso dicembre era l’operatore leader in Brasile, Argentina, Cile e Perù e fra i principali protagonisti in Colombia, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Messico, Nicaragua, Panama, Portorico, Uruguay e Venezuela.
Con 83 miliardi di euro capitalizzazione di mercato, il gruppo raggiunge il quinto posto al mondo nel settore delle tlc, ed è all’ottavo posto globale nella classifica Eurostoxx 50.
I conti 2006 hanno evidenziato una crescita sostenuta di utili e ricavi: i profitti hanno raggiunto 6,2 miliardi di euro (+40,2%) e il fatturato ha sfiorato i 53 miliardi (+41,5%).

 

America Mòvil - Un colosso in crescita 
Nata alla fine del 2000, America Mòvil è oggi l’azienda di servizi di telecomunicazioni wireless più grande dell’America Latina e il quinto provider del settore nel mondo, con circa 125 milioni di abbonati. America Mòvil possiede un totale di circa 128 milioni di linee, di cui 2,9 milioni di rete fissa.
In questi anni il numero degli abbonati di America Mòvil è costantemente cresciuto, con una media annua del 40%; parallelamente, le quote di mercato di sono cresciute da quasi il 20% nel 2000 al 45% nel 2006. 
Il numero di abbonati e l’utenza hanno guidato la grande crescita di fatturato, di Ebitda e di profitti di America Mòvil. Il fatturato (21,4 miliardi di dollari nel 2006) è aumentato in media - e in modo costante - di circa 37% ogni anno dal 2000 al 2006, mentre l’Ebitda è aumentato di 11,5 volte nello stesso periodo, fino ad arrivare a 7,8 miliardi di dollari nel 2006.
La capitalizzazione di mercato è di 88 miliardi di dollari.

 

+ La Padania 19-4-2007 L’eccesso di potere. ROBERTO SCHENA

 

 I sondaggi gli attribuiscono un magro 23 per cento; a parte i Ds che ci credono e la Margherita, alla Camera e al Senato, come nelle segreterie dei partiti non pensano che possa funzionare. Eppure, i poteri forti dell economia non stanno scherzando: da anni puntano tutte le loro carte sul partito democratico e finalmente ci sono riusciti a metterlo in piedi. Un progetto simile non può fallire. Chiunque si muova al di fuori del Pd, corre il rischio di sottovalutare la forza della nuova macchina , priva di precedenti. Quando si dice che il Partito democratico sarà grande nei numeri forse non si ha davvero idea di che cosa si sta parlando. L attuale coalizione di Governo non è che un assaggio della più grande concentrazione di potere economico, sociale e politico mai vista in Italia e probabilmente in Europa. Come nemmeno la Dc nei suoi anni migliori si sognava. Sedi di partito, iscritti, amministratori pubblici, municipalizzate, utilities, sindacalisti, cooperative, banche, consigli di amministrazione: col partito democratico il centrosinistra può moltiplicare la sua influenza, estendere esponenzialmente la rete di potere. Intanto, la fusione dei due partiti, Ds e Margherita, comporta un radicamento profondo della consistenza numerica. Sommati insieme, gli iscritti Ds e Margherita raggiungono la considerevole somma di 816 mila (555 mila iscritti Ds, più i 261 mila della Margherita). Tanto per dare un idea delle distanze, Forza Italia conta circa 400 mila iscritti, Rifondazione 93 mila. Attualmente, un solo partito ha più iscritti dei Ds in Europa: la tedesca Spd. Ma con la fusione nel Pd, i socialdemocratici tedeschi sarebbero lasciati indietro di un bel pezzo, nonostante la Germania conti 24 milioni e mezzo di abitanti in più dell Italia. È pur vero che nei Ds una grossa fetta del partito non è disponibile alla fusione con la Margherita ma al di là delle dichiarazioni e dei buoni propositi anche a sinistra chiunque abbia una posizione da difendere - gli amministratori pubblici in primis - si guarderà bene dal rischiare di perderla iscrivendosi in altri partiti. Inoltre, la diminuzione degli iscritti dovuta alle rinunce diessine (che quasi certamente saranno meno del previsto) potrà essere compensata da nuove interessate adesioni esterne. In ciò che non può l ideologia, riesce il potere. La fusione avrà come obiettivo conseguente la cosiddetta ottimizzazione delle risorse . Ovunque, una segreteria al posto di due, meno sedi, meno fatture da pagare, meno funzionari. Sarà anzi l occasione di un repulisti interno. Per quanto riguarda i rimborsi elettorali, Ds e Margherita si sono sempre aggiudicati i quattro quinti della somma destinata all Ulivo: si tratta nel complesso di circa 15-17 milioni a botta, amministrative o politiche che siano. Una montagna di soldi, considerato che l Ulivo riesce a spendere molto meno della Cdl ottenendo lo stesso effetto propagandistico. Secondo Francesco Forte, uno dei massimi esperti di finanza e analisi economica, "i ds che contano su un ampia macchina editoriale amica, costituita da giornali (anche tramite il sindacato dei giornalisti), case editrici, librerie nel 2005 hanno speso solo 16 milioni di euro", quando Forza Italia ha dovuto spenderne il doppio. Continua Forte: "E la Margherita che è il beniamino del maggior complesso editoriale-industriale-bancario italiano e può contare su uno stuolo d intellettuali che la sostengono, nella pubblica opinione, coi media della stampa, le informazioni internet, i sondaggi d opinione, i convegni (ripresi dai media) e le opere librarie, in evidenza nelle librerie dei gruppi amici è riuscita a cavarsela con 9,7 milioni". An, che ha le stesse percentuali elettorali della Margherita ma non ha alcun sostegno di lobbies editoriali, ha speso, per propaganda e servizi, 17,6 milioni, più dei ds e il doppio della Margherita. Inoltre, ci sono i finanziamenti pubblici alle testate di partito: in teoria, lo Stato dovrebbe fornirli a una sola testata quodidiana per partito, quella considerata l organo ufficiale, e anche il Pd dovrebbe averne a disposizione una sola (l Unità o Europa? Sarà curioso vedere che ne sarà della testata fondata da Gramsci), ma in pratica ci sono giornali veri di partiti veri e giornali veri di partiti falsi, quando non addirittura testate false per partiti veri e testate false per partiti falsi. Chi egemonizzerà la base del Pd? Sarà prevalentemente cattolica o laica? Un discorso a parte merita l associazionismo dell Arci e delle Acli. Ramificate in ogni settore riguardante lo sport, la cultura e il tempo libero, rappresentano in assoluto i maggiori network culturali del Paese e da sempre sono un formidabile serbatoio elettorale. Ai Ds e in parte a Rifondazione comunista è legato l Arci, alla Margherita le Acli. Contano rispettivamente circa un milione di iscritti ciascuna; l'Arci è la più grande forza organizzata, non sindacale, della sinistra italiana e addirittura europea: 1.092.000 iscritti, 5.800 circoli territoriali. Contando le filiazioni staccate, nel quadro della Federazione Arci, si arriva a 2 milioni e mezzo di iscritti, buona parte dei quali non è disposta ad aderire al Pd. Ma la maggioranza sicuramente sì. Diverso è il discorso per le Acli, le Associazioni cristiane lavoratori italiani, fino a ieri presiedute da Luigi Bobba, deputato teodem della Margherita, messo lì apposta da Rutelli insieme alla Binetti per sbarrare la strada ai sinistrorsi. Decisamente le Acli non hanno un altro partito in cui inserirsi ed è anche vero che una delle attività preminenti è fare concorrenza alle coop rosse per quanto riguarda l edilizia convenzionata. E qui gli appoggi politici servono, eccome. (1 - Continua)

 


L’Unità 19-4-2007 Legge intercettazioni. Al Cittadino non far Sapere Marco Travaglio

 

Cari lettori, quando il Parlamento approva una legge all'unanimità, di solito bisogna preoccuparsi. Indulto docet. Questa volta è anche peggio. L'altroieri, in poche ore, con i voti della destra, del centro e della sinistra (447 sì e 7 astenuti, tra cui Giulietti, Carra, De Zulueta, Zaccaria e Caldarola), la Camera ha dato il via libera alla legge Mastella che di fatto cancella la cronaca giudiziaria. Nessuno si lasci ingannare dall'uso furbetto delle parole: non è una legge "in difesa della privacy" (che esiste da 15 anni) nè contro "la gogna delle intercettazioni". Questa è una legge che, se passerà pure al Senato, impedirà ai giornalisti di raccontare - e ai cittadini di conoscere - le indagini della magistratura e in certi casi persino i processi di primo e secondo grado. Non è una legge contro i giornalisti. È una legge contro i cittadini ansiosi di essere informati sugli scandali del potere, ma anche sul vicino di casa sospettato di pedofilia. Vediamo perché. Oggi gli atti d'indagine sono coperti dal segreto investigativo finché diventano "conoscibili dall'indagato".  Da allora non sono più segreti e se ne può parlare. Per chi li pubblica integralmente, c'è un blando divieto di pubblicazione, la cui violazione è sanzionata con una multa da 51 a 258 euro, talmente lieve da essere sopportabile quando le carte investono il diritto-dovere di cronaca. Dunque i verbali d'interrogatorio, le ordinanze di custodia, i verbali di perquisizione e sequestro, che per definizione vengono consegnati all'indagato e al difensore, non sono segreti e si possono raccontare e, di fatto, citare testualmente (alla peggio si paga la mini-multa). È per questo che, ai tempi di Mani Pulite, gli italiani han potuto sapere in tempo reale i nomi dei politici e degli imprenditori indagati, e di cosa erano accusati. È per questo che, di recente, abbiamo potuto conoscere subito molti particolari di Bancopoli, Furbettopoli, Calciopoli, Vallettopoli, dei crac Cirio e Parmalat, degli spionaggi di Telecom e Sismi. Fosse stata già in vigore la legge Mastella, Fazio sarebbe ancora al suo posto, Moggi seguiterebbe a truccare i campionati, Fiorani a derubare i correntisti Bpl, Gnutti e Consorte ad accumulare fortune in barba alle regole, Pollari e Pompa a spiare a destra e manca. Per la semplice ragione che, al momento, costoro non sono stati arrestati né processati: dunque non sapremmo ancora nulla delle accuse a loro carico. Lo stesso vale per i sospetti serial killer e pedofili, che potrebbero agire indisturbati senza che i vicini di casa sappiano di cosa sono sospettati. La nuova legge,infatti,da un lato aggrava a dismisura le sanzioni per chi infrange il divieto di pubblicazione: arresto fino a 30 giorni o, in alternativa, ammenda da 10 mila a 100 mila euro (cifre che nessun cronista è disposto a pagare pur di dare una notizia). Dall'altro allarga à gogò il novero degli atti non più pubblicabili.Anzitutto "è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pm o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare". La notizia è vera e non é segreta, ma è vietato pubblicarla: i giornalisti la sapranno, ma non potranno più raccontarla. A meno che non vogliano rovinarsi, sborsando decine di migliaia di euro. È pure vietato pubblicare, anche solo nel contenuto, "la documentazione e gli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati sul traffico telefonico e telematico, anche se non più coperti da segreto". Le intercettazioni ­ che hanno il pregio di fotografare in diretta un comportamento illecito, o comunque immorale, o deontologicamente grave ­ sono sempre top secret. Bontà loro, gli unanimi legislatori consentiranno ancora ai giornalisti di raccontare che Tizio è stato arrestato (anche per evitare strani fenomeni di desaparecidos, come nel vecchio Sudamerica o nella Russia e nell'Iraq di oggi). Si potranno ancora riferire, ma solo nel contenuto e non nel testo, le misure cautelari, eccetto "le parti che riproducono il contenuto di intercettazioni". Troppo chiare per farle sapere alla gente. E i dibattimenti? Almeno quelli sono pubblici, ma fino a un certo punto: "non possono essere pubblicati gli atti del fascicolo del pm, se non dopo la pronuncia della sentenza d'appello". Le accuse raccolte (esempio, nei processi Tanzi, Wanna Marchi, Cuffaro, Cogne, Berlusconi etc.) si potranno conoscere dopo una decina d'anni da quando sono state raccolte: alla fine dell'appello. Non è meraviglioso? L'ultima parte della legge è una minaccia ai magistrati che indagano e intercettano "troppo", come se l'obbligatorietà dell' azione penale fosse compatibile con criteri quantitativi o di convenienza economica: le spese delle Procure per intercettazioni (che peraltro vengono poi pagate dagli imputati condannati, ma questo nessuno lo ricorda mai) saranno vagliate dalla Corte dei Conti per eventuali responsabilità contabili. Così, per non rischiare di risponderne di tasca propria, nessun pm si spingerà troppo in là, soprattutto per gli indagati eccellenti. A parte "Il Giornale", nessun quotidiano ha finora compreso la gravità del provvedimento. L'Ordine dei giornalisti continua a concentrarsi su un falso problema: quello del "carcere per i giornalisti", che è un'ipotesi puramente teorica, in un paese in cui bisogna totalizzare più di 3 anni di reclusione per rischiare di finire dentro. Qui la questione non è il carcere: sono le multe. Molto meglio una o più condanne (perlopiù virtuali) a qualche mese di galera, che una multa che nessun giornalista sarà mai disposto a pagare. Se esistessero editori seri, sarebbero in prima fila contro la legge Mastella. A costo di lanciare un referendum abrogativo. Invece se ne infischiano: meno notizie "scomode" portano i cronisti, meno grane e cause giudiziarie avrà l'azienda. Mastella, comprensibilmente, esulta: "Un grande ed esaltante momento della nostra attività parlamentare". Pecorella pure: "Una buona riforma, varata col contributo fondamentale dell'opposizione". Vivi applausi da tutto l'emiciclo, che è riuscito finalmente là dove persino Berlusconi aveva fallito: imbavagliare i cronisti. Ma a stupire non è la cosiddetta Casa delle Libertà, che facendo onore alla sua ragione sociale ha tentato fino all'ultimo di aumentare le pene detentive e le multe (fino al 500 mila euro!) per i giornalisti. È l'Unione, che nell'elefantiaco programma elettorale aveva promesso di allargare la libertà di stampa. Invece l'ha allegramente limitata con la gentile collaborazione del centrodestra. Ma chi sostiene che nell'ultimo anno non è cambiato nulla, ha torto marcio. Quando le leggi-vergogna le faceva Berlusconi, l'opposizione strillava e votava contro. Ora che le fa l'Unione, l'opposizione non strilla, anzi le vota. In vista del passaggio al Senato, cari lettori, facciamoci sentire almeno noi, giornalisti e cittadini.

 


 

Il Corriere della Sera 19-4-2007 La nuova formazione del centrosinistra Il partito americano di  Paolo Mieli      STRUMENTI

 

Il modo critico, talvolta ipercritico (giustamente ipercritico) con il quale un po’ da tutti è stata seguita la gestazione del Partito democratico, va oggi lasciato da parte per fermarci a riflettere in modi più appropriati su cosa rappresentino e cosa siano le assise con cui di qui a domenica Ds e Margherita si scioglieranno. Come prima cosa va osservato che, al di là degli esiti che potrà avere l’operazione, siamo al cospetto di un evento di dimensioni storiche. Quattro anni fa, quando il lungimirante Michele Salvati propose la fondazione di questo partito, il suo isolamento fu pressoché totale. E ancora pochi mesi fa lo scetticismo era prevalente. L’idea che l’esperienza organizzativa del comunismo e del postcomunismo italiano nonché quella della sinistra Dc e di parte dell’area laica intermedia potessero avere fine con lo scioglimento dei due partiti in un unico contenitore, appariva ingenua o eccessivamente ambiziosa. E invece ciò accade.

Non ci sembra poi di scarso rilievo la circostanza che i fondatori della nuova formazione politica, anziché ispirarsi a una delle denominazioni del centrosinistra europeo, abbiano optato per quella del più antico partito statunitense, il partito di Franklin Delano Roosevelt ma anche dell’anticomunista Harry Truman, di John Kennedy ma anche del «guerrafondaio» Lyndon Johnson e poi di Jimmy Carter e di Bill Clinton. Chi conosce la storia americana sa quanto apparenti fossero le contrapposizioni tra questi presidenti e quanto diverso da quello della nostra sinistra sia sempre stato il rapporto del Democratic Party con parole come democrazia o guerra. Quel nome, Partito democratico, implica la collocazione di radici importanti del nuovo albero dall’altra parte dell’oceano. Implica in buona sostanza la scelta del modello americano anche se ancora a lungo, per prudenza e dissimulazione, ciò verrà negato. Quantomeno nel discorso pubblico.

Nella storia di questo dopoguerra c’è un precedente dell’attuale matrimonio (sia pure allargato) tra Ds eMargherita: l’unificazione socialista del 1966. Un precedente sfortunato, che può essere portato a esempio solo di quel che non si deve fare. La fusione di due apparati recalcitranti, socialista e socialdemocratico, produsse scissioni, un flop elettorale (nel 1968) e la rottura dell’anno successivo, quando Psi e Psdi ripresero ognuno la propria strada. A onore dei contraenti del patto odierno va detto che, pur se gli errori di quarant’anni fa possono essere commessi di nuovo tutti e in parte sono già stati commessi, in caso di disfatta l’esito non potrà essere lo stesso; nel senso che, se dovranno ridividersi, i due partiti non potranno mai tornare ad essere quel che sono adesso. Ds e Margherita, a differenza dei socialisti degli anni Sessanta, si muovono dunque senza rete. E questo nobilita l’impresa.

Tale condizione dovrebbe far sì che da adesso in poi chi deciderà di militare nel partito democratico dovrà dimostrarsi all’altezza della prova. A cominciare dai leader. Anzi dal leader. Oggi ancora non sappiamo chi possa capeggiare il nuovo partito e candidarsi alla guida del governo (un’idea ce l’avremmo, ma non spetta a noi dare questo genere di indicazione). Sappiamo in ogni caso che quel leader deve essere una sola persona — sottolineiamo: una sola persona—e che dovrà uscire allo scoperto nel giro di poche settimane. Solo se guidato fin dai primi passi da un capo certo e carismatico il partito democratico potrà avere successo. Un successo i cui effetti, riverberandosi anche nel campo opposto, possono produrre una stabilizzazione dell’intero sistema. Del che c’è evidente bisogno.

19 aprile 2007


 

Bresciaoggi 19-4-2007 Telecom, scontro Bertinotti-industriali Altre accuse Ue: in Italia spinte protezionistiche

 

Ma l'At&T è pronta a ripensarci Mentre da Seul Prodi spiega che l'ambasciatore Usa è stato frainteso ("il governo non è intervenuto") e l'At&T in serata si dice pronta a riesaminare il dossier Telecom Italia se la politica deciderà di fare un passo indietro, si registra un duro scontro tra il leader degli industriali Montezemolo (foto) e Bertinotti. Intanto, per la Commissaria Reding, la Ue deve "vigilare" su Telecom perché in Italia permangono "pressioni protezionistiche" sulle telecomunicazioni. (a pagina 5) di Alberto Pasolini Zanelli Il ritiro di una ditta americana dal mercato economico italiano rischia di avere conseguenze maggiori di quelle dovute al recente ritiro italiano dall'Iraq. Il ritiro dell'At&t è stato annunciato con poche parole, pochissime delle quali di commento: "Incertezza sulle regole". La glossa l'ha compilata quasi immediatamente, e anche questo non accade certo tutti i giorni, l'ambasciatore Usa in Italia, Spogli. Non nella forma di nota diplomatica di protesta né di malumore bensì in una forma "curiale": una piccola lezione di economia nell'era della globalizzazione. Il rappresentante di Bush a Roma si è limitato a far notare che l'"affare Telecom" ha evidenziato il "ruolo differente che il governo degli Stati Uniti e quello italiano hanno nella vita economica" nei rispettivi Paesi. In America il potere legislativo, cioè il Congresso, stabilisce regole "che possono essere anche dure" ma poi tutti sono tenuti a rispettarle e a muoversi nella stessa logica. In Italia c'è una "lunga tradizione" di senso opposto: una "presenza molto più forte del governo nelle questioni economiche". A questo sistema italiano, secondo Spogli, si deve se il nostro Paese attira molto meno di altri, gli investimenti dall'estero. Questo perché gli stranieri, dice diplomaticamente l'ambasciatore, "non capiscono esattamente se le regole sono uguali per tutti o no". Cioè- traduce chi diplomatico non è- non si fidano. Questo è il punto di vista non dell'amministrazione Bush, che pure Spogli rappresenta, ma del Sistema americano, repubblicani e democratici, destra e sinistra che possono differire e spesso differiscono nella formulazione di queste regole ma concordano sul fatto che, una volta stipulate, vanno rispettate. Un richiamo "ideologico"? O forse solo un resumé dei principi economici e finanziari? Ad ogni modo un punto di vista chiaramente espresso, che per i gusti di taluni sarà forse troppo esplicito, ma a cui è difficile rispondere. Lo è in inglese, vale a dire in termini americani, perché rispondere di no significherebbe sconfessare le pratiche realmente dominanti nella finanza italiana, ovvero confessare che più o meno è vero quello che dice Spogli, cioè che il potere politico espresso direttamente dal governo spesso favorisce o addirittura impone soluzioni che alla logica politica rispondono, ma a quella dei mercati no. Rispondere con un "sì", d'altra parte, porterebbe a una contraddizione più diretta con i principi che abbiamo sottoscritto sulla carta, sui determinati impegni internazionali, in sostanza sull'appartenenza dell'Italia alla "Nato economica", che ormai con la globalizzazione si è poi estesa a tre quarti del pianeta. L'unica cosa che il governo può fare onestamente è ricordare che in queste cose "veniamo da lontano", che nel nostro Paese vige da molti decenni la dicotomia tra soluzioni giuste e soluzioni "politicamente possibili". Il ruolo dei sindacati è diverso non perché i sindacati siano così potenti, ma perché la loro cultura politica coincide con quella dei partiti che formano l'attuale governo, ma hanno guidato in un modo o nell'altro l'azione di quasi tutti i governi dalla reinstaurazione della democrazia ad oggi. Questo governo non ha creato la distonia tra i nostri usi reali e i principi cui ci impegniamo in sede internazionale: la gestisce, semmai, in modo più aperto, meno di altri curandosi che le parole cozzino contro i fatti. In ogni caso, non ci facciamo una gran bella figura. E non perché ce lo rimprovera l'ambasciatore americano, ma perché lo sappiamo anche noi. Quello che non sappiamo è come agire diversamente.


 

Milano Finanza 19-4-2007 MF Bernabè, quell'opa fu un errore. Meglio i private equità. Stefania Peveraro.

 

L'ex a.d. si sarebbe unito a chiunque pur di fermare la scalata ostile di Colaninno. Ma allora non c'erano i fondi, oggi sì. 'Se a quei tempi i fondi di private equity avessero avuto la potenza di fuoco che hanno oggi non avrei avuto dubbi. Mi sarei rivolto a loro per contrastare l'opa. Ma non c'erano e quindi ho pensato alla fusione con Deutsche telekom. Ma mi sarei fuso con chiunque, anche con At&t, piuttosto che lasciar passare quell'offerta, perché ritenevo che avrebbe danneggiato gli azionisti'. Lo ha detto senza mezzi termini Franco Bernabè, ricordando i tempi in cui, nella primavera del 1999, da amministratore delegato di Telecom cercava di opporsi all'opa di Roberto Colaninno. Parlando ieri in occasione del primo di una serie di incontri organizzato dall'Associazione italiana del private equity e venture capital, Bernabè ha aggiunto: 'Dato che allora i fondi non erano ancora così presenti in Europa e in Italia come lo sono oggi, ho fatto quello che ho potuto. Prima ho convocato l'assemblea di Telecom per mettere a punto tutti i sistemi possibili di difesa, compresa la fusione di Tim in Telecom. Ma poi, visto che a quell'assemblea né il Tesoro né Banca d'Italia si sono presentati, facendo quindi mancare il numero legale, il giorno dopo sono volato in Germania dall'a.d. di allora di Deutsche telekom, Ron Sommers, per cercare un accordo per fondere le due società. Se la cosa fosse andata in porto, sarebbe nata la compagnia telefonica più grande d'Europa e allora sarebbe stata una vera fusione perché le dimensioni delle due compagnie erano simili. Inoltre, lo stato tedesco ne avrebbe approfittato per iniziare la privatizzazione di Deutsche telekom. E sarebbe nato qualcosa di molto vicino a una vera public company. Ma la verità è che in Italia le public company non le ha mai volute nessuno'. Sì, perché, secondo il manager ora vicepresidente di Rothschild Europe, 'in Italia sono ancora in molti a pensare che nelle public company i manager possano fare il bello e cattivo tempo, senza dover rispondere a nessuno. Ma in realtà, i grandi manager di società quotate devono rendere conto ai milioni di azionisti tutti i giorni. Eppure continua a essere radicata questa idea che public company significhi ”manager forti, proprietari deboli”, un concetto che è stato anche il titolo di un noto libro di Mark Roe, la cui tesi, però, non era contro la public company, come invece crede chi lo cita a sproposito. Anzi. Il libro sottolinea il fatto che negli Usa si è fatta attenzione a che il sistema bancario non diventasse padrone delle imprese come invece era accaduto in Germania ai tempi della Seconda guerra mondiale. Negli Usa ci si è preoccupati del principio di democrazia applicato alle aziende'. Il che significa, leggendo tra le righe, che Bernabè non approva per nulla l'ipotesi di una soluzione bancaria all'uscita di Tronchetti Provera da Telecom. La strada che lui prediligerebbe, invece, è appunto quella di un intervento del private equity, che ritiene 'la migliore soluzione per trasformare una grande azienda in public company. I fondi di private equity sono quelli che si sono accorti negli Usa alla fine degli anni 80 che in borsa c'erano dei colossi quotati dai quali era possibile ricavare del valore nascosto'. Non solo. I private equity potrebbero preservare l'italianità delle grandi aziende: 'A differenza dei soggetti industriali, i capitali dei fondi sono apolidi, vengono da investitori internazionali'.


 

Il Giornale di Brescia 19-4-2007 L'Europa resta ai margini del dibattito politico LA CORSA PER L'ELISEO SARKOZY, ROYAL E BAYROU D'ACCORDO NEL RILANCIARE LE TRATTATIVE PER LA COSTITUZIONE UE

 

PARIGI - La parola Europa non è tra le più pronunciate nel corso della campagna elettorale. In un paese dove l'attaccamento all'identità nazionale, l'attaccamento allo Stato protettore e la paura dei cambiamenti si mescolano, le percezioni del processo di integrazione europeo sono complesse e con mille sfaccettature. Il tema Europa sembra comunque ancora un argomento che divide e anche per questo i maggiori candidati sono restii ad affrontarlo di petto. Jean Marie Le Pen vuole che la Francia recuperi la propria sovranità legislativa limitata dall'Unione europea che impone ai francesi una norma su quattro. L'Europa che vuole il presidente del Fronte nazionale deve andare da Brest a Vladivostock, ma deve essere un'associazione di Paesi liberi e sovrani. All'interno di una logica diversa le posizioni degli altri tre candidati di vertice, Nicolas Sarkozy, Segolene Royal e Francois Bayrou. Se gli ultimi due propongono un nuovo referendum, le basi non sono le stesse; per la Royal il referendum dovrebbe riguardare un nuovo trattato negoziato con i partner che tenga conto delle aspettative sociali dell'Unione. Il metodo di negoziazione proposto dalla candidata socialista consiste nell'apertura sotto la presidenza tedesca attuale di negoziati sulle riforme delle istituzioni con il lancio di una vasta consultazione dei cittadini europei chiamati via internet a discutere sugli obiettivi che si deve porre l'Europa, le sue politiche prioritarie e i suoi confini. Sulla Turchia la Royal dice che attualmente non ci sono tutte le condizioni per un'adesione ma che queste potrebbero esserci entro una decina d'anni. Per Bayrou, che è contrario all'adesione della Turchia, il nuovo referendum dovrebbe concentrasi su un testo corto e semplificato, ridotto alle questioni istituzionali e di funzionamento dell'Unione. Nicolas Sarkozy infine non propone un nuovo referendum: chiede un "mini" trattato, semplificato e ridotto alle questioni istituzionali e alle riforme necessarie perchè "l'Europa possa rimettersi in marcia". Un "mini trattato" da sottomettere a ratifica parlamentare. Sull'adesione della Turchia l'ostilità di Sarkozy è molto netta..


Europa 19-4-2007 Ancora polemiche su Moro: ma fummo tutti a non volere la capitolazione dello Stato FEDERICO ORLANDO RISPONDE

Cara Europa, ho letto con stupore le reazioni alla lettera in cui, rispondendo al lettore Melli di Genova, il condirettore Orlando si compiace che Mastrogiacomo non sia stato lasciato morire come Moro.
Non mi pare che, nel dir questo, Orlando abbia insinuato che a far morire il leader dc siano stati Andreotti o Cossiga o Zaccagnini o La Malfa o Berlinguer, o Malagodi, o Almirante, tutti schierati sulla linea della non trattativa coi terroristi.
E dunque dov’è lo scandalo nella verità ricordata da Orlando? O è una colpa ricordarla?
IGNAZIO MONACO, TARANTO

Caro Ignazio, sono contento che a fare questo rilievo sia proprio tu, che nei giorni tragici dal 14 marzo al 9 maggio 1978, cioè dalla cattura al martirio di Moro, eri attivo sostenitore del nostro Giornale (quello di Montanelli, il quale aveva ricevuto un anno prima, il 2 giugno 1977, il piombo brigatista nelle gambe). Ricordi dunque che noi sposammo interamente la causa dell’intransigenza nei confronti del terrorismo (e dell’ultrasinistra), compresa la legislazione di emergenza (dal decreto del 21 marzo sul fermo generalizzato di polizia alla Legge Reale), anche se non prendemmo in considerazione la proposta di pena di morte per i sequestratori avanzata da Ugo La Malfa. Sostenemmo l’intransigenza e le sue ragioni politiche affermate dal presidente del consiglio Andreotti, dal ministro dell’interno Cossiga, e dai nostri partiti, che dal Pci di Berlinguer al Pli di Malagodi, si schierarono per l’unità nazionale antiterrorista e antipermissivista. A quella linea si sottrasse soltanto il Psi di Craxi e Signorile, che al 51°congresso di Torino (29 marzo-2 aprile) adottò la linea della trattativa con le Br. Il 29 marzo Moro aveva scritto dalla “prigione del popolo” una lettera a Cossiga, proponendo uno scambio di prigionieri.
Il 31 marzo l’Unità replicò che, quando la posta in gioco è la democrazia stessa, non si può cedere all’eversione. Il 4 aprile il governo Andreotti confermò formalmente alla Camera di essere contrario a trattare.
Non vedo dunque perché c’è ancora chi si adonta se qualche giornalista scrive che “Moro fu fatto morire”. Fu fatto morire non per sadismo, ma perché non c’era scelta. Perfino il papa Paolo VI ne era consapevole: e si rivolse agli uomini delle Brigate rosse, nella sua suprema autorità morale, perché rilasciassero Moro «senza condizioni ». Senza condizioni, cioè senza trattativa. Dire oggi che nessuno era disposto ad accettare condizioni, dunque, significa soltanto dire la verità: credo che tu ed io, nella nostra parte di sostenitori dell’intransigenza montanelliana, che s’affiancava a quella dei politici, potremmo rivendicare, se non fosse presumere troppo, e comunque con doloroso orgoglio, un’infinitesima parte di quella responsabilità nella linea della fermezza.
Ricordo, e chiudo, le parole che Montanelli scrisse la sera del 7 maggio, poche ore prima del sacrificio di Moro, chiamandoci tutti alla guerra totale, e senza assicurazioni sulla vita, contro il terrorismo: «I giochi sono fatti. E non soltanto per Moro, cui va tutta la nostra più fraterna e rispettosa pietà. Sono fatti anche per una politica da Belle Époque che la distruzione fisica e morale di Moro chiude e conclude. La Storia sta riprendendo i suoi connotati di tragedia e costringe ad adeguarsi al repertorio. Stiamo entrando in una di quelle età di ferro in cui il potere si paga col ferro. Nessuno è obbligato a sfidare questo rischio. Chi lo fa, sappia che oggi è toccato a Moro, domani può toccare a lui». Ed è accettando questa amara verità che la classe dirigente italiana ha trovato la forza, combattendo ancora dieci anni, di vincere ed estirpare il terrorismo. O quasi. Molto quasi.


 

Il Secolo XIX 19-4-2007 A TRE GIORNI DAL PRIMO TURNO DELLE PRESIDENZIALI Milioni di elettori cambiano idea in continuazione o non dicono il vero Parigi. Gabriele Parussini

 

A tre giorni dal primo turno della presidenziale, la campagna elettorale francese è in preda alle ultime convulsioni. Primo, i sondaggi, che restano la chiave di volta che anche i candidati usano per calibrare il tiro dei loro interventi. La novità dei due pubblicati ieri? La corsa, per il dispiacere dei socialisti, resta una competizione a tre. In due inchieste la TNS Sofres e l'Ifop identificano un trend chiaro: Francois Bayrou, il candidato del centro, è in rimonta, di 2 e 1 punto percentuali rispettivamente. Nicolas Sarkozy resta primo e Ségolène Royal seconda, ma entrambi sono in discesa. La classifica degli ultimi sondaggi d'opinione prima del blackout imposto dalle regole elettorali? Per TNS Sofres Sarkozy al 28.5%, Royal al 25%, Bayrou al 19%; per l'Ifop Sarkozy al 28%, Royal al 22.5%, Bayrou al 19%. Il partito più grande rimane quello degli incerti, con il 37% degli elettori che dichiarano alla Sofres di poter ancora cambiare idea. Tutti si affannano a sottolineare nuovi elementi di incertezza: il numero degli iscritti alle liste elettorali, che è aumentato del 4.2% nel 2006, circa il doppio del normale, e il voto dei residenti all'estero: quasi un milione di persone. Intanto su cosa si gioca la campagna? Sugli estremi. Dopo l'appello dell'ex premier socialista Michel Rocard perché Royal si allei con Bayrou fin dal primo turno, ieri é stato la volta di Claude Allegré e di Bernard Kouchner, tutti e due ex ministri socialisti, di schierarsi dalla parte della santa alleanza sotto lo stendardo del "tutto salvo Sarkozy". Dominique Strauss-Kahn, visto da tutti come una delle possibili teste di ponte di Bayrou in campo socialista, si è affannato a smentire alla conferenza stampa in rue Solferino di ieri mattina ogni contatto con il candidato del centro. "Tutto quanto è stato detto sull'alleanza tra il PS e l'UDF è insensato: quando si è di sinistra si vota socialista", ha detto Strauss-Kahn. Ma poi, ha ricordato, cartesiano, che un primo ministro della Quinta Repubblica deve avere la fiducia del parlamento, e ha escluso di prestarsi alla carica "in mancanza di una maggioranza socialista all'Assemblee". Come dire: per ora, ciascuno al proprio posto. Riparliamone la prossima settimana. Il nervosismo sembra di casa fra i socialisti, con il segretario Francois Hollande a dire ieri a Bordeaux che arrivare al secondo turno sarebbe "già una vittoria" per Ségolène. Da parte sua Bayrou, come al solito, gioca ai margini della campagna capitalizzando sugli errori degli avversari. Ammette di aver cenato con Rocard, e dichiara di essere il solo a poter mettere insieme le parti moderate dei due schieramenti. I francesi sembrano gradire, anche perché i due candidati in testa si arroccano su posizioni estreme. Sempre secondo il candidato centrista gli elettori francesi "preparano una di quelle sorprese di cui hanno il segreto". Bayrou si è detto convinto che i sondaggi, che lo danno terzo dietro Sarkozy e Royal, sottostimamo il suo punteggio, "perchéè difficile indovinare i voti quando si tratta di un voto di cambiamento". Anche il candidato no-global José Bovè si aspetta sorprese dal voto di domenica prossima:"Sono sicuro che si assisterà a delle cose sbalorditive che usciranno dalle urne". Sarkozy martedì sera a Metz, ha fatto un'apologia della religione cattolica e ha ricordato le radici cristiane del Paese. Il candidato di centrodestra ha ricordato Giovanni Paolo II esprimendo l'ammirazione per il pontefice scomparso. In Wojtyla Sarkozy vede l'uomo che "con la forza delle sue convinzioni ha fatto cadere il muro di Berlino" e ancora l'uomo che "saputo incarnare apertura e fermezza. Per un ex ministro di uno stato profondamente laico, un'uscita del genere equivale ad ammiccare all'estrema destra. Ieri, Ségolène ha arringato le cassiere di un supermercato parigino del gruppo Carrefour con toni da pasionaria comunista: "Le lavoratrici sono il proletariato dei nostri giorni, e le loro preoccupazioni non sono ascoltate da nessuno". Di che far sognare i centristi.


INDICE 18-4-2007

 

+ Il Sole 24 Ore 18-4-2007 Processo Parmalat più leggero. Si allunga la lista dei patteggiamenti accolti ieri dalla Procura di Parma di Giuseppe Oddo

+ La Stampa 18/4/2007- Al convegno di Roma i gruppi base si scagliano contro la Cgil. I fannulloni spaccano il sindacato. Tavola rotonda alla scuola superiore della pubblica amministrazione. Flavia Amabile

Il Corriere della Sera 17-4-2007 Italia, il popolo più infelice d'Europa. Ai primi posti gli scandinavi, in coda i paesi «mediterranei». Poca fiducia nelle istituzioni e nell'avvenire: uno studio della Cambridge University ribalta lo stereotipo del Belpaese. Francesco Tortora      

 TOC \o "1-3" \h \z \u Il Corriere della Sera 18-4-2007 Credibilità zero Di Massimo Gaggi

L’Unità 18-4-2007 Telecom e Berlusconi esplode il conflitto d'interessi Bertinotti frena l'ex premier. Melandri: ora la legge D'Alema duro: certi giornali sono deprimenti di Bianca Di Giovanni/

L’Unità 18-4-2007 Paolo Mieli ha un incubo: Massimo D'Alema. A. Padellaro

Italia Oggi 18-4-2007 Di Pietro a casa Tronchetti Sorpresa: il ministro compra da Pirelli e poi affitta all'Italia dei valori Franco Bechis.

L’Arena di Verona 18-4-2007 Studio: gli stranieri temono il Belpaese Competitività, Italia battuta da Turchia Polonia e Ungheria Le cause: burocrazia, tasse e costi energia

La Stampa 17-4-2007 Torino. Novantamila famiglie senza soldi per l'affitto Marina Cassi

Europa 18-4-2007 Il Pd nasce senza Repubblica di (f.b.)

Il Riformista 18-4-2007 Sorpresa: niente Repubblica al gala del figlioccio di Fabrizio d’Esposito

 

 

 


 

+ Il Sole 24 Ore 18-4-2007 Processo Parmalat più leggero. Si allunga la lista dei patteggiamenti accolti ieri dalla Procura di Parma di Giuseppe Oddo

 

 

Si allunga la lista dei patteggiamenti accolti ieri dalla Procura di Parma nell'ambito dell'udienza preliminare sulla Parmalat, mentre esce di scena dal processo il banchiere Ettore Gotti Tedeschi per il quale i pubblici ministeri hanno anticipato, nel corso della loro requisitoria, la richiesta di proscioglimento. Gotti Tedeschi, oggi presidente del Banco Santander in Italia, era stato ascoltato, su sua richiesta, dai magistrati di Parma durante la precedente udienza, insieme all'avvocato Sergio Erede e all'imprenditore italoamericano Luis Cayola, a loro volta accusati di concorso in bancarotta. Egli aveva collaborato nel '90, tramite la Akros, al collocamento in Borsa della Parmalat, ed era successivamente entrato, rimanendovi per circa un anno, nel consiglio d'amministrazione del gruppo di Collecchio. Evidentemente i pm hanno appurato la sua estraneità ai fatti, decidendo per il non luogo a procedere. La richiesta dei sostituti Vincenzo Picciotti e Silvia Cavallari dovrà essere comunque esaminata dal giudice per le udienze preliminari, Domenico Truppa, al quale spetta la decisione finale. Lo stesso Gup dovrà esprimersi sulle richieste di patteggiamento su cui vi è già stato l'assenso della Procura, che ad oggi ammontano a 24. Alle diciassette di cui già si sapeva (su cui si pronuncerà domani un altro giudice, Nicola Sinisi), se ne sonno aggiunte infatti, ieri, altre sette: quelle di Antonio Bevilacqua (un anno e 10 mesi), Eric Dailey (2 anni e 2 mesi), Franco Gorreri (4 anni e 10 mesi), Piero Mistrangelo (un anno e 10 mesi), Massimo Nuti (un anno, 5 mesi e 20 giorni), Andrea Petrucci (un anno e 8 mesi) e Andrea Ventura (un anno e 7 mesi). Respinti, invece, i patteggiamenti per Calisto Tanzi — per il quale i suoi avvocati, nella sorpresa generale,avevano chiesto appena 5 anni — oltre che per Claudio Baratta, Domenico Barili, Maurizio Bianchi, Ugo Bianchi, Guido Gerboni, Fausto Tonna e Giovanni Tanzi. Resta sospesa la decisione su Paola Visconti, che ha chiesto di poter patteggiare 3 anni e 9 mesi, mentre a Gianpaolo Zini e Luciano Del Soldato è stato accordato il rito abbreviato,con udienza già fissata per il 29 maggio. Chi sperava nel maxiprocesso della Parmalat deve ora accontentarsi di un processo snello. Se i magistrati accoglieranno tutti i patteggiamenti fin qui presentati, 36 dei 62 imputati originariamente accusati di bancarotta saranno giudicati in sedi separate. E,grazie all'indulto,nessuno di loro sconterà un giorno di carcere. La requisitoria dei due pm è proseguita per l'intero pomeriggio di ieri con una relazione in cinque punti: quotazione in Borsa della Parmalat, sistema delle falsificazioni e analisi dei bilanci, distrazioni, fonti di finanziamento, struttura e organizzazione societaria. I sostituti procuratori che hanno condotto le indagini hanno insistito sul fatto che il solo Tanzi, senza il concorso di soggetti esterni alla Parmalat, non avrebbe mai potuto attuare un sistema di falsificazioni così ampio e articolato come quello che ha portato alla bancarotta il gruppo di Collecchio. E alcuni di questi soggetti, a loro avviso, vanno proprio ricercati tra le banche creditrici.


+ La Stampa 18/4/2007- Al convegno di Roma i gruppi base si scagliano contro la Cgil. I fannulloni spaccano il sindacato. Tavola rotonda alla scuola superiore della pubblica amministrazione. Flavia Amabile

 

ROMA
La protesta arriva, puntuale, a metà convegno. Si parla di «fannulloni» nella pubblica amministrazione, tema caldo, ancor di più per i sindacati. Nei giorni scorsi, quando la parola incriminata, - quel «fannulloni» - era stata inserita nel titolo del convegno della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, i rappresentanti dei lavoratori avevano affisso volantini all’interno della sede della Scuola per chiedere le dimissioni del direttore, il prefetto Mauro Zampini, reo di aver organizzato l’incontro e deciso il titolo, e di non aver invitato alcun sindacalista a parlare alla tavola rotonda. 

Ieri il sindacalista a parlare c’era, ed è stata proprio principalmente contro di lui che la protesta si è scatenata. «Non vogliamo sentire questa persona!» tuonano i sindacalisti sparsi tra il pubblico di giovani ed eleganti allievi e futuri dirigenti della pubblica amministrazione, quando Paolo Nerozzi, segretario confederale della Cgil prende la parola. «Non ci rappresenta! Parla per sè stesso!», insistono i ribelli. «Alla camera vi avrebbero già espulsi!» li avvertono. «Espelleteci, allora!» 

La provocazione non viene raccolta. Nessuno viene mandato via. E, fra un mugugno e l’altro, tra sindacalisti di base e anche qualche confederale, Nerozzi prosegue nel suo intervento. Prima però, il direttore della Scuola non manca di sottolineare la stranezza della protesta: «Prendo atto del fatto che un dibattito che dovrebbe interessare tutti, ha ottenuto critiche dei sindacati». Bruno Tabacci, deputato dell’Udc, anche lui al tavolo degli oratori: «Quante persone vivono di politica e sindacato? Almeno sette-ottocentomila! Quante sigle esistono? Un numero esagerato, senza che si capisca perché sono nate nè gli obiettivi che difendono». Nerozzi, che il direttore della Scuola definisce «la punta di diamante» del sindacalismo del settore, chiarisce di non essere contro il licenziamento dei fannulloni. «Se un infermiere viene trovato ubriaco in sala operatoria, va licenziato». Se però si vuole rendere efficiente la pubblica amministrazione bisogna «investire», ricorda. 

Luigi Nicolais, ministro della Funzione Pubblica, sottolinea i punti deboli del settore, uno in particolare: la valutazione. «In Italia - avverte - non esiste la cultura della valutazione», ma per il governo è una priorità e sta pensando di affidare il compito al Cnel. «Può essere una buona occasione per il suo rilancio», spiega. Il ministro però tiene a chiarire che «parliamo di fannulloni solo perché non sappiamo valutare». E’ importante invece «restituire dignità», fornire «incentivi», «semplificare le leggi», introdurre «trasparenza», come il governo sta facendo con i disegni di legge presentati che sono in discussione in Parlamento. «I tempi della Camera e del Senato sono lunghi ma ce la faremo», avverte. Infine, per aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione, il ministro ricorda che esiste la tecnologia: «entro il 2008 lo sportello potrebbe essere sotituito dal computer, dal televisore, dal portatile. E con la creazione di banche dati a disposizione degli uffici, anche le autocertificazioni dovrebbero essere superate: i dati di cui ha bisogno l’impiegato sono già in suo possesso. Questo ridurrà di molto il lavoro, i tempi, le attese».

 


Il Corriere della Sera 17-4-2007 Italia, il popolo più infelice d'Europa. Ai primi posti gli scandinavi, in coda i paesi «mediterranei»

Poca fiducia nelle istituzioni e nell'avvenire: uno studio della Cambridge University ribalta lo stereotipo del Belpaese. Francesco Tortora

 

STRUMENTI

CAMBRIDGE (REGNO UNITO) - Un tempo era conosciuto come il paese della «dolce vita» dove, nonostante l'instabilità politica e sociale, si viveva bene e i suoi abitanti sapevano godersi la vita. Ma qualcosa sarà cambiato nel Belpaese visto che secondo uno studio condotto nel 2004 da scienziati della Cambridge University su un campione di 20.000 cittadini del Vecchio Continente residenti nei 15 Stati che nel 2004 facevano parte dell'Unione Europea, gli italiani sono il popolo più infelice (guarda la classifica).

STUDIO - Secondo lo studio il popolo italiano non è solo il popolo più infelice, ma si classifica al quartultimo posto in una parallela classifica che calcola il tasso di soddisfazione e di appagamento delle popolazioni europee: gli italiani infatti sono più soddisfatti solo dei francesi, dei portoghesi e dei greci. L'infelicità dei cittadini del Belpaese deriverebbe dalla mancanza di fiducia nelle istituzioni, nel sistema sociale e nell'avvenire. «L'idea che i popoli più felici siano quelli che vivono in luoghi ameni come quelli che si trovano sul Mediterraneo è falsa» commenta Luisa Corrado, la ricercatrice che ha guidato lo studio. «Italia, Portogallo e Grecia sono costantemente agli ultimi posti in questi due classifiche che segnalano il tasso di felicità e soddisfazione delle popolazioni europee». 

I PIU' FELICI - La classifica ribalta un altro stereotipo: è falso che le popolazioni nordiche siano infelici, ma è vero il contrario. Il popolo più felice infatti in Europa è quello danese seguito da quello finlandese e dagli irlandesi. I danesi raggiungono un livello di felicità pari a 8,3 su un massimo di 10, mentre finlandesi e irlandesi si fermano rispettivamente a 8,1 e 7,98. Gli Italiani invece, ultimi in classifica, raggiungono un magro 6,27. I danesi si sentono felici perché hanno una grande fiducia nelle istituzioni e nel loro sistema sociale. Nonostante la politica danese sia considerata dai cittadini qualcosa di molto «noioso» essa è apprezzata perché riesce a mantenere una bassissima disoccupazione e perché al suo vertici vi è la famiglia Reale, molto amata dai sudditi danesi. 

FIDUCIA - L'elemento centrale per essere felici, secondo Luisa Corrado, non è la ricchezza, ma la fiducia: «Lo studio mostra che avere fiducia nella società in cui si vive è veramente importante. I paesi che ottengono i migliori risultati in questa classifica della felicità sono anche quei paesi che credono nelle proprie istituzioni, nelle leggi e in tutto ciò che rappresenta il proprio paese». Un altro elemento interessante che si recupera da questo studio è che le donne europee si dichiarano molto più felici e soddisfatte della propria vita rispetto agli uomini che vivono nel Vecchio Continente.

17 aprile 2007

 


Il Corriere della Sera 18-4-2007 Credibilità zero Di MASSIMO GAGGI

 

 La British Aerospace ha comprato alcune aziende americane della difesa, ma manager e ingegneri inglesi non possono avere accesso alle loro tecnologie ritenute dal Pentagono "strategiche" per la sicurezza nazionale e perciò rese inaccessibili a qualunque soggetto straniero.

Una vecchia legge in vigore negli Stati Uniti vieta al capitale estero di acquistare una compagnia aerea americana. Il magnate australiano Rupert Murdoch si è dovuto fare cittadino americano per poter costruire un impero mediatico negli Usa (la rete nazionale Fox, varie "cable tv" e giornali come il New York Post ). Il liberismo economico che caratterizza il sistema americano non è assoluto: in alcune aree il possesso di aziende è sottoposto a vincoli anche più stretti di quelli in vigore in Italia. La vicenda At&t-Telecom, con la repentina decisione del gigante Usa di ritirare l'offerta per il controllo della società italiana, danneggia la credibilità del Paese come possibile partner industriale e finanziario non perché è stato rivendicato il ruolo strategico di un settore o di un'impresa, ma perché, ancora una volta, tutto ciò è avvenuto non al momento di fissare regole "uguali per tutti", ma solo dopo l'offerta lanciata da americani e messicani. Come al solito la politica italiana scopre l'interesse nazionale - una protezione che, con modalità e livelli di intensità diversi, c'è in ogni Paese - quando è troppo tardi. E si considera in diritto di rimettere indietro le lancette dell'orologio. E' un grosso errore. Nel merito perché, intervenendo "a posteriori", si finisce sempre per creare un'interferenza politica nelle dinamiche di mercato: oggi tra gli analisti Usa si parla di ritorno al vecchio dirigismo italiano e anche di uno sgradevole aroma di antiamericanismo diffuso da questa vicenda. Ma l'errore è anche nel metodo perché, osservato dall'esterno, lo spettacolo di esponenti politici che si azzuffano quotidianamente e di ministri che dichiarano a getto continuo pro e contro l'affare, è francamente desolante. Probabilmente l'offerta dell'At&t non sarebbe andata comunque a buon fine, ma chi oggi gioisce per il "salvataggio della Patria telefonica", dovrebbe riflettere su un dato: At&t non stava cercando subdolamente il colpo gobbo. E' solo la più grande società di telecomunicazioni del mondo (vale 242 miliardi di dollari) che, volendo crescere anche all'estero, aveva individuato la possibilità di acquisire un importante "asset" europeo con un investimento abbastanza limitato (2 miliardi di euro). Davanti alla levata di scudi, ha deciso di rivolgere altrove il suo interesse. A noi rimane la proprietà nazionale di Telecom e l'immagine di un Paese nel quale è difficile investire. Incertezza delle regole, scarsa trasparenza, problemi di corruzione e illegalità dilagante li hanno anche altri Paesi. In genere sono quelli emergenti, come la Cina. Che riescono comunque ad attirare investimenti: le imprese rischiano perché lì il costo del lavoro è bassissimo e i mercati locali stanno crescendo molto rapidamente. L'Italia dovrebbe far parte di un altro mondo: quello delle democrazie industriali avanzate, che non crescono come l'Asia, ma hanno l'appeal della tecnologia, della stabilità e della credibilità.


 

L’Unità 18-4-2007 Telecom e Berlusconi esplode il conflitto d'interessi Bertinotti frena l'ex premier. Melandri: ora la legge D'Alema duro: certi giornali sono deprimenti di Bianca Di Giovanni/

 

Roma DOVEROSO Sperare che "almeno un'impresa di telecomunicazioni rimanga italiana mi sembra un augurio doveroso, poi vinca il migliore". Così Romano Prodi apre la giornata delle polemiche intorno a Telecom. La ritirata degli americani dà la stura a un tor- nado di commenti. In campo politici e le corazzate dell'informazione, mentre riesplode il conflitto di interessi di Berlusconi che punta sulle telecomunicazioni. Massimo D'Alema - chiamato in causa nonostante il quasi totale silenzio sulla vicenda - definisce "deprimenti" le ricostruzioni lette sui giornali. "Vorrei non aggiungere parole - ha dichiarato il vicepremier - Avendo io detto che ritengo che non si debba fare ora una legge sulle scatole cinesi e non bisogna dare l' impressione di voler intervenire su una vicenda economica aperta, ma che, semmai dopo, discutendone con gli operatori economici, si possa ragionare su questo, un giornale (il Sole24Ore, ndr) ha scritto che voglio fare un blitz. Mi astengo dal commentare, altrimenti dovrei dire delle parole sconvenienti". Anche la sorte toccata a Prodi da parte degli osservatori non lascia molto spazio all'ottimismo, per la verità. Le accuse di interventismo nel "recinto sacro" del mercato si sprecano. Da Tokyo il premier misura le parole. "La partita sarà ancora lunga; credo che avremo una pluralità di protagonisti in futuro - dichiara - Quindi l'uscita di At&T la giudico nè positiva nè negativa, ma solo un atto di una lunga commedia, o tragedia, o film. Ma solo un episodio che non è certo conclusivo". Il premier non si dice sorpreso del ritiro americano: sembrava un'offerta più messicana, con un "appoggio esterno" americano. No comment di Prodi su un eventuale intervento di Intesa, mentre il premier considera positiva la tendenza del mercato di forte concentrazione nell'area europea. "Le fusioni che ci sono state dimostrano che si va verso un mercato europeo e parteciparvi sarà importante".Secondo alcuni osservatori bene informati, l'offerta Usa serviva più per fare il prezzo che per comprare. E la reazione di Marco Tronchetti Provera la dice lunga al riguardo ("Pirelli venderà al prezzo giusto"). Ma il centro-destra cavalca la propaganda della fuga di fronte alle interferenze politiche, mentre a sinistra tiene banco il "caso" Mediaset. Scende in campo il presidente della Camera Fausto Bertinotti "Non è che in Italia esista solo Berlusconi, ci sono altri imprenditori...- fa notare - Bisogna approvare presto una legge sul conflitto d'interessi". In appoggio si schiera Giovanna Melandri, che chiede di approvare subito una legge sul conflitto di interessi. Voce fuori dal coro, quella di Clemente Mastella: "Non vedo in maniera così disdicevole un ingresso di Mediaset", ha detto il ministro della Giustizia. In difesa del Cavaliere è sceso Sandro Bondi, definendo le parole di Bertinotti e del ministro Melandri "strabilianti". Forza Italia è divisa tra chi si dice certo che l'ipotesi di uno "sbarco" nei telefoni si esclude, e chi invece crede che per farlo il leader sarebbe pronto a lasciare la politica. Mediaset non nasconde che l'operazione sarebbe interessante. Una sorta di interferenza della politica (straniera) nella vicenda per la verità c'è: è quella dell'ambasciatore americano Ronald Spogli il quale sottolinea "la forte presenza del governo negli affari dell'economia in Italia". Inutile ribattere che ben tre compagnie di telecomunicazioni in Italia sono straniere. "Alla politica spetta dettare le regole" dichiara in serata Vannino Chiti, riportando in prima linea la questione della rete. Un tema niente affatto nuovo: era aperto almeno dall'estate scorsa. Tutti ricordano il caso Rovati.


 

L’Unità 18-4-2007 Paolo Mieli ha un incubo: Massimo D'Alema. A. Padellaro

 

Ci duole rivelarlo ma davanti all'evidenza di una vera e propria sindrome dai tratti ossessivi, come tacere? Mieli vede D'Alema dappertutto. O meglio ne intravede ovunque l'ombra e il baffo ostile. E dietro l'ombra la macchinazione, l'intrigo, il maneggio. E subito ne è tormentato, e più l'assillo cresce e più la malinconia lo avvolge come un sudario. Per quale motivo non sapremmo dire, ma un motivo ci sarà. Lunedì scorso, per esempio, quando il direttore del Corriere della sera ha letto l'articolo de l'Unità dedicato alla cordata Colaninno-Berlusconi per Telecom, subito (se lo conosciamo bene) l'istinto giornalistico gli avrà suggerito apprezzamento per la notizia esclusiva e ben argomentata; qualità che da buon direttore non ha mai smesso di pretendere dai suoi redattori. Ma un momento dopo, immaginiamo, ecco che come un chiodo puntuto il sospetto avrà preso a straziarlo. Cosa nasconde, in realtà, quella notizia? Quale congiura? Quale comunista inciucio? Spettrale l'ombra del baffo gli si è manifestata. E dunque bisognava indagare, controllare, aguzzare la vista. Le linci dattilografe non mancano al Corriere. Il più adatto sarebbe stato Battista. Ma, chissà, forse era impegnato a disvelare i crimini di Menenio Agrippa e della sinistra della plebe. Così come Ichino stava facendo con la sinistra fannullona. E Panebianco con la sinistra talebana. Fu allora che Mieli chiamò Sergio Romano, e s'alzò alto un nitrito. Era il baio che l'ambasciatore cavalcava, come ogni mattina, nella bruma prima di dedicarsi all'epistolario intrattenuto con il barone Otto von Bismarck sulla battaglia di Sadowa.

Scherziamo naturalmente. Ma il resto è tutto vero e tutto stampato. Sotto il titolo "La commistione", l'editoriale di prima pagina del "Corriere" di ieri, martedì 17 aprile 2007, rappresenta un infondato, pretestuoso, offensivo processo alle intenzioni contro un giornalista, Rinaldo Gianola, e contro un giornale, il nostro. Periodo dopo periodo, frase dopo frase si procede per insinuazioni, allusioni, malignità. Il tutto appeso ai cattivi pensieri dell'estensore e del suo committente. Il commissario Romano è insospettito dal "tono leggero del giornalista" e dal "pizzico di distaccata ironia" con cui comunica le sue informazioni ai lettori. E poi, eh eh, "il conflitto di interessi di Berlusconi e le possibili ricadute politiche di tale operazione, trattati con levità e garbo". Prove schiaccianti, diciamolo, del complotto tra "finanza rossa e finanza azzurra", ordito dal duo Colaninno-Berlusconi, lanciato dall'"Unità", benedetto da Massimo D'Alema. Quest'ultimo ritratto, non a caso, accanto all'attuale presidente della Piaggio, che fu già proprietario di Telecom nel '99 quando, guarda un po', lo stesso D'Alema era presidente del Consiglio. A condire l'inesorabile requisitoria di Romano alcuni stravaganti riferimenti ai modi bruschi con cui Putin ha disperso i manifestanti di Mosca e San Pietroburgo con il sostegno di Berlusconi, e al compromesso storico di Berlinguer. Infine, l'ambasciatore, prima di tornare a colloquiare con il principe di Metternich e il sultano di Costantinopoli si lascia cogliere da un attimo di commozione immaginando lo sgomento e l'indignazione dei fedeli lettori de "l'Unità" davanti a un simile scempio. A rileggerlo, un perfetto monologo da teatro dell'assurdo. Da rappresentare con alcune comparse appese ai lampadari e l'irruzione dell'apposito personale sanitario. E mentre cala il sipario immaginiamo Paolo Mieli e Sergio Romano impegnati a discutere con l'azionista di riferimento Marco Tronchetti Provera sul tema suggerito giorni fa da Guido Rossi: Chicago anni Venti, la notte di san Valentino e l'etica del capitalismo. apadellaro@unita.it.


 

Italia Oggi 18-4-2007 Di Pietro a casa Tronchetti Sorpresa: il ministro compra da Pirelli e poi affitta all'Italia dei valori Franco Bechis.

 

La sorpresa è arrivata ieri dalla presentazione delle dichiarazioni dei redditi dei membri del governo in carica. Antonio Di Pietro e Marco Tronchetti Provera sono stati controparte in affari. Sì, proprio i due nemici acerrimi nel caso Telecom di queste ore. E chissà se la trattativa precedente non abbia inciso sull'atteggiamento di questi giorni. Il ministro delle Infrastrutture ha infatti comprato casa proprio dall'azionista principale del gruppo telefonico. Una lunga trattativa condotta fra la An.to.cri. srl interamente posseduta da Di Pietro e la Iniziative immobiliari di Gavirano del gruppo Pirelli Real estate. Che alla fine ha portato alla vendita di un appartamento in via Felice Casati 1/A a Milano., con garanzia di un mutuo Bnl (...) Quel mutuo per una casa di 9 vani ha 15 anni di durata, un valore di partenza di 300 mila euro da restituire in rate semestrali di 12.580, 48 euro a tasso di interesse variabile: una quota fissa pari a 0,90 punti per anno e una variabile costituita dal tasso Euribor semestrale arrotondato allo 0,05% superiore. L'immobile è stato affittato da Di Pietro al movimento politico da lui presieduto, l'Italia dei Valori, che di affitto paga qualcosa in più delle rate del mutuo dovute. Stessa operazione Di Pietro padrone di casa- Italia dei valori in affitto per somme appena superiori è stata compiuta a Roma sempre dalla stessa società familiare del ministro, la An.to.cri. srl (sono le iniziali dei tre figli, Anna, Toto e Cristiano). L'appartamento acquistato è un po' più grande (10,5 vani), il mutuo è stato erogato ancora una volta dalla Banca nazionale del lavoro, e l'inquilino destinato con il suo affitto ad ammortizzare l'investimento del ministro è proprio l'Italia dei valori. In tutto la società di Di Pietro, che peraltro è amministrata dal tesoriere del movimento politico, Silvana Mura e dal marito, Claudio Bellotti, ricava qualcosa in più di 60 mila euro all'anno. Per comprare il primo e il secondo immobile e garantire la gestione della società Di Pietro ha però dovuto aprire e non poco il borsellino di famiglia (i mutui sono concessi alla società e non a lui), versando a titolo di finanziamento da parte del socio unico la bellezza di un milione e 183 mila euro. Le finanze del ministro delle infrastrutture non si sono dissanguate per questo. C'è stato spazio infatti per un altro acquisto, addirittura in Bulgaria, dove Di Pietro ha rilevato il 50% di una società di Varna, la Suco. Una discreta attività per il rappresentante di un governo che per la sua prima uscita pubblica davanti al fisco ha preferito tenere un profilo più che basso. Quasi tutti i ministri e i sottosegretari hanno partecipazioni immobiliari e mobiliari di tutto rispetto, ma da Romano Prodi in giù il reddito imponibile dichiarato all'esordio risulta notevolmente più basso di quello dei predecessori (Silvio Berlusconi a parte, con cui non c'era proprio gara...)


 

L’Arena di Verona 18-4-2007 Studio: gli stranieri temono il Belpaese Competitività, Italia battuta da Turchia Polonia e Ungheria Le cause: burocrazia, tasse e costi energia

 

Bruxelles. L'Italia resta al palo sul fronte della competitività. Lontana anni luce da Stati Uniti e Giappone, si conferma ultima tra i Paesi più sviluppati dell'Ue. Non solo: per capacità di attrarre investimenti si piazza al diciottesimo posto, dopo Paesi come Ungheria, Grecia, Turchia, Polonia e Repubblica Ceca. La fotografia è quella scattata da uno studio della fondazione Ambrosetti, dal quale emerge un dato preoccupante: negli ultimi due anni l'Italia non ha fatto significativi passi in avanti sul fronte del funzionamento del sistema-Paese, mantenendo la stessa posizione in classifica del 2005. Anzi, allarma il fatto che alcuni degli aspetti più penalizzanti per la competitività continuino ad avere un andamento negativo. Un trend che ci allontana sempre più dai nostri partner europei e dai nostri principali concorrenti extra-Ue: tasse e costo del lavoro troppo elevati - a partire dal cuneo fiscale e contributivo - caro energia che non ha eguali nel resto d'Europa, poche risorse pubbliche per lo sviluppo di ricerca e innovazione. Ma sul banco degli imputati ci sono anche le istituzioni finanziarie, la cui trasparenza appare minata dagli scandali degli ultimi anni, soprattutto agli occhi degli investitori stranieri. Non a caso il dato più allarmante del rapporto Ambrosetti è quello che vede l'Italia maglia nera in Europa proprio sul terreno della capacità di attirare business. Ad allontanare i potenziali investitori è soprattutto l'elevato livello della tassazione sulle imprese - da quelle sui profitti ai contributi sociali e previdenziali - che pone il nostro Paese al primo posto tra i Paesi industrializzati. A scoraggiare chi vorrebbe 'sbarcarè nel nostro Paese sono poi la bolletta energetica pagata dalle industrie (più alta solo in Turchia e in Giappone) e il costo della burocrazia, soprattutto per quel che riguarda l'avvio di nuove attività. Ma a rendere poco appetibile il nostro Paese è anche la cornice finanziaria, dai tassi di interesse a breve e lungo termine alla trasparenza delle stesse istituzioni che dovrebbero regolare e vigilare: l'Italia è al diciannovesimo posto, dopo il Portogallo e di poco davanti a Slovenia, Turchia e Ungheria. Ma a frenare la competitività ci sono altri fattori, che pure negli ultimi anni hanno fatto registrare dei miglioramenti: la carenza di infrastrutture, la struttura demografica (basso tasso di fertilità e popolazione anziana in aumento ci pongono al ventottesimo posto tra i Paesi più sviluppati), legalità e sicurezza dei cittadini, un'età pensionabile ancora troppo bassa rispetto alla media europea.


 

La Stampa 17-4-2007 Torino. Novantamila famiglie senza soldi per l'affitto MARINA CASSI

 

Accanto a chi fatica a trovare una casa decente a un prezzo non da incubo ci sono migliaia di alloggi vuoti: 424 mila in Piemonte e 33.500 a Torino e provincia

 

TORINO
Poveri inquilini. Che fatica pagare l’affitto e le spese della casa. Oltre 90 mila famiglie torinesi non ce la fanno e sono in condizioni di seria o grave difficoltà. Lo sostiene la Cisl che ha analizzato - ieri in un convegno del suo sindacato inquilini, il Sicet - una ricerca sul disagio abitativo realizzata dal Cicsene. 

Il quadro che viene fuori è bruttino: il 26% delle famiglie torinesi che abita in locazione soffre di disagio economico; il che vuol dire che una su quattro stenta a arrivare a fine mese, e di queste il 17,5 può essere considerata in condizioni di povertà. Giovanni Baratta, segretario del Sicet, spiega che questo piccolo esercito è composto «da anziani soli, da madri e padri single con figli a carico, da giovani ai margini del mercato del lavoro, da immigrati». E aggiunge: «Una società deve porsi l’obiettivo di dare una abitazione adeguata a tutti e con un affitto che le persone siano in grado di pagare».

Gli affitti, si sa, sono aumentati costantemente: nel 2001 il Comune con la sua sezione statistica valutava che l’affitto medio per stanza fosse di 105 euro al mese, già diventati 126 nel 2006. E poi questa è solo una media. La ricerca della Cisl racconta una realtà variegata tra i vari quartieri, ma con una media di 630 euro mensili. Il Centro Crocetta è la zona meno accessibile, con un canone medio di circa 780 euro mensili. Santa Rita si attesta su 620 euro, San Paolo sui 606 euro. Le circoscrizioni 4, 5, 6 e 7 che sono le più periferiche, ovviamente costano meno. In Borgata Vittoria, Vallette e Madonna di Campagna un canone medio è di poco inferiore ai 510 euro. Mentre a Lingotto e Mirafiori Nord si oscilla tra 630 e i 575 euro. Prezzi che incentivano anche l’aumento degli sfratti per morosità: 1.943 lo scorso anno. 

Accanto a chi fatica a trovare una casa decente a un prezzo non da incubo ci sono migliaia di alloggi vuoti: 424 mila in Piemonte e 33.500 a Torino e provincia. Un paradosso che si somma al paradosso di una città che è tutta un fiorir di cantieri da cui però sono esclusi i più poveri. E Baratta dice: «E’ vero che negli ultimi anni si sono edificati molti alloggi, ma troppo pochi di edilizia pubblica. Con le Olimpiadi si è persa un’occasione storica: il riutilizzo delle aree industriali dismesse doveva portare alla costruzione di più case popolari. Se l’eredità olimpica ci avesse lasciato 2 mila appartamenti anziché 550 forse sarebbe finita l’emergenza abitativa».

Che la difficoltà economica si stia estendendo lo rileva da tempo anche l’Atc che vede andare in crisi famiglie che prima riuscivano a pagare il canone sociale che è peraltro rapportato al reddito. Crescono i morosi veri, quelli che proprio non ce la fanno. E per queste persone il vicesindaco Tom Dealessandri ipotizza interventi misti pubblico-privato per aiutare o chi va in difficoltà momentanea e rischia di non riuscire a pagare il mutuo con la possibilità di perdere la casa o chi ha dei buchi di reddito. E poi naturalmente c’è la proposta - che è anche del Sicet - di estendere l’esperienza di Locare, il contratto garantito dal Comune che incentiva il proprietario a affittare la propria casa.


 

Europa 18-4-2007 Il Pd nasce senza Repubblica di (f.b.)

Sette giorni consecutivi di sciopero dei giornalisti del quotidiano più letto d’Italia nella settimana cruciale dei congressi in cui Ds e Margherita danno il via al Partito democratico: a memoria, una contesa più aspra di questa si ricorda solo negli anni ’70 alla Stampa, quando i poligrafici decisero 18 giorni di fermo.
A Repubblica i giornalisti hanno deciso di rispondere così a quella che ritengono l’ennesima provocazione del loro editore, sedicente «tessera numero 1 del Pd», che, dicono agita convinzioni liberal fuori di casa per mostrare invece il pugno di ferro fra le mura domestiche.
La vertenza fra i redattori di Repubblica e Carlo De Benedetti è datata e ruota attorno alle questioni di sempre: l’organizzazione del lavoro a fronte dell’espansione multimediale del gruppo, la defi- nizione del contratto integrativo collegata al mancato rinnovo di quello nazionale. L’editore ha negato sempre il confronto. Sicché, quando ha respinto l’ultima piattaforma proposta dal cdr, specifi- cando che non sostituirà i giornalisti in malattia per gravi motivi, la bomba è scoppiata. La redazione è compatta, lo sciopero è stato votato da oltre 200 giornalisti che hanno annunciato che domani saranno a Firenze, al congresso Ds, per leggere un documento in cui chiederanno al governo di intervenire sul contratto nazionale. Chiara anche l’intenzione di «coinvolgere» Ds e Dl nella contesa: in effetti, la notizia che i due congressi non avranno la copertura proprio di Repubblicaè un problema per i due partiti.
Ma il clima è esasperato anche da questioni legate alla vicenda Mastrogiacomo. Dopo l’assassinio dell’autista e dell’interprete la redazione, con il forte sostegno di Ezio Mauro, ha raccolto 80 mila euro per le famiglie, chiedendo all’editore di partecipare.
È arrivato un altro niet «in nome della tutela dei giornalisti in Afghanistan». Argomento che non convince i giornalisti, i quali temono che nasconda piuttosto una sconfessione della linea del direttore. Qualcuno arriva a chiedersi se non si stia per caso covando un cambio di vertice. Va detto che se c’è un risultato che quel no ha prodotto, è stato proprio il ricompattamento della redazione con la direzione: fatto non scontato.
De Benedetti tace. Alcune stime dicono che questi sette giorni gli costeranno parecchio: fra mancate vendite e pubblicità, più di sette milioni di euro. Probabilmente non parlerà nemmeno oggi, all’assemblea dei soci del gruppo Espresso-Repubblica convocata presso la Fieg. Un silenzio che fa pensare che voglia tirare dritto.


 

Il Riformista 18-4-2007 Sorpresa: niente Repubblica al gala del figlioccio di Fabrizio d’Esposito


La battuta più efficace arriva mentre sta parlando Paolo Serventi Longhi, segretario della Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti. Serventi Longhi sta rivolgendo un appello ai leader politici amici della tessera numero uno del futuro Partito democratico. In pratica un messaggio diretto a Walter Veltroni e Francesco Rutelli: «Perché non chiedono a Carlo De Benedetti e a suo figlio Rodolfo se la situazione di Repubblica e dell’intero gruppo Espresso non vìola e mortifica il manifesto del Pd laddove parla di democrazia nei luoghi di lavoro, corrette relazioni sindacali e partecipazione attiva dei lavoratori?». A quel punto dal fondo della saletta si alza una voce che corregge il segretario della Fnsi: «Perché invece non gli chiedono di restituire la tessera numero uno?». Piano meno uno della sede di Repubblica al civico novanta di via Cristoforo Colombo. Il comitato di redazione del quotidiano di Ezio Mauro ha convocato una conferenza stampa per spiegare le ragioni dello sciopero di sette giorni indetto lunedì scorso. E cioè la decisione della proprietà, il gruppo editoriale L’Espresso spa presieduto dall’Ingegnere, di non concedere sostituzioni per malattie lunghe (infortuni, tumori e maternità a rischio). 
Al di là però del motivo specifico, così come già accaduto a dicembre quando dalle tredicesime furono decurtati i giorni di sciopero per il contratto nazionale, la protesta del principale giornale-partito italiano assume una forte valenza politica. Primo perché lo sciopero cade in un grande momento di svolta segnato dai congressi di Ds e Margherita che sanciranno la nascita del Pd, di cui il quotidiano di via Cristoforo Colombo può considerarsi il padre putativo. Poi perché lo scontro tra l’azienda della tessera numero uno del Pd e le redazioni del suo gruppo (in difficoltà non ci sono solo i giornalisti di Repubblica) è ormai così forte e visibile da essere diventato un caso imbarazzante e delicato per i vertici di Quercia e Margherita. 
Come riassume bene un autorevole deputato ds: «In questo scontro noi stiamo dalla parte dei giornalisti, ma il problema è che non si può parlare male di De Benedetti. Guai a farlo. Chi di noi si è esposto in tal senso si è preso una bella ramanzina da Fassino». Dice, invece, a microfoni aperti, Roberto Cuillo, responsabile informazione dei Ds e fedelissimo del segretario: «Noi abbiamo solidarizzato più volte con la redazione di Repubblica, dove da tempo è in corso una vertenza aspra e lunga con l’editore. Ma lo sciopero durante i due congressi rischia di fare male più a noi che a De Benedetti». Sulla stessa linea anche il rutelliano Renzo Lusetti, omologo di Cuillo nella Margherita: «Questo sciopero ci mette in seria difficoltà nel corso di un passaggio epocale, storico. Ai giornalisti, cui pure abbiamo manifestato la nostra solidarietà, chiediamo di differire lo sciopero». Ma difficilmente la richiesta dei due partiti fondatori della nuova creatura politica sarà accolta dall’assemblea dei redattori del quotidiano di Mauro. Ieri, infatti, durante la conferenza stampa i giornalisti di Repubblica non solo hanno confermato l’intenzione di non mollare («Non cederemo mai sulla dignità del nostro lavoro») ma per la prima volta hanno anche steso sotto gli occhi di tutti i panni sporchi di famiglia. In questo senso, l’intervento più appassionato e chiaro è stato quello di Mauro Piccoli, uno dei veterani del giornale. 
Piccoli ha rivolto a Carlo De Benedetti tre domande devastanti. La prima sulle voci che riferiscono di un scontro violento tra l’Ingegnere e suo figlio Rodolfo, supportato dall’amministratore delegato Marco Benedetto, intorno alle strategie editoriali della famiglia. In pratica l’asse RDB-Benedetto vorrebbe tagliare e vendere per concentrarsi su altri interessi (Alitalia, energia elettrica, autostrade). Ecco quindi Piccoli: «Questo giornale, negli ultimi due anni, è tornato in testa alle classifiche di vendita, superando il Corriere della Sera, e vanta un bilancio ampiamente in attivo. Tutto ciò è stato raggiunto da questa direzione e da questa redazione. E allora mi chiedo se sia giusto tenere così a stecchetto la redazione. O forse dobbiamo ritenere vero quello che si sussurra nei corridoi e cioè che c’è un contrasto nella famiglia De Benedetti dove c’è chi il giornale lo vuole vendere?». La seconda questione è molto scivolosa, perché riguarda il rifiuto della proprietà di aderire alla sottoscrizione lanciata da Mauro a favore delle famiglie dell’autista e dell’interprete afghani di Daniele Mastrogiacomo, uccisi dai talebani durante e dopo il sequestro dell’inviato di Repubblica: «Per la sottoscrizione l’azienda non ha messo una lira. A precisa richiesta ha detto no, ufficialmente per tutelare i giornalisti da possibili ritorsioni. Mi chiedo se dietro non ci sia dell’altro come la sconfessione della linea tenuta da Ezio Mauro nella vicenda Mastrogiacomo. Forse l’azienda vuole abbreviargli la proroga del mandato di cinque anni, visto che Mauro non è un direttore da tagli e da multimedialità selvaggia?». Infine una richiesta esplicita di dimissioni al falco Benedetto, l’ad del gruppo: «Quando a dicembre facemmo due giorni di sciopero contro i tagli alle tredicesime, vincemmo poi la battaglia e in quell’occasione si vociferò di una minaccia di dimissioni da parte dell’amministratore delegato. E, chiedo, se viene sconfessato ancora una volta, non riterrà opportuno doversi dimettere?». 
Insomma, un clima da guerra, in cui il direttore Mauro, dicono anonimamente alcuni giornalisti, sarebbe schierato con la redazione (ma dall’azienda fanno sapere in maniera ufficiosa che il direttore è «allineato perfettamente») e il fondatore Scalfari con la proprietà. Come che sia, la tribù di Repubblica non seguirà i due congressi storici di Ds e Margherita. Meglio, una pattuglia di cronisti sarà presente. Ma per chiedere ai vertici del futuro Pd se il loro editore è degno della tessera numero uno, non per scrivere.


INDICE 17-4-2007

 

++ Primadinoi.it 17-4-2007  Crack Finmek: Gdf sequestra beni per 15 mln euro

+ AgenParl 17-4-2007 VENGO E ME NE VADO…AD APRIRE IL MIO CANTIERE

+ AgenParl 17-4-2007 CAMERA: BERLUSCONI E' PAPERONE, PRODI DEPUTATO PIU' 'POVERO'

Il Sole 24 Ore 17-4-2007 Telecom: AT&T si ritira, resta in corsa America Movil. Carlo Buora: sulla rete piena fiducia nell'Authority. Grillo ai vertici: "Dimettetevi". Speciale assemblee: il bilancio Telecom Il caso Telecom: cronaca, analisi e commenti del Sole

La Gazzetta di Modena 17-4-2007 Ma da sinistra avvertono: "La At&t faceva da parafulmine" (Di Pietro) e Zanda: "I messicani volevano lo spezzatino" La destra denuncia: "Capitali stranieri in fuga dall'Italia"

Il Piccolo di Trieste 17-4-2007  L'ombra del Cavaliere. Alfredo Recanatesi.

Europa 17-4-2007 Il dolcissimo Putin di Silvio di FEDERICO ORLANDO

L’Unità 17-4-2007 Democratico sì ma anche laico?

Il Riformista 17-4-2007 Reichlin, Scalfari e la sindrome da male inevitabile di Emanuele Macaluso

Il Riformista 17-4-2007 Un’identità artificiale non è sufficiente a superare il bipolarismo ideologico di Carlo Costalli

Primonumero.it 16-4-2007 Le case si moltiplicano ma i termolesi non le comprano di Daniela Fiorilli

 

 


++ Primadinoi.it 17-4-2007  Crack Finmek: Gdf sequestra beni per 15 mln euro

 

Inviato da Redazione (113 letture)

VENEZIA. Beni per 15 milioni di euro sono stati posti sotto sequestro dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza di Venezia nell'ambito di un'inchiesta del tribunale di Padova sul crack della Finmek, che vede tra gli indagati Carlo Fulchir e Roberto Tronchetti Provera (fratello di Marco Tronchetti Provera). I militari delle Fiamme gialle hanno messo i sigilli, tra l' Italia e l'Austria, a due ville, una barca, conti correnti bancari e 22 partecipazioni societarie.

Quello di stamattina è un nuovo passo in avanti delle indagini, coordinate dal pm Paola De Franceschi, iniziate nel 2005 dal pm Bruno Cherchi sul crack del gruppo Finmek, l’azienda di ingegneria elettronica delle telecomunicazioni con sede a Padova, a seguito dell'emissione di un bond per 150 milioni di euro.
Il sequestro dei beni di oggi, disposti dal gip padovano Cristina Cavaggion, si accompagna a nuovi avvisi di garanzia per lo stesso Fulchir, 45 anni, di Buja (Udine), Paolo Campagnolo, 43 anni, di Cittadella (Padova) e sua moglie Doris Nicoloso, 45 anni, e Guido Sommella, 61 anni, di Roma, già coinvolti nella prima tranche dell'inchiesta. Sono tutti accusati di malversazione, riciclaggio e frode fiscale.
I finanzieri hanno potuto accertare che il Gruppo Finmek aveva nel tempo fatto una serie di acquisizioni societarie, finalizzate allo sviluppo di grossi progetti imprenditoriali, usufruendo anche di consistenti contributi pubblici, senza provvedere al ripianamento delle situazioni di crisi esistenti. 
Inoltre sarebbe stata creata una ragnatela di società, tra l' Italia e l'estero, con l'obiettivo di svuotare le risorse, e quindi portando di fatto all'inevitabile fallimento del gruppo. La Finmek aveva usufruito, e usufruisce tuttora, dei benefici finalizzati al salvataggio delle grandi aziende in crisi, già applicati alla Parmalat.

LE SOCIETA’ COINVOLTE

Le società coinvolte nel crack, facenti tutte parti del gruppo, sono dislocate tra l’Abruzzo e la Campania, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria. Tra le più note Telit, ex Olivetti, Italtel, Ixtant e Ixfin. Già due anni fa la Guardia di finanza veneziana aveva accertato che il passivo della Finmek era di circa un miliardo di euro, con oltre 11 mila istanze di creditori. Il crack mise sulla strada quasi 4 mila dipendenti. Le indagini delle Fiamme gialle si sono sviluppate anche attraverso rogatorie internazionali tra Lussemburgo, Svizzera, Regno Unito, Madeira, Isola di Man, Gnernsey, Austria e Romania. 

DICHIARATA INSOLVENTE NEL 2004


La Finmek, , era stata dichiarata insolvente il 12 maggio 2004 e ha potuto beneficiare del decreto del ministro Antonio Marzano. Il gruppo, presieduto all' epoca da Roberto Tronchetti Provera, avrebbe acquistato e ceduto aziende, disperdendo capitali che hanno portato la società al fallimento.
Le manovre societarie, nell'ipotesi dell'accusa, avrebbero fatto diventare carta straccia i bond emessi dalla Finmek nel 2001 per un valore di quasi 150 milioni di euro. Nell'inchiesta furono indagate 14 persone tutte variamente coinvolte nella gestione del gruppo Finmek, accusate di bancarotta fraudolenta. Tra queste appunto Fulker, ex consigliere economico per l' innovazione tecnologica nel governo d'Alema e nel contempo socio di Marcello dell'Utri nella società editoriale "Il domenicale".

LE PREOCCUPAZIONI DELL’AZIENDA 


Il ministero dello Sviluppo Economico é al lavoro per trovare «soluzioni industriali credibili» per i siti produttivi della Finmek, tra cui quelli dell'Aquila e di Sulmona. Presso la sede del dicastero si è infatti svolto oggi un incontro con presenti Franco Raffaldini, per il Ministero, il Commissario Vidal e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali nazionali, territoriali e aziendali di Fim, Fiom Uilm.
I delegati sindacali, si legge in una nota, hanno manifestato «forti preoccupazioni sulle prospettive industriali e occupazionali, in particolare per gli stabilimenti dell'Aquila, Sulmona, Santa Maria Capua Vetere e Pagani, segnalando inoltre con fermezza il problema della scadenza dei termini previsti dalla legge Marzano per la fine di Agosto 2007». 
Raffaldini ha invece illustrato l'attività svolta «alla ricerca di soluzioni industriali credibili nei diversi siti produttivi e ha ricordato le possibilità offerte dall'utilizzo dei nuovi strumenti di protezione sociale previsti in Finanziaria, quali la mobilità lunga e gli sgravi contributivi per gli assunti; si è altresì impegnato a verificare nuove ipotesi che aiutino il completamento positivo di processi d'industrializzazione».
Entro il 10 Maggio è prevista la convocazione di un nuovo incontro presso il Ministero dello Sviluppo. 

GUARDA L'INCHIESTA DI REPORT

17/04/2007 14.10


+ AgenParl 17-4-2007 VENGO E ME NE VADO…AD APRIRE IL MIO CANTIERE

 

Roma, 17 Aprile 2007 – AgenParl – Mussi ha deciso. Andrà a Firenze al Congresso della Quercia per salutare i vecchi compagni e soprattutto per annunciare che lasciando “il partito che non c’è” lo riaprirà per dare una casa alla sinistra italiana.
Il correntone quindi aprirà un nuovo cantiere che, secondo il progetto dei suoi leader, dovrà convogliare in un unico contenitore di tutti i cespugli della diaspora socialista e diessina che, in un modo o nell’altro, si riconoscono nell’appartenenza al filone del Pse e cioè nel socialismo europeo di intonazione social-democratica.
Su questa linea, Mussi pensa di raccogliere sia i socialisti dello SDI che quelli che con De Michelis hanno abbandonato la Casa delle Libertà.
Questo progetto, naturalmente sconvolge i piani del cantiere bertinottiano che era stato aperto proprio allo scopo di offrire al correntone una nuova allocazione.
Allocazione che però comporterebbe l’uscita dal PSE per aderire al gruppo della “Sinistra Europea” costituita a suo tempo da Rifondazione Comunista e dal Partito Socialista tedesco di La Fontaine e di Gysi.
Quindi sulla nuova formazione che i “fuoriusciti” costituiranno, abbandonando il Congresso di Firenze, dovrebbero confluire, come già accennato, oltre alle schegge della diaspora socialista anche i Verdi il cui leader Pecoraro Scanio ha precisato ancora una volta che il suo partito “non fa parte della sinistra alternativa”.
Il che lascia ritenere che del cantiere di Bertinotti faranno parte soltanto il PRC e il partito dei Comunisti Italiani.

 

+ AgenParl 17-4-2007 CAMERA: BERLUSCONI E' PAPERONE, PRODI DEPUTATO PIU' 'POVERO'

Roma, 17 Aprile 2007 – AgenParl – Anche quest'anno Silvio Berlusconi si conferma il piu' ricco tra i leader politici alla Camera. Per il 2005 il presidente di Forza Italia ha dichiarato 28.033.122 euro. Per il 2004 il suo reddito era di 3.550.391 euro. Il leader piu' 'povero' e' invece il presidente del Consiglio Romano Prodi: ha dichiarato 89.514 euro.
E' quanto si evince dalle dichiarazioni dei redditi per il 2005 dei deputati.
Fra i leader alla Camera, Berlusconi e' seguito da Francesco Nucara (Pri, 289.255), dall'ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini (Udc, 214.787), e da Gianfranco Fini (An, 200.677).
In fondo alla classifica, Prodi e' preceduto solo da Franco Giordano (Prc, penultimo con 129.569 euro) e Francesco Rutelli (Dl, terzultimo con 132.500).
Ecco, di seguito, la classifica dei redditi per il 2005 dei leader di partito eletti alla Camera dei deputati.

 

 


Il Sole 24 Ore 17-4-2007 Telecom: AT&T si ritira, resta in corsa America Movil. Carlo Buora: sulla rete piena fiducia nell'Authority. Grillo ai vertici: "Dimettetevi". Speciale assemblee: il bilancio Telecom Il caso Telecom: cronaca, analisi e commenti del Sole

 

Ore 23,20 Buora: modello rete manterrà proprietà nel gruppo Il modello da adottare per quanto riguarda il futuro della rete di Telecom punterà "a mantenere ben salda la proprietà" in capo al gruppo di tlc. Lo ha riferito il vicepresidente esecutivo di Telecom Italia Carlo Buora replicando alle domande poste dagli azionisti nel corso dell'assemblea. "Il modello che verrà raccomandato all'Autorità - ha spiegato Buora - manterrà ben salda in Telecom Italia la proprietà della rete" e prevederà "una modalità di accesso alla rete" che si rifà al "cosiddetto modello inglese openreach". Nessuna indicazione sul valore della rete "Non è una società a se stante oggi - ha proseguito Buora - quindi non si possono fornire elementi qualitativi e quantitativi. Il valore dell'asset rete non è pertanto individuabile". Ore 22,30 Buora: sul riassetto non siamo parte in causa Carlo Buora, vice presidente esecutivo, respinge con cortesia le domande sul riassetto di Olimpia dopo il ritiro di At&T dalle trattative per l'acquisto di un terzo della holding che controlla il 18% di Telecom. "Su Olimpia e sul suo riassetto non siamo parte in causa" ha detto Buora rispondendo alle domande degli azionisti. Ore 22,15 Buora a Grillo: non approvo le gravi contestazioni Beppe Grillo deve assumersi la responsabilità di quello che ha detto oggi al suo intervento all'assemblea di Telecom Italia "ad ogni effetto di legge": infatti, secondo il vicepresidente esecutivo della società telefonica Carlo Buora, "la sua stanchezza per aver passato, come ha detto lui stesso, la notte fuori dai cancelli, non giustifica la gravità delle contestazioni, che naturalmente non approvo". Dopo molte ore dal suo intervento, è con queste parole che Buora ha replicato alle durissime critiche del comico genovese, ribattendogli punto per punto. In particolare, sul tema dell'inchiesta della procura di Milano sulla security della società, Buora ha ricordato che si tratta di "comportamenti deviati di dipendenti infedeli: non esistono controlli che non possano essere elusi. Non intendo sminuire la gravità di quanto accaduto - ha proseguito Buora - e le procedure e i sistemi di controllo sono stati ora ulteriormente arricchiti. Non mi sento affatto colpevole di quanto accaduto - ha concluso il vicepresidente di Telecom - se no non mi troverei qui, al contrario, mi ritengo a mia volta vittima di raggiri". Ore 22 La replica di Buora: sulla rete piena fiducia nell'Authority Telecom Italia conferma "piena fiducia nell'Authory e auspica che le decisioni che prenderà in futuro tengano conto della tutela degli investimenti della società". Così il vicepresidente Carlo Buora ha risposto agli azionisti che gli hanno chiesto durante l'assemblea chiarimenti a proposito del futuro della rete. "La società - ha proseguito Buora - auspica parità di trattamento interno ed esterno per accesso rete" confermandi che "il management interverrà per tutelare il valore di un asset di cui è liberamente e totalmente proprietaria". Il vicepresidente del gruppo di Tlc ha parlato della rete come di "asset strategico del quale in futuro il consiglio di amministrazione si occuperà con l'Authority" con la quale ha ricordato che "da novembre scorso sono in corso contatti a questo fine". In particolare ha sottolineato l'attività di una task force tecnica istituita nel dicembre 2006 "per coordinare i lavori con Telecom per l'apertura della rete" Ore 21,45 Pirelli "prende atto" del ritiro di AT&T Pirelli & C. SpA prende atto del ritiro dell'offerta presentata lo scorso 1 aprile da AT&T per un terzo del capitale di Olimpia, motivato con le possibili difficoltà regolatorie connesse all'operazione. La società prende altresì atto della contestuale intenzione di América Móvil di continuare, congiuntamente a Teléfonos de México S.A.B de C.V.("Telmex"), a considerare differenti alternative per un potenziale investimento in Olimpia. Pirelli & C. SpA, inoltre, ribadisce "l'intenzione di esplorare tutte le possibili opzioni per la migliore valorizzazione strategica dell'asset nell'interesse di tutti gli azionisti, e di continuare, nel frattempo, a operare affinché Olimpia continui a esercitare pienamente i propri diritti e doveri di azionista di Telecom Italia". Ore 20,25 AT&T ufficializza la rinuncia At&T ha confermato di aver posto fine ai negoziati in vista della potenziale acquisizione di un terzo del capitale di Olimpia, la holding che controlla circa il 18% del capitale ordinario di Telecom Italia. In una nota, la società statunitense afferma di aver apprezzato l'opportunità di poter esplorare un possibile investimento in Olimpia e una partnership strategica con Telecom Italia, ma di aver deciso di chiudere il dossier. Ore 20,05 AT&T: l'abbandono per incertezze normative È stato il "timore dell'incertezza normativa" che ha spinto AT&T a ritirarsi dalla partita per Telecom Italia. È quanto trapela da fonti vicine all'operazione, in assenza per ora di commenti ufficiali, da tutte le parti coinvolte, sul ritiro del colosso americano. Il Wall Street Journal online afferma che la decisione di AT&T è stata notificata oggi alla Pirelli. Ore 19,50 America Movil resta in corsa America Movil resta in corsa. Lo si apprende da fonti vicine al gruppo americano dopo la notizia del ritiro di At&T. "America Movil annuncia oggi che dopo il ritiro della statunitense AT&T dai negoziati esclusivi con Pirelli & C per la potenziale acquisizione di un interesse in Olimpia, continuerà, insieme a Telmex, a considerare diverse alternative per un potenziale investimento in Olimpia". Lo afferma una nota ufficiale dell'operatore sudamericano. Ore 19,30 Pirelli e Telecom pesanti nell'after-hours Pirelli e Telecom Italia pesanti nelle contrattazioni dell'after-hours sulla notizia che gli americani di AT&T si sono ritirati dalla corsa per rilevare il 33% di Olimpia, la holding che controlla il gruppo telefonico e partecipata all'80% dalla società della Bicocca. Il titolo Pirelli perde il 3,5% a quota 0,8705 euro, Telecom il 2,3% a 2,33 euro. Nella seduta diurna i titoli hanno chiuso deboli: Pirelli ha guadagnato lo 0,1% a 0,9021 euro, Telecom ha ceduto lo 0,3% a 2,385 euro. Ore 19,10 Colaninno: Telecom? Società interessante "Ritengo la Telecom una società interessante, ma non so se possa essere gestita con le caratteristiche industriali che vogliamo noi". Lo ha detto Roberto Colaninno a una domanda su un suo interesse per la società telefonica. Ore 18,50 AT&T annuncia il ritiro dalla corsa per Telecom L'americana At&t ha ritirato l'offerta in tandem con America Movil sul 66% di Olimpia, la holding che controlla Telecom Italia. La notizia, anticipata da 'The Wall Street Journal online, è stata confermata da fonti vicine all'operazione. L'offerta "aveva sollevato proteste, in Italia, in merito alla possibilità che una società straniera potesse acquisire il controllo" della compagnia telefonica. Secondo "una persona vicina all'operazione", non citata dal quotidiano newyorchese, At&t "ha notificato nella mattinata a Pirelli" la propria decisione. Olimpia conferma. Ore 17,20 Gentiloni: tra un paio di giorni decisione su rete "Stiamo valutando assieme al ministro Chiti. Nel giro di un paio di giorni decideremo". Così Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni, risponde a una domanda su quale Ddl potrà ospiterà l'emendamento sui poteri dell'Autorità per le Comunicazioni per quanto riguardo la rete di Telecom. Il ministro, a margine di un convegno alla Stampa estera, ha precisato che sul piatto esistono varie ipotesi: oltre al Ddl Bersani e al Ddl sulle Authority su cui ha parlato la stampa di recente, non è escluso neanche il Ddl comunitario. Ore 16,15 Bankitalia voterà lista istituzionale, si astiene su stock option La Banca d'Italia "voterà la lista di minoranza" presentata dagli investitori istituzionali", come nella prassi ormai adottata con l'obiettivo "di favorire l'attività di monitoraggio e controllo che questi possono esercitare", mentre "si asterrà dalle deliberazioni sul piano di assegnazione gratuita" di azioni ai manager, cioè il piano di stock option. Lo ha reso noto il rappresentante dell'Istituto centrale, detentore dell'1,68% del capitale. Ore 16 Cusani propone il modello Fiat Sergio Cusani propone il modello Fiat per Telecom Italia e suggerisce di ridurre la quota dell'utile destinata ai dividendi, favorendo invece gli investimenti. Parlando all'assemblea dei soci in corso a Rozzano l'ex protagonista di Mani Pulite, ora consulente finanziario della Cgil, si è espresso con un intervento tecnico analizzando e criticando le singole voci di bilancio tra cui la classificazione dei ricavi e i rapporti con Pirelli. "Telecom ha realizzato operazioni alchemiche distribuendo in questi anni dividendi superiori agli utili massimizzando la remunerazione del capitale di rischio rispetto agli investimenti" ha affermato. Cusani ha proposto quindi di seguire l'esempio della Fiat e "destinare nel 2007 il 25% dell'utile a dividendi mentre per il 2006 occorre fissare tale quota al 50%" contro oltre il 90% proposto dal cda. Cusani ha quindi esortato i soci a respingere la proposta di assegnazione di stock option ai dirigenti e ha criticato i rapporti del gruppo con Pirelli che "sono incoerenti e stridenti con la gestione autonoma di un grande gruppo come Telecom". "Chiedo al cda - ha spiegato - di chiarire la durata, i costi, le penali dei contratti passivi con Pirelli e le ricadute sull'organizzazione del gruppo". Ore 15,50 Cusani: no a piano stock option e meno pay out Bocciatura della proposta del piano di stock option per i dirigenti e maggiore riduzione del pay out. Queste le proposte avanzate da Sergio Cusani, in qualità di presidente della Banca della Solidarietà, all'assemblea degli azionisti di Telecom. Cusani ha anche avanzato critiche su operazioni e contratti con il gruppo Pirelli e sulla classificazione dei ricavi di Telecom. Ore 15,30 Dopo quattro ore 22 interventi sui 60 previsti A quattro ore circa dall'avvio dell'assemblea Telecom si è giunti al ventiduesimo intervento sul primo punto all'ordine del giorno, l'approvazione del bilancio. In agenda, secondo l'aggiornamento appena comunicato dal vicepresidente Carlo Buora, sono finora 60 gli interventi previsti. Attualmente il capitale ordinario rappresentato è il 36,24% a fronte del 36,06% in avvio. Ore 14,45 Prodi: non sono un "grillo presente" "Non sono un grillo presente lì; non so dire niente, sono qui a Tokyo in una atmosfera rarefatta, diversa dall'assemblea". Con questa battuta Romano Prodi ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano con quale stato d'animo seguisse l'assemblea degli azionisti Telecom in corso in Italia. "Ma Beppe Grillo è lì, è stato un gioco di parole voluto?", gli è stato chiesto. "Non casuale", si è limitato a replicare il presidente del Consiglio sorridendo. Ore 14,28 Lannutti (Adusbef): nel nostro Paese mancano i capitani coraggiosi "Nel nostro paese mancano capitani coraggiosi che possano mettere dei soldi e prendere un'azienda comeTelecom". Ad affermarlo è il presidente dell'Adusbef, Elio Lanutti, nel corso del suo intervento all'assemblea Telecom in corso a Rozzano (Mi). Nei 15 minuti a disposizione Lannutti ha prima commentato "la sfiducia rivolta al professor Guido Rossi, l'unico che aveva cercato di portare una ventata di trasparenza nella societá" sottolineando poi "l'importanza per il Paese di Telecom". "Quando in un paese comici e 'gabibbì devono difendere i diritti dei cittadini -ha poi proseguito Lannutti- vuol dire che in quel paese c'è una malattia". Quindi il presidente di Adusbef ha commentato "la vendita del patrimonio immobiliare della societá", come un evidente "conflitto di interesse visto che si sono venduti palazzi per poi riprenderli in affitto. Questo -ha concluso- significa impoverire il parco buoi". Ore 13,47 Grillo: "A Dublino e in Estonia si telefona già con il Wi-max". "Negli Stati Uniti questi dirigenti in mezz'ora prenderebbero 20 anni di galera, perchè sono ancora qui?". Se lo è chiesto ancora Grillo verso la conclusione del suo intervento durante l'assemblea di Telecom Italia. Aggiungendo poi che "dall'analisi dei bilanci fatta da un semplice ragioniere come me" è chiaro che "la privatizzazione ha spogliato i ricavi" dell'azienda. Grillo è quindi tornato a criticare il possibile ingresso della cordata At&T e America Movil. "È chiaro che il messicano Carlos Slim (patron di America Movil, ndr) vuole le attività in Brasile. Attività che rendono e questi dirigenti subito la vogliono vendere, pensa un poco...". Infine il comico ha affermato che "a Londra, Dublino e in Estonia si telefona usando la tecnologia wi-max, loro sono indietro di 20 anni. Ora si apre la gara qui in Italia, non lasciamogliela a loro. La dorsale deve essere pubblica e lasciamo che le società si scannino sopra per i servizi che noi potremo scegliere". Ore 13,28 Grillo ai vertici Telecom: "Dimettetevi". "Vorrei chiudere con un appello alla vostra dignità dimettetevi fate questo gesto ve lo chiede il Paese". Così Beppe Grillo ha concluso il suo intervento all'assemblea dei soci azionisti in corso a Rozzano. Poco prima aveva detto: "Guido Rossi ha parlato di una Chicago degli anni '20 e vorrei proprio sapere chi è Al Capone". Battute e frecciate anche al limite della denuncia. "Faccio il comico e qui non dovrei esserci - ha detto Grillo - ma penso a quelle migliaia di piccoli azionisti che mi hanno dato la delega e che non posso rappresentare perchè la Consob ha fatto una legge perchè non potessero essere rappresentati". Quanto al presidente Marco Tronchetti Provera, ha mandato un avviso dicendo che non poteva esserci perché ammalato. "È proprio vero - ha sottolineato il comico genovese - che il mondo si è rovesciato: Tronchetti che manda un avviso invece che riceverlo". Ore 13,11 Vicenda intercettazioni, Buora: "Grave danno d'immagine". La vicenda giudiziaria che ha coinvolto la security di Telecom ha recato un grave danno all'immagine dell'azienda e la societá ha fornito un leale supporto all'azione della magistratura . A dirlo è il vice presidente esecutivo del gruppo Carlo Buora che presiede l'assemblea di Telecom in corso nella sede di Rozzano, alle porte di Milano. Le indagini, ha detto, hanno portato "un grave danno alla societá e problemi anche rilevanti". Problemi che sono e sono stati un spunto per "continuare a migliorare i meccanismi operativi del gruppo". Telecom, che, ha sottolineato Buora, nell'inchiesta è parte lesa, "ha fornito una completa e reale collaborazione e continuerà a farlo". Una collaboraziona "senza reticenze e senza obliqui tentativi di proteggere chicchesia". Ore 12,57 Bersani: mercoledì la proposta per la rete. "Mercoledì o più avanti faremo una proposta sulla rete al Parlamento, una proposta che va nella direzione di quanto accade negli altri Paesi, noi siamo un Paese normale e non un paese speciale". Lo ha detto il ministro per lo Sviluppo economico Pierluigi Bersani, riferendosi alla rete di Telecom a margine di una riunione del tavolo per Milano. "Non ci sarà nessuna sorpresa, tratteremo l'oggetto della rete come gli altri Paesi, pensando cioè alla autonomia, alla possibilità di accesso e al radicamento nazionale e alla possibilità di fare investimenti". Ore 12,48 Tre liste per il cda. Le liste da votare per l'elezione dei membri del cda Telecom sono tre: quella Olimpia, quella di Hopa e quella dei fondi. E' quanto confermato dal vicepresidente esecutivo del gruppo Carlo Buora che presiede l'assemblea Telecom. In particolare la lista Olimpia conta su 17 candidati: Carlo Puri Negri, Claudio De Conto, Luciano Gobbi, Gilberto Benetton, Gianni Mion, Carlo Buora, Riccardo Ruggiero, Aldo Minucci, Renato Pagliaro, Francesco Gori, Lucio Pinto, e gli indipendenti Paolo Baratta, Diana Bracco, Domenico De Sole, Luigi Fausti, Jean Paul Fitoussi e Pistorio. La lista Holinvest, controllata di Hopa che detiene il 3,7% di Telecom, invece è composta dal presidente di Asm Brescia, Renzo Capra, e dal presidente di Fingruppo Cesare Giovanni Vecchio. Infine la lista dei fondi presentata da Arca prevede come candidati: l'economista Luigi Zingales, il direttore generale dell'Eni Stefano Cao e il giurista Guido Ferrarini. Buora ha poi ricordato che all'odg della parte ordinaria dell'assemblea c'è la riduzione del numero di componenti del board da 20 a 19 e della sua durata in carica, prevista in un solo esercizio. Ore 12,47 Buora: "L'azienda è sana". Telecom è "tutto fuorchè un malato da risanare. Non ha alcun bisogno di essere risanata". Così il vice presidente Carlo Buora ha commentato il bilancio 2006 all'ordine del giorno, sottolineando i risultati "ancora una volta eccellenti: una chiara e incontestabile dimostrazione che la società è strutturalmente sana e robusta, capace come è stata lo scorso anno di resistere ai contraccolpi che hanno avuto la discontinuità del vertice e le indagini". Ore 12,45 Gli azionisti ora sono 357 (36,24%) Dopo un'ora e mezza dall'inizio dell'assemblea, gli azionisti presenti all'assemblea di Telecom, in corso a Rozzano, in sala passano da 284 a 357, in rappresentanza di 931 azionisti, pari al 36,24% del capitale. Ore 12,35 Buora: sulle intercettazioni leale collaborazione con la magistratura Telecom ha contribuito alle indagini della magistratura sulle intercettazioni illegali con una "completa e leale collaborazione e continuerà a farlo". Lo ha detto il vice presidente Carlo Buora sottolineando che la società ha fornito le informazioni "senza reticenze e senza obliqui tentativi di proteggere chicchessia". Telecom, ha ribadito Buora, è nell'indagine "persona offesa da reato e nessun addebito le è stato fatto in sede giudiziaria". Ore 12,30 Grillo e Cusani iscritti a parlare. Voto all'alba?. Il primo piccolo azionista di Telecom ha preso la parola in assemblea poco dopo le 12.30 e dopo di lui sono già una cinquantina gli iscritti a parlare per la parte ordinaria. Tra i primi a parlare anche il comico Beppe Grillo e Sergio Cusani, ma ci sono anche ex dipendenti e piccoli investitori e se tutti sfrutteranno i 15 minuti a loro disposizione secondo il regolamento dell'assemblea non si inizierà a votare prima dell'alba. Prende la parola, anche se non era iscritta a parlare, anche una rappresentante della Cub, che con toni accesi esprime la propria preoccupazione per l'occupazione dei lavoratori. Sei ore di interventi a cui seguiranno le risposte e poi dovrebbero aver diritto ad ulteriori minuti per le repliche. Si procederà quindi alle votazioni per i dieci punti all'ordine del giorno della parte ordinaria. Ore 11,40 Passera: pronti a ingresso temporaneo "Telecom è una società molto importante e con un potenziale non del tutto emerso. Potremmo prendere in considerazione una partecipazione se questa è un buona operazione e può contribuire allo sviluppo della società. Abbiamo già fatto investimenti in un certo numero di società su base temporanea come sostegno al management e a un cambiamento. Avremo la stesso atteggiamento". Lo ha detto l'ad di Intesa SanPaolo Corrado Passera. "Quello che abbiamo fatto in altri casi, nel chiaro interesse dei soci, non c'è ragione di non farlo per una società importante come Telecom", ha aggiunto. Ore 11,35 Troppa gente: Buora chiede l'intervento dei pompieri Troppa gente sta assiepando l'auditorio Telecom di Rozzano dove è in corso l'assemblea degli azionisti, tant'è che il vice presidente esecutivo, Carlo Buora, su invito urgente dei vigili del fuoco, ha chiesto ai presenti di lasciare libere le uscite di sicurezza. "In caso contrario - ha detto Buora - i vigili del fuoco ci obbligheranno a lasciare la sala". Ore 11,30 Bankitalia deposita l'1,68% La Banca d'Italia ha depositato le proprie azioni, pari all'1,686%, per l'assemblea Telecom. Risulta dalle comunicazioni di deposito rese note dalla società. Depositate anche le azioni di Olimpia, Holinvest, Mediobanca, Generali e Pirelli (1,36%). La società ha inoltre reso noti i maggiori soci, oltre a quelli sopra la soglia rilevante del 2%: dalle risultanze a libro soci, aggiornate con le certificazioni assembleari, emergono quindi Mediobanca (1,96%), Maple Bank con l'1,85%, Bnl con l'1,5%, Jp Morgan con l'1,2% e, con l'1,91%, la Fincamuna di Romain Zaleski, che già aveva anticipato che non sarebbe stato presente. Ore 11,10 Gli azionisti partecipanti sono 832 (36,06%) "Alle ore 11.10 gli azionisti partecipanti all' assemblea Telecom - in proprio o per delega - sono 832, rappresentanti il 36,06% delle azioni ordinarie". Così Carlo Buora, vice presidente esecutivo di Telecom, avviando l'assemblea. Confermati i numeri appena aggiornati degli azionisti sopra il 2%: Olimpia con il 17,99%, Hopa con il 3,7%, Brandes Investment con il 5,43%, Assicurazioni Generali con il 4,06%. Ore 11 Via all'assemblea in perfetto orario Carlo Buora, il vicepresidente esecutivo di Telecom Italia ha dichiarato aperta ai lavori l'assemblea, in perfetto orario sulla convocazione, leggendo l'ordine del giorno. Tra i vari punti l'approvazione del bilancio e il rinnovo del cda. Ore 11 Cusani: voglio capire le strategie "Non sono preoccupato, bisogna capire dove l'azienda voglia andare, si chiamano strategie". Così l'ex finanziere Sergio Cusani, oggi consulente della Cgil, ha espresso il proprio stato d'animo all'ingresso dell'assemblea degli azionisti di Telecom Italia. "Speriamo che sia utile e proficuo", ha concluso correndo verso il banco di registrazione sfuggendo alle domande dei cronisti. Ore 11 Beppe Grillo: dov'è Tronchetti? Piccolo show del comico Beppe Grillo prima dell'avvio dei lavori assembleari di Telecom Italia. Grillo, presente come azionista, ha incontrato la stampa fuori dai cancelli della sede della Telecom a Rozzano. "Tronchetti non c'è - ha spiegato -, non è venuto neanche questa volta, la prima fu due anni fa a Siena in cui doveva parlare di etica dell' informazione con Andreotti!". Grillo ha anticipato alcuni argomenti del suo intervento in assemblea: "Chiederò - ha detto - dove sono finiti i 45 miliardi espropriati ai piccoli azionisti e perchè questi non possono avere una rappresentanza vera". Il comico ha quindi ricordato come la Consob "mi ha mandato tre lettere dicendo che posso creare turbativa, con il presidente della Consob Cardia ormai ho un rapporto di affetto". Grillo ha quindi mostrato il bilancio Telecom giudicandolo come "una cosa da neuropsichiatria, si sono venduti tutto". A chi gli chiedeva come giudicasse la possibile offerta della cordata formata dagli americani di At&T e dell'America Movil del miliardario messicano Carlos Slim, il comico ha risposto: "Figurati se uno degli uomini più ricchi del mondo si compra un cadavere simile, comunque con il 13% del capitale della società la controllerebbe, una percentuale ancora inferiore a quella di cui disponeva Tronchetti". Rivolto poi al presidio dei sindacati che stazionano davanti ai cancelli Grillo ha spiegato: "Dovevate venire qui in 80 mila perchè se arriva il messicano caccerà 30 mila di voi". Ore 9 L'Unità: cordata Berlusconi-Colaninno SilvioBerlusconi e Roberto Colaninno entrano nella partita Telecom. L'indiscrezione compare sulla prima pagina dell'Unità e fa seguito alle anticipazioni della vigilia di 'Il Messaggerò, che aveva parlato di "un nuovo piano Olimpia per mettere insieme Telefonica, Colaninno, la Fininvest di Berlusconi, Benetton, Fondazioni, Mediobanca e Intesa Sanpaolo da sole oppure unite. Il tutto mentre i legali di At&t e America Movil potrebbero portare a termine la due diligence entro giovedì". Oggi L'Unità "analizza in particolare la "soluzione tricolore tra Milano e Mantova", sottolineando le differenze "per stile, formazione e interessi" tra due imprenditori come Berlusconi e Colaninno, con quest'ultimo che "può darsi che sogni di tornare a Telecom con le fanfare e il tappeto rosso dopo esserne stato buttato fuori nell'estate del 2001.Il quotidiano osserva inoltre che le strade di Mediobanca e Intesa "non si sono ancora incontrate nell'operazione per dare una continuità italiana al controllo di Telecom, che potrà realizzarsi, naturalmente, solo se Marco Tronchetti Provera non cederà la maggioranza di Olimpia-Telecom alla coppia At&t-America Movil". Sulle indiscrezioni da registrare il no comment sia di Roberto Colaninno sia di Fininvest.

 


La Gazzetta di Modena 17-4-2007 Ma da sinistra avvertono: "La At&t faceva da parafulmine" (Di Pietro) e Zanda: "I messicani volevano lo spezzatino" La destra denuncia: "Capitali stranieri in fuga dall'Italia"

 

ROMA. Prima del ritiro di At&t (notizia arrivata quando a Tokio era notte fonda) il premier Romano Prodi, in visita in Giappone, su Telecom se l'era cavata con una battuta: "Non c'ero, non ero un Grillo presente e quindi non posso dirvi niente". Dopo il no degli americani i primi a commentare sono i radicali, sia quelli della maggioranza, Capezzone, che dell'opposizione, Della Vedova. "La politica - dice Daniele Capezzone, presidente della Commissione Attività produttive - ha respinto una grande invasione. Ma resta il fatto che i grandi investitori internazionali quando vedono beghe politiche che possono avvelenare il clima e sabbie mobili che possono inghiottire tutto, se ne vanno". "Se At&t rinuncia non si potrà che registrare una sconfitta per l'economia italiana - commenta Benedetto Della Vedova, Forza Italia - quali che siano le ragioni ufficiali del ritiro il fatto che il governo si sia mosso in modo esplicito per ostacolare At&t resterà come un macigno, che resterà anche sul futuro dell'azienda". Lanfranco Turci, eletto come Capezzone nella Rosa nel pugno, ma di area socialista, dà dell'accaduto un'interpretazione opposta: "Non so se At&t si ritirerà, ma se gli investitori stranieri devono venire in Italia e ripetere i giochi dei nostri capitalisti alla Tronchetti Provera, meglio perderli che trovarli". Il ministro Antonio Di Pietro non si stupisce del ritiro di At&t: "Ho sempre pensato che il vero interessato a quel pacchetto fosse quel messicano strano strano (il miliardario Carlos Slim, ndr) con tutti quei suoi aiuti politici strani strani. "Ho sempre sospettato - ha aggiunto Di Pietro - che l'At&t servisse soltanto da parafulmine per un'operazione di speculazione finanziaria. Mi auguro che la finanza e l'imprenditoria italiana tirino fuori i polmoni affinché le reti italiane possano ancora essere riferimento di credibilità e professionalità di cui il Paese ha bisogno". Per Maurizio Gasparri, dell'esecutivo di An, "la sinistra italiana altera la Borsa, mette in fuga investitori americani, spagnoli e di ogni altra parte del mondo e mette in ginocchio le aziende italiane". Secondo il vicepresidente dei senatori dell'Ulivo Luigi Zanda "la decisione di At&T di ritirare l'offerta per l'acquisizione del 33% di Olimpia dovrebbe indurre la Consob a guardare con ancor più attenzione alla vicenda Telecom. Intanto sarebbe interessante saper perché AT&T ha cambiato opinione. Viene da pensare che il vero interesse al controllo di Telecom fosse in realtà quello del messicano Carlo Slim con l'idea di procedere a un successivo 'spezzatino'. E' singolare che intorno aTelecom, nel giro di pochi mesi, prima sia apparso l'australiano Murdoch, poi la spagnola Telefonica, quindi sia arrivata la At&T, poi sia stato cacciato Guido Rossi e alla fine é scomparsa la At&T. Mi chiedo quali effetti abbiano avuto tutti questi movimenti sul valore dei titoli coinvolti".(a.g.).


Il Piccolo di Trieste 17-4-2007  L'ombra del Cavaliere. Alfredo Recanatesi.

 

DALLA PRIMA PAGINA Tutto quanto aveva focalizzato l'attenzione sulla giornata di ieri è passato in secondo piano di fronte al consolidamento delle voci, circolate fin da domenica, su una iniziativa di Berlusconi, appunto, alternativa a quella della americana AT&T e della messicana Movil. Il Cavaliere aggiungerebbe così un aggettivo al suo titolo per diventare il cavaliere bianco, difensore della italianità della Telecom, un valore che le vestali del liberismo disprezzano e deridono, ma che, magari senza dirlo, i più condividono. Stando alle ipotesi che ieri hanno assunto consistenza, Berlusconi si sarebbe messo a capo, insieme a Colaninno (quel Colaninno che vendette a caro prezzo il controllo della Telecom a Tronchetti e che ora se lo ricomprerebbe ad un prezzo almeno di un quarto più basso) di una cosiddetta cordata della quale farebbero parte altri imprenditori (si parla di Del Vecchio e dei Benetton), fondazioni bancarie e banche. Che questa iniziativa si sia presa la scena è più che comprensibile. Essa, infatti, è una summa di connotazioni tipiche del nostro Paese, della sua fisiologia finanziaria, del suo capitalismo, dei suoi inveterati intrecci tra economia e politica. Berlusconi imprenditore è in primo luogo Mediaset. Un suo ruolo importante, e a maggior ragione se determinante, nella Telecom configurerebbe ulteriori due conflitti di interesse: uno televisivo, perché la Telecom possiede La7 ed MTv che si aggiungerebbero alle reti di Mediaset; ed uno giuridico, perché alcune tra le principali attività di Telecom sono svolte su concessione statale. I conflitti che si addensano sulla persona del Cavaliere, quindi, non solo non si risolverebbero, ma aumenterebbero ulteriormente. Altra tipicità italiana sarebbe l'intervento di imprenditori industriali in iniziative lontane dalla loro attività primaria. Si tratterebbe, dunque, di partecipazioni essenzialmente finanziarie che, fatte da industriali, hanno quasi sempre tre sostanziali difetti: sono impieghi di risorse talvolta distratte dallo sviluppo delle attività industriali; sono iniziative mirate più al conseguimento di un profitto a breve termine, più che alle fortune di lungo termine dell'azienda; e come tali sono transitorie, e dunque non coerenti con l'esigenza che ogni grande azienda ha di una proprietà stabile che formuli programmi strategici di ampio respiro da perseguire negli anni. La componente più stabile della coalizione di controllo potrebbero essere le fondazioni bancarie che, soprattutto in una utility come l'azienda telefonica, potrebbero trovare un impiego ben sintonizzato con le loro esigenze patrimoniali e con le loro finalità statutarie, ma tutto ovviamente dipenderà dal peso che avranno nella proprietà di Telecom. Le banche, infine, interverrebbero come supporto alla riuscita dell'operazione, con la prospettiva di un tornaconto economico, certo, ma anche con un fine di supporto del sistema-Paese per il quale l'italianità della Telecom, per la rilevanza che ha una importante presenza nazionale in un settore cruciale per la circolazione delle informazioni e per lo sviluppo di nuove tecnologie, non è certo di secondaria rilevanza. Tutto bene, dunque? No. Non può essere considerato positivamente un sistema nel quale, attraverso i regimi concessori, politica ed economia si intrecciano; nel quale gli imprenditori rischiano denari soprattutto delle banche e nel quale le banche effettuano investimenti azionari (e dunque di rischio) con risorse derivanti dai depositi di imprese e famiglie; nel quale siffatti problemi si pongono perché la legge ammette (ecco il mercato!) che attraverso una catena di società finanziarie abilmente creata e dipanata un signore che ha una infima quota di proprietà può fare il bello ed il cattivo tempo di una azienda della dimensione e della rilevanza della Telecom. Ma per quanto tutto questo non sia certamente positivo, ben venga comunque se vale ad impedire che il controllo della azienda telefonica possa andare in mani straniere in genere e, più in particolare, nelle mani di una AT&T che, a dispetto del suo grande passato, ora è essenzialmente una finanziaria che compra aziende telefoniche per rivenderle dopo tre o quattro anni, e di una Movil messicana il cui interesse nella partita è, e non può che essere, quello di mettere le mani su Tim-Brasile. Di problemi da risolvere, di leggi da ammodernare, di norme da rivedere perché l'Italia si avvicini al paradigma degli ordinamenti degli altri Paesi europei ce ne sono una moltitudine come proprio la vicenda della Telecom in queste settimane ci ha fatto toccare con mano. Ma in nessun caso questo può essere un motivo per allargare le braccia ed, in ossequio al presunto primato delle leggi di mercato, assistere passivamente alla conquista da parte straniera di una azienda come la Telecom.


 

Europa 17-4-2007 Il dolcissimo Putin di Silvio di FEDERICO ORLANDO

Chiusi temporaneamente i silos dei missili intercontinentali, «oggi non c’è più la minaccia dell’arma nucleare, ma dell’arma energetica, soprattutto gas naturale», ci spiega Lamberto Dini in un’intervista al Corriere della Sera, parlando di Putin: «Davvero un grande leader» che ha evitato alla Russia di scoppiare come una grande Jugoslavia. «Ma è chiaro che quando c’è una situazione di oligopolio, sia esso privato o statale, è difficile che prevalgano i meccanismi di mercato tout court». Forse è anche per la comune natura di oligopolisti, l’uno dell’energia l’altro delle comunicazioni, che Putin e Berlusconi marciano come due innamorati: al punto che il nostro definisce “dolcissimo” il capo del Cremlino, parlando con un fanatico mullah di Forza Italia che, dal dossier Mitrokhin in poi, ha sempre visto nel leader russo un tenente colonnello del Kgb.
Le immagini ridenti del dolcissimo ex colonnello e dell’ex premier italiano, in gruppo con robusti cultori di arti marziali e attori di western violenti, si alternavano domenica nelle trasmissioni di tutte le tv del mondo, dalla Cnn a al Jazeera, alle manganellate di migliaia di poliziotti di San Pietroburgo contro gli oppositori dell’amico Vladimir: quattro gatti, ma proprio quattro, al punto che l’amico Silvio ha tirato fuori dal cilindro un dvd con le immagini dei 2 milioni di piazza San Giovanni: di questi dovresti aver paura, s’è gloriato, senza aggiungere che nemmeno Prodi, che non è Putin, ne ha avuto paura.
Insomma, un quadretto idilliaco, di amici in vacanza, anche se nella sosta russa non è mancato un incontro di lavoro, Iran, rapporti russo-europei, aziende energetiche italiane (Eni e Enel) nel grande paese.
Forse qui cade l’asino. Perché il “dolcissimo” fa affari per la Russia (e forse pensa anche per sé, nell’imminente “uscita” dalla politica); e dunque i partner senza più potere, si chiamino Aznar o Berlusconi, già considerati al Cremino “amici speciali”, ora debbono offrirgli nuove contropartite. Il nostro, quand’era premier, pensò di entrare indirettamente nella partita energetica – lo ricordava sabato su Europa il collega Del Vecchio –. Così, nel maggio 2005, Eni e Gazprom stabilivano che i russi avrebbero piazzato due miliardi di metri cubi in Italia appoggiandosi a una società milanese del signor Bruno Mentasti, «da molti considerato un prestanome del Cavaliere». Ma il grande rilievo mediatico fece saltare l’operazione, che il governo Prodi ha ripreso nello scorso autunno addirittura per 3 miliardi di metri cubi, ma senza ancora decidere quale sarà l’azienda italiana a cui i russi dovranno appoggiarsi. Ne avranno parlato, magari riaprendo il vecchio dossier del 2005, Putin e Silvio sulle rive del Baltico? Pura ipotesi, s’intende. Più certo, è che il ceruleo umbratile Baltico diventerà sempre più azzurro e solare. Sapete com’è, il clima cambia, e cambiano le zone climatiche, la fauna, la flora e anche il turismo e l’edilizia connessa. Se si svuotano un po’ Rimini e il Forte, magari perché diventano un po’ sahariani, dove vanno milioni di famigliole del sud e centroeuropa? Magari sul Baltico. E perché non costruire sul Baltico una nuova Milano 5 o 6 o 7? Abbiamo esperienza, il mondo si globalizza, l’edilizia è una delle chiavi dello sviluppo, come proprio in questi giorni conferma la depressione dell’economia americana per l’afflosciamento della bolla speculativa sulle costruzioni. Fulmineo nei suoi riflessi, il capo di Forza Italia, della televisione, dell’edilizia, della pubblicità, delle assicurazioni, lancia subito una battuta spiritosa: organizzerà a San Pietroburgo il prossimo vertice di Forza Italia, 19 palazzine per le regioni (che sono 20) e una per lui e il suo stato maggiore. Il solito mullah barbuto di Forza Italia si tira fuori pensando sempre a Mitrokhin, ma son cose che si dicono giusto per evitare che il colore della barba da bianco ritorni rosso qual era. E del resto dove sta il problema. Berlusconi è fra i 30 uomini più ricchi del mondo, può comprarsi interi mari e cementificarli. Si tratta di diversificare gli investimenti.
Semmai, il problema è un altro, proprio quello sul quale non si sono esercitati nel week end i nostri commentatori, intenti a strologare sulla durata del governo Prodi, sulla spartizione del tesoretto, sulla mancata morte di Mastrogiacomo che avrebbe fatto così comodo per rimandare a Bologna il professore. È il problema degli ex politici che fanno affari, come Schröder o Aznar o Clinton: ex politici, appunto, non politici in campo, come il Cavaliere. È il problema delle dichiarazioni che il Cavaliere ha rilasciato su Putin, debolmente contraddetto dalla ministra del commercio estero Bonino che, dopo anni di battaglie radicali su Cecenia, Ossezia del Nord e altre vicende caucasiche, si trova prigioniera del made in Italy, perché l’Ice espone ai Grandi Magazzini Gum di Mosca, proprio in questi giorni, abbigliamento, profumeria, pelletteria, calzature, enogastronomici, mobili, illuminazione, automobili, motocicli. Quando si dice le combinazioni.
Come fa, la brava Emma, a fare la radicale nel momento in cui deve fare il ministro del commercio estero? Nel momento in cui il Cavaliere – ignorando Cecenia, Ossezia, Inghuscezia, bombardamento di Groznyj e stragi alla scuola di Beslan o al teatro Dubrowka di Mosca, avvelenamenti col polonio e ammazzamenti di giornalisti (dal radicale Russo alla russa Politkovskaja), fino alle cariche in piazza contro gli oppositori – prevede sfracelli per il governo Prodi- Bonino e dice che «la Russia ha avuto in Putin una guida molto positiva», che «crede nella democrazia», che non si vedono i sintomi di quella democrazia minore di cui si parla, che la repressione del dissenso è gonfiata dai giornali, che «bisogna interpretare il passaggio dal totalitarismo alla democrazia alla luce di quello che esiste»? Del resto, lo dice – con ben altro stile – anche il nostro amico Dini: «Guai se avessero vinto le forze centrifughe», non è stato facile governare un paese che abbraccia due continenti e vive la transizione dal totalitarismo alla democrazia e dall’economia di stato all’economia di mercato.
Ma nessuno di noi contesta queste realtà.
Tutt’al più, preferiamo altre democrazie.
E soprattutto contestiamo che satrapi, oligarchi e oligopolisti indigeni e stranieri possano ancora essere modelli per l’Italia. Come invece piacerebbe alla platea dell’Udc, che stringe in trionfo il Cavaliere proprio alla vigilia della partenza per la Russia. Sempre con la speranza che gli cada qualche spicciolo dalla tasca. 
               


L’Unità 17-4-2007 Democratico sì ma anche laico?

 

Carlo Flamigni In un articolo di qualche settimana fa su "Repubblica" Vincenzo Cerami esponeva le molte ragioni che, a suo parere, dimostrano che del Partito Democratico, in realtà, abbiamo tutti bisogno. Mi ha particolarmente colpito, tra le varie motivazioni di Cerami, questa: "Il Partito Democratico apre le porte che fino a ieri tenevano separati laici e cattolici, democratici di De Gasperi e democratici di Berlinguer, democratici di Nenni e democratici cristiani. Liberarsi di quei cancelli, mischiando le diversità sotto la stessa bandiera, svuota di senso i vecchi conflitti... fa nascere un nuovo senso di appartenenza... ben disposto agli scambi di esperienza e di cultura". Nello stesso giornale si poteva leggere una dichiarazione di Fassino che il giornalista riassumeva così: "Non ci sarà una scissione dei Ds", affermazione ribadita da Romano Prodi che diceva: "Dissensi sì, questa è la democrazia. Ma non credo che ci saranno scissioni nella Quercia". Debbo riconoscere che queste letture hanno avuto effetto sul mio prudente ottimismo, trasformandolo in ansiosa e confusa perplessità. Vedo di spiegarmi. Ho firmato la mozione Mussi per molte ragioni, la più importante delle quali dipende, debbo riconoscerlo, dalla mia identità di laico, frequentemente in conflitto, soprattutto negli ultimi 20 anni, con una parte influente del mondo cattolico, collocata (purtroppo) nell'una e nell'altra parte dello schieramento politico; debbo anche ammettere che il fantasma più fastidioso che visita i miei incubi notturni riguarda la possibilità di ritrovarmi prima o poi a militare in una Democrazia Cristiana di sinistra, un destino al quale vorrei disperatamente sfuggire. Debbo infatti ammettere di sentirmi separato dai cattolici (non tutti) e dai democristiani (tutti) non dai cancelli ai quali allude Cerami, ma da mura più spesse di quelle dell'inespugnabile Troia. Se posso avanzare una timida critica nei confronti delle previsioni di Cerami, mi sembra che il suo articolo ipersemplificasse il problema: abbattiamo i cancelli, scriveva, mescoliamoci, e op-là tutto è risolto: scopriremo dunque che le ragioni del dissenso che hanno consumato i nostri nervi sono futili, banali, puerili, forse addirittura inesistenti, destinate a dissolversi al primo abbraccio fraterno. In fondo Cerami mi dà del cretino, ma questo non mi scuote: aumenta la mia perplessità. Diventa però essenziale, a questo punto, interpretare le parole di Fassino. Perché diceva, allora, che non ci sarà una scissione nel partito, cosa sa lui che noi non sappiamo? Ci stava forse dicendo - il linguaggio della politica è misterioso - "ci penso io, risolvo io problemi e dissensi, lasciatemi fare"? Ho molta fiducia in Fassino ma, in tutta sincerità, non l'ho mai creduto capace di miracoli, almeno fino ad oggi. A questo punto debbo necessariamente chiamare in causa il massimo esponente dell' "avanguardismo cattolico", che personalmente identifico nella persona del Pontefice Benedetto XVI. Mi riferisco in specifico al suo discorso (marzo 2006, salvo errore) ai parlamentari del partito popolare europeo, intitolato "Vita, famiglia, educazione: non negoziabili", dedicato alla tutela della vita, dal concepimento alla morte naturale, al riconoscimento della struttura naturale della famiglia (e alla sua difesa dai tentativi di destabilizzazione), nonché alla tutela del diritto dei genitori di educare i figli. Oltre tutto, Benedetto XVI non ritiene che questi principi siano verità di fede, ma li considera iscritti nella natura umana e quindi comuni a tutta l'umanità. Dunque, a chi chiede di iniziare un dialogo mediatorio su questi principi, la Chiesa è costretta a rispondere "non possumus"; se la richiesta riguardasse una verità di fede, la risposta non potrebbe essere che una dichiarazione di guerra (di religione, le peggiori). Sic et simpliciter. Il 13 marzo di quest'anno lo stesso Pontefice ha ribadito questo concetto, ricordando ai politici cattolici che "sui valori non si negozia" ed esprimendo ancora una volta una severa condanna nei confronti delle "leggi contro natura". Ho cercato sui giornali le reazioni dei politici in particolare di quelli del centro- sinistra. Prevalente il silenzio, soprattutto dei segretari e delle persone più rappresentative; qualche fremito del cosiddetto gruppo dei 60; Rosy Bindi non ha niente da dire; i teodem sono irritati (non sarà il cilicio?); Fassino, non pervenuto. Arrivo alle necessarie, anche se sofferte, conclusioni. I temi sui quali i cattolici non possono negoziare sono - guarda caso - proprio gli stessi dei quali i laici vogliono discutere e, se non è troppo pretendere, cercare qualche possibile tipo di mediazione. Li conoscete: lo statuto ontologico dell'embrione; la disponibilità della vita personale; il confronto tra qualità e sacralità della vita; il riconoscimento delle coppie di fatto; la scuola pubblica; l'aborto; la contraccezione; la libertà della ricerca scientifica e i suoi possibili vincoli; il rapporto tra le religioni e lo stato laico. Se ho capito bene, la risposta alle nostre offerte di dialogo sarebbe sempre e comunque la stessa: non possumus. Evviva l'etica delle verità, al diavolo la compassione, la tolleranza, la laicità e i diritti civili. C'è poco da stare allegri. Però, mi dirà qualcuno a questo punto, questo è il Pontefice, questa è la Cei, questo è il cattolicesimo più integralista: cosa c'entra il Partito Democratico? Parliamone. Una volta che saranno stati abbattuti i cancelli, non ci troveremo faccia a faccia con nuovi e sconosciuti compagni (nel senso di amici): i nostri prossimi interlocutori li conosciamo già, e bene. Non voglio provocare premature crisi di pessimismo, ma il leader dei nostri nuovi compagni (nel senso di amici) non è quel Rutelli che ha fatto approvare la legge 40 e ha contribuito al fallimento del referendum? Lo stesso che non vuole più discutere la legge sulle coppie di fatto? E la signora al suo fianco, non è per caso quella senatrice che ha visto il buon Dio intervenire direttamente sui parlamentari per far cadere il Governo? E non è forse a questi compagni (nel senso di amici) che si rivolge in modo privilegiato il Vaticano quando esige che la coscienza di un parlamentare cattolico prevalga comunque e sempre su sciocchezze come il mandato che gli èstato affidato dai suoi elettori? Non saranno state queste brave persone a impedire che nel documento di programmazione del Partito Democratico non vengano neppure menzionati i molti temi "eticamente sensibili" che stanno tanto a cuore a noi poveri laici miscredenti? Non sarà che questa storia dei cancelli da abbattere è solo una romantica metafora e che le mura di Troia sono altra cosa rispetto a quelle di Gerico? A meno che. A meno che le assicurazioni di Fassino non abbiano quel significato che in realtà mi è sembrato di poter intuire, e che cioè il Segretario sia in grado di arrivare al congresso con una seria proposta di soluzione di questo essenziale problema. A noi, diciamolo pure, basterebbe poco: ad esempio, una dichiarazione nella quale i cattolici che aderiranno al nuovo partito si impegnano a considerare tutti i temi eticamente sensibili come negoziabili. Forse questa è l'ultima possibilità rimasta per conservare, agli eredi della Quercia, un destino comune. Come è obbligatorio tra compagni (nel senso di amici) noi ci fidiamo, ma qualche firma la vorremmo pur trovare, in calce al documento. Fassino sa di quali firme parliamo.

 


 

Il Riformista 17-4-2007 Reichlin, Scalfari e la sindrome da male inevitabile di Emanuele Macaluso


Il Pantheon dei Pd (al plurale perché ognuno ha il suo) è solo un segno del pasticcio politico che coinvolge più i Ds che i margheritini. Reichlin, liquidati i «ripensamenti di Fassino sulla storia passata» insiste e ripete: «è finita un’epoca». La nascita del Pd ha quindi un significato epocale. L’impresa, scrive Alfredo, «è la sola alternativa a un processo di disgregazione del sistema politico italiano che è già in atto e che può portare la crisi della democrazia a esiti drammatici». E se fosse il contrario? Cioè che proprio questa operazione accelera la crisi del sistema e della stessa democrazia? Un grande partito - è un vecchio slogan di Reichlin - non si inventa.
E non basta mettere insieme quel che c’è o quel che residua di due grandi partiti (Pci-Dc) per farne uno con la forza e la capacità di dare soluzione ai problemi del Paese. Tutti i commentatori, da ultimo domenica scorsa Eugenio Scalfari, hanno messo in evidenza come il processo di «unificazione» sia stato solo una contrattazione tra il personale politico dei due partiti. Dice Scalfari: «Sentiamo parlare con eccessiva frequenza ma con parole che non rispondono, non chiariscono, non convincono, alle domande che il tema pone». «Parole - continua l’editorialista di Repubblica - che non rinnovano né i contenuti né il rito né colmano la distanza tra la classe politica e la società». E allora? Se è così, contrariamente a quel che dice Reichlin, sono proprio questi riti “unitari” a indebolire la democrazia.
Dopo aver raccontato come stanno le cose, Scalfari dice che «questo senso di fusione fredda, questa marcata autoreferenzialità debbono essere superate». Bene. Ma da chi? Dagli stessi protagonisti che hanno messo insieme il quadro descritto dallo stesso Scalfari? Si invocano miracoli, ci vuole Padre Pio. Infatti sempre Scalfari scrive: «Eppure - riconosciuta la carica negativa di questa constatazione - resta il fatto che la nascita del Partito democratico sulle spoglie dei Ds e della Margherita è un’assoluta necessità. La strada separata di quei due partiti è arrivata al capolinea». Insomma, la somma di due gruppi dirigenti falliti produrrà una forza vitale. Ma Scalfari ha abbastanza esperienza per sapere che non sempre ciò che è necessario è anche possibile. E quel che ha descritto non sarà certo superato da chi l’ha prodotto.
La verità è che si continua a discutere in astratto evitando di rispondere a domande inquietanti: cosa sono oggi i due partiti che si fondono? Perché - come dice Scalfari - sono al capolinea? Insomma, trovandosi in uno «stato di necessità», i Ds si separano dalla famiglia del socialismo europeo non per «andare oltre», come si usa dire, ma perché non sono stati in grado di tenere il passo con gli sviluppi politico-culturali che hanno caratterizzato l’attività dei partiti socialisti. Unendosi con la Margherita, nel Pd, queste inadeguatezze non saranno superate, ma accentuate, soprattutto sul terreno della laicità e dei diritti individuali. È questa insufficienza di risposte ai processi di modernizzazione che caratterizzano le società europee che potrà accentuare la crisi della democrazia italiana. Ecco perché oggi chi si oppone a questo ripiego dei Ds in nome del socialismo europeo non lo fa solo per fedeltà a una tradizione, a una storia che pure ci appartiene, ma per il domani della sinistra e della democrazia italiana.

 



Il Riformista 17-4-2007 Un’identità artificiale non è sufficiente a superare il bipolarismo ideologico di Carlo Costalli


Dopo quasi quindici anni dalla convulsa fine della prima repubblica e dallo sgretolarsi del sistema dei partiti che l’aveva caratterizzata, si può, oggi più che mai, affermare, parafrasando il Marx del “Manifesto”, che lo “spettro” dell’identità torna ad aggirarsi attraverso il dibattito politico italiano, come emerge anche dal vivace dibattito sul Riformista.
E’ un problema che riemerge con forza, sia per l’area del centrodestra che per quella del centrosinistra. Per quanto riguarda il centrosinistra, con forza ancora maggiore, in ragione della imminente nascita del Partito democratico e della fine dell’esperienza storica iniziata con la scissione di Livorno. La “contaminazione di riformismi” da cui il Pd dovrebbe nascere, non può, infatti, che passare attraverso la sostanziale dismissione dell’identità caratterizzante della cultura politica della sinistra italiana: quella socialista (il comunismo italiano nacque, pur sempre, da una scissione socialista!). Non a caso i dodici saggi che hanno lavorato alla stesura del manifesto del partito, hanno trovato il modo di inserirvi un ossimoro alquanto opinabile e bizzarro scrivendo che i valori del Pd affondano «le loro radici più profonde nel Cristianesimo, nell’illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto» ma non sembra abbiano trovato il modo, almeno a quanto ho letto, di formulare analogo riferimento per il socialismo.
In realtà, il pervicace progetto di reductio ad unum di tutte le forze politiche del centrosinistra e del centrodestra secondo lo schema di un “bipolarismo ideologico” che vuole tutti “o riformisti o conservatori”, come auspicava recentemente Romano Prodi intervistato da Gad Lerner (ma che è anche la filosofia del partito unico del centrodestra!), non rende giustizia alla complessità ed alla ricchezza del tessuto politico, culturale, storico e sociale del nostro Paese, non lo rispecchia e non ne tiene conto.
Mortifica quelle che, veramente, sono le fondamentali identità politico-culturali che hanno guidato la crescita democratica dell’Italia e la sua modernizzazione: quella popolare e quella socialista. Identità che, invece, sono a tutt’oggi indispensabili per un saldo ancoraggio, non solo formale, all’Europa, per un’ulteriore crescita sociale ed economica, per una ripresa di partecipazione democratica nella società superando la deriva plebiscitaria ed oligarchica cui è stata ridotta la politica. Identità, quella popolare e quella socialista, che, paradossalmente, sono l’unico oggettivo riferimento per realizzare, anche in Italia, quello che oggi si usa definire “bipolarismo mite” o maturo.
La tradizione popolare e quella socialdemocratica condividono, seppur in ottiche differenziate, valori fondamentali: la partecipazione, la solidarietà, il rispetto della persona, la tutela dei più deboli. L’insieme di questi valori condivisi consente di poter immaginare il consolidarsi di un bipolarismo non conflittuale. Cioè di un bipolarismo consolidato, sul modello del sistema tedesco. Mi spingo ad ipotizzare che in un simile contesto di solido bipolarismo - senza essere sottoposti al ricatto di lobbies, minoritarie ma potenti, che pretendono d’imporre a tutta la società una loro impostazione ideologica - si sarebbero potuti discutere con ben diversa pacatezza anche i problemi delle persone che vivono in una coppia di fatto per una loro libera scelta che va rispettata.
Era questa a mio avviso, l’evoluzione naturale verso cui si sarebbe avviato il sistema politico italiano dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda. Ma questa evoluzione non c’è stata: “l’invasione di campo” dei primi anni ’90 ha interrotto bruscamente questo processo e ha dato all’Italia quasi 15 anni di interminabile transizione e di eclissi della politica.
Per convinzione, ruolo e storia personale - il Movimento di cui attualmente ho la responsabilità, e in cui milito dalla fondazione, nacque, innanzitutto, per rivendicare e difendere la specifica identità popolare di radice cristiana del movimento operaio - sono molto perplesso e preoccupato di fronte ad ogni prospettiva di smantellamento delle identità, sia nel centrodestra che nel centrosinistra, e sono convinto che ognuno deve difendere e riaffermare la propria identità con orgoglio, seppur senza integralismo.
Non posso nascondere che il progetto di partito unico del centrosinistra (come anche, per altri versi, del centrodestra, anche se in questa direzione il recente Congresso Udc è stato uno “stop” non secondario) mi sembra rappresentare il tentativo di dar vita ad una nuova artificiale identità politica, coltivata “in vitro” - Parisi ha, addirittura, parlato di “mostro” - profondamente estranea alla nostra storia, alla nostra cultura ed alla nostra realtà, ispirato al mito del “bipolarismo ideologico” statunitense dell’asinello e dell’elefante, ma in realtà dominata, come ha dichiarato Tremonti a questo giornale, dal “meccano mentale” della tradizione comunista, depurato dell’identità socialista. Tuttavia, in Italia non ci sono asinelli ed elefanti. C’è invece un robusto tessuto sociale fatto di movimenti, di associazioni, di sindacati, di cooperative, di gente comune che ancora si identifica, alternativamente, nei valori di fondo del popolarismo o del socialismo democratico europeo. Per questo sono convinto che, malgrado tutto, non sarà così facile sradicare dalla nostra cultura politica e dalla nostra storia, identità che hanno radici tanto profonde.


 

Primonumero.it 16-4-2007 Le case si moltiplicano ma i termolesi non le comprano di Daniela Fiorilli


Il paradosso del mercato immobiliare cittadino: le imprese di costruzione aprono nuovi cantieri, i prezzi lievitano, ma le agenzie immobiliari denunciano uno stato di crisi. “Il ceto medio non ha soldi per comprare un appartamento in città”. Aumenta il numero degli acquirenti ‘forestieri’ che vogliono la seconda casa al mare. Gli affitti sono tra i piщ alti del centro sud.

 

Da un lato la redditizia speculazione e dall’altra la crisi: è la doppia faccia del mercato immobiliare termolese. Inaccessibile alle famiglie di ceto medio e spesso ai giovani, e fruttuosissimo per gli investitori di professione, quelli che dal mattone ricavano milioni  di euro l’anno e che continuano a costruire malgrado il mercato locale venga considerato saturo e molti appartamenti rimangano sfitti. Un mistero. 
  
Digitando le parole “agenzia immobiliare” sul sito delle Pagine Gialle e inserendo nello spazio riservato alla città il nome “Termoli”, si scopre che nella cittadina adriatica esistono 46 punti vendita e affitto di appartamenti. Se si ripete la stessa ricerca per Campobasso o Isernia ne saltano fuori solo 27. Il mercato immobiliare della cittadina adriatica doppia quasi quello del capoluogo regionale. Troppa abbondanza, verrebbe da dire. Eppure, guardando i cantieri aperti e quelli che continuano ad aprirsi, le decine di gru in movimento e il via vai di muratori,  sembra che la case sulla costa non bastino mai. Secondo i costruttori del posto, che negli ultimi cinque anni hanno moltiplicato a dismisura il numero dei nuovi edifici nelle zone di periferia e in quelle a ridosso del centro, ci sarebbero centinaia di richieste non soddisfatte e gli appartamenti che sono sul mercato sono oggetto di furibonde contese tra i ‘money man’ del Molise, ma anche di altre regioni. Se invece si va a fare un piccolo sondaggio fra le agenzie immobiliari termolesi, sembra che la corsa al mattone sia in forte rallentamento. 
  
Una spiegazione – ma solo parziale – di questa contraddizione viene dal recente rinato interesse degli acquirenti “di fuori”. Pugliesi, campani, sammartinesi e bassomolisani in genere acquistano casa nelle cittadina adriatica: «Le famiglie residenti nei paesi dell’hinterland lo fanno perché magari hanno i figli che vengono a scuola in città e hanno qui i loro amici e quindi i genitori valutano di trasferirsi, o comunque di comprare una seconda casa a Termoli anche per l’estate o per trasferirsi solo nel fine settimana» dice un costruttore «Poi ci sono i pugliesi e talvolta i campani, che investono in seconda o terza casa per poi affittarla. Termoli in fondo ha il mare e ha tutti i servizi di una città, dunque in Molise è forse il centro di maggior attrazione». 
Lo è evidentemente anche piщ di Campobasso che, benché il capoluogo ospiti l’università da piщ anni e sia sede del tribunale e dei piщ importanti uffici amministrativi e politici della regione. 
  
Eppure i prezzi degli appartamenti non sono poi così vantaggiosi a Termoli dove si può andare dai 1.100 euro al metro quadro della estrema periferia, quella dispersa nella campagna dove scarseggiano anche i servizi basilari, ai 1.800 della prima periferia - cioè quella meglio servita e piщ vicina al cuore urbano - , fino ai 2.300/3000 euro al metro quadro per un’abitazione da ‘vip’ nelle vie centrali, dove trovare un alloggio è ormai cosa difficilissima. Ma le richieste schizzano alle stelle, anche a 4000 euro al metro quadro, quando si tratta di casette particolari, ad esempio con vista mare o con disponibilità di accedere a un pezzetto di giardino, oppure se si trovano nel Borgo Antico e sono già ristrutturate. 
In centro, del resto, perfino un garage da 18 metri quadri può raggiungere il valore di 33mila euro, cioè quasi 2mila al metro quadro, e in generale un box auto – bene per altro introvabile – può costare piщ di un monolocale di periferia. Non sono da meno gli affitti che possono raggiungere i 700 euro al mese per un monolocale ammobiliato, climatizzato e ristrutturato: prezzo, s’intende, per chi affitta tutto l’anno visto che le locazioni limitate ai soli mesi estivi fanno lievitare le cifre sotto l’effetto del solleone. 
Tanto per dare un’idea: lo studio condotto a livello nazionale da una delle tante associazioni di inquilini individua, per un appartamento di piccole dimensioni - 60/70 metri quadri -, un prezzo medio nelle regioni del centro sud a 376 euro al mese. A Termoli si va oltre i 400 euro. 
  
I prezzi da capogiro rendono difficile per le famiglie del ceto medio comprare oppure affittare un’abitazione, e conseguentemente molti giovani non abbandonano il tetto dei genitori. «Malgrado ci siano molti edifici in costruzione, qui a Termoli si lavora poco, c’è molta crisi» dicono i proprietari di numerose agenzie immobiliari della città. Alcuni affermano addirittura di essere stati costretti a ridurre il personale negli ultimi tempi. Perché? «In città non ci sono soldi. I costruttori hanno risposto bene alle richieste degli anni passati realizzando abitazioni a rotta di collo, ma i prezzi continuano a salire. Quelli che se li possono permettere devono disporre di un reddito molto alto. Gli operai, i dipendenti in generale, e le famiglie monoreddito non possono né accendere un mutuo né pagare gli affitti che vengono richiesti». Cosa fanno? «Qualcuno si sposta a San Giacomo, ma anche lì ormai i costi stanno lievitando. I giovani restano a casa con papà e mamma». 
  
Si va lentamente diffondendo anche un fenomeno assai in voga nelle grandi città, e che sta prendendo piede pure a Termoli: la casa condivisa, vale a dire quando tre o quattro giovani lavoratori decidono di convivere, pur non conoscendosi, per dividere le spese. Questo nuovo tipo di “nucleo” a Roma o a Milano permette di far fronte ad affitti che raggiungono anche i 1.600 euro al mese per abitazioni da 80 metriquadri. 
  
Ma quante abitazioni ci sono a Termoli? Un colpo d’occhio sul quartiere di Difesa Grande e su quello di Porticone farebbe pensare che siano almeno il doppio dei 15mila nuclei familiari di Termoli: all’ufficio del catasto tuttavia non dispongono di questo dato.

(Pubblicato il 16/04/2007)


INDICE 16-4-2007

 

++ L’intervento di Beppe Grillo all’assemblea Telecom

++ AgenParl 16-4-2007 SANITA’: FERRERO (PRC), PROPOSTA DI LEGGE PER LIMITARE L’ABUSO DI ALCOL

++ AgenParl 16-4-2007 PD: DO UT DES

+ Il Corriere della Sera 16-4-2007 ASSENTEISMO Quei 6,8 milioni di giornate da recuperare di PIETRO ICHINO

+ Virgilio notizie.it 16-4-2007 Tronchetti Provera, Cardia e confederali nel mirino del comico 16-04-2007

+ ASCA 16-4-2007''Chiedero' dove sono finiti i 45 miliardi di euro espropriati ai piccoli azionisti e perche' i piccoli azionisti non possono avere una rappresentanza in assemblea''.

+ Il Giornale di Vicenza 16-4-2007 DRAGHI "Combattere la povertà nel mondo"

Il Giorno 16-4-2007 ECCO UNA BUONA MATERIA PER DIMOSTRARE CHE LE PROMESSE DI RIDURRE I COSTI DELLA POLITICA NON SONO UN BLUFF

Il Manifesto 16-4-2007 Un'Europa da fame e senza diritti? No, grazie Silvia Barbatella

La Stampa 16-4-2007 DEMOCRATICO NON VUOL DIRE CONFUSO Riccardo Barenghi

Il Riformista 16-4-2007Partito democratico e questione socialista. Paolo Franchi

La Repubblica 16-4-2007 LINEA DI CONFINE MARIO PIRANI

La Repubblica 16-4-2007 Cambia la tariffa e l'aumento è servito Tutte le manovre che Wind, Tim, Tre e Vodafone stanno realizzando per rifarsi dopo l'addio al caro-ricarica. di ALESSANDRO LONGO

La Stampa 16-4-2007 Cnr a secco, la ricerca è perduta. I fondi se ne vanno in stipendi e affitti, i tagli pesano sui laboratori. MARCO SODANO e RAPHAEL ZANOTTI

Marketpress.info 16.4.2007 Dopo il parere adottato dal Gruppo di lavoro delle Autorità europee per la protezione dei dati lo scorso novembre, relativamente all'operato di Swift....

Corriere economia 16-4-2007 Offshore Medicine false, allarme Ue a cura di Ivo Caizzi

Da Antitrust 14-4-2007  COMUNICATO STAMPA

 


++ L’intervento di Beppe Grillo all’assemblea Telecom


++ AgenParl 16-4-2007 SANITA’: FERRERO (PRC), PROPOSTA DI LEGGE PER LIMITARE L’ABUSO DI ALCOL

 

Roma, 16 aprile 2007 – AgenParl – Ogni anno in Italia si registrano dati allarmanti associati all’uso di alcol. I numeri parlano chiaro: 25000 i decessi, più di 17000 uomini e circa 7000 donne. In particolare il binge drinking (bere per ubriacarsi 6 o più bicchieri in un’unica occasione) è sempre più diffuso tra i ragazzi italiani. La conferma arriva da uno studio dell’Oms che rivela come il 67% dei 13-15enni e il 74% di giovani fino ai 35 anni, dichiara di bere ogni sabato per ubriacarsi. Sono “700 mila tra ragazzi e ragazze al di sotto dei 16 anni a consumare alcol nel nostro Paese e il trend è in forte crescita” dichiara Emanuele Scafato, direttore del Centro Oms e dell’ISS per la ricerca sull’alcol. Nella nostra società dove prevale l’incomunicabilità, l’alcol, infatti, ha assunto la funzione di fluidificante dei rapporti sociali, producendo un’alterazione della personalità o meglio “lo sballo”.
“E’ necessaria una grande campagna di informazioni sui pericoli dell’alcol e sul danno che ne determina l’abuso, – sostiene Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale – presenterò a breve al Consiglio dei Ministri un decreto di legge che limiti la pubblicità degli alcolici in TV e sui giornali, e prevedo per gli alcolici la vendita con etichette che avvertono sulla pericolosità dell’uso di alcol”. (P.M.)

 

++ AgenParl 16-4-2007 PD: DO UT DES

Roma, 16 Aprile 2007 - AgenParl - “Il numero uno per ora è Prodi”. Così il vice-presidente del Consiglio Massimo D’Alema è intervenuto sulla questione della leadership futura del Partito Democratico.
A pochi giorni dai congressi che porteranno Ds e Dl, rispettivamente, a sciogliersi nella prospettata formazione “moderata”, è in corso uno scambio più o meno aspro di battute tra gli esponenti delle diverse componenti dei due partiti.
L’eterogeneità dei percorsi, delle idee e degli interessi che lo caratterizza corrisponde alla probabilità che, chiusa con i congressi la cosiddetta fase uno, la seconda fase verso la costituzione del Pd possa scontare tentativi di rivalsa, sgambetti e trappole.
In attesa dell’avvio della “terza fase” (quella che fra un paio d’anni dovrebbe inaugurare i nuovi tesseramenti), gli alfieri del Pd sembrano voler scongiurare il rischio di una lotta intestina. Si rincorrono, ora, voci sulla leadership e sulle modalità di nomina dei candidati, mentre pare scivolare in secondo piano la questione della collocazione in Europa del nuovo partito.
Per restituire ai cittadini-elettori la possibilità di scegliere i candidati da eleggere sembra che i vertici del Pd indiranno delle “primarie”. Tante quante i collegi.
Per dare ai leader la possibilità di sopravvivere alle reciproche ambizioni, invece, pare che si voglia battere una strada, che nuova non è. Rispunta, infatti, il sistema di controassicurazione fra le parti che vigeva nella Dc del tempo che fu.
La soluzione prospettata potrebbe essere quella di garantire ad una delle due componenti originarie la guida del partito e di assicurare all’altra la Presidenza del Consiglio. (F.Mi.)

+ Il Corriere della Sera 16-4-2007 ASSENTEISMO Quei 6,8 milioni di giornate da recuperare di PIETRO ICHINO

 

REDAZIONALE ASSENTEISMO Quei 6,8 milioni di giornate da recuperare SEGUE DALLA PRIMA Se il costo complessivo medio di una giornata di lavoro è di 150 euro, quei 6,8 milioni di giornate di malattia in più - stabilizzatesi nel 2006 - stanno costando alle aziende italiane oltre un miliardo di euro l'anno: quasi un terzo di quanto il governo ha destinato alle aziende stesse con l'ultima legge finanziaria per ridurre, con il "cuneo fiscale", il costo del lavoro. Data l'enorme entità di questa perdita, vale davvero la pena di investire risorse e attenzione sullo studio dei meccanismi socio-culturali che la producono; e dei possibili rimedi. Il basso livello relativo delle retribuzioni italiane non può spiegare un aumento improvviso dell'assenteismo di questa entità. In un sistema che consente a quasi tutti i lavoratori di "mettersi in malattia" con grande facilità e senza perdita di retribuzione, ciò che induce ad andare ogni giorno al lavoro è, certo, l'attaccamento al lavoro stesso, sul quale il buon compenso certo influisce; ma conta anche il senso del dovere, il senso di responsabilità verso i colleghi e l'intera collettività. E questo senso di responsabilità è alimentato dalla percezione che esso sia condiviso dalla generalità dei consociati; se invece la coesione sociale e il clima di fiducia reciproca tra i membri della comunità si deteriorano, se prevalgono i messaggi di egoismo e svalutazione del bene pubblico, si innesca il circolo vizioso che tende a collocare il sistema a un livello più basso di efficienza ed equità. Occorre rendersi conto che la cultura delle regole, il senso civico e l'attaccamento al bene comune, alla res publica, non costituiscono soltanto risorse morali essenziali di un Paese, ma costituiscono anche un fattore produttivo indispensabile, di cui per certi aspetti (come questo di cui stiamo discutendo) è misurabile con precisione l'enorme valore economico. Coltivare e alimentare questo delicatissimo "gioco a somma positiva" è compito precipuo del governo nazionale, ma anche di tutte le altre istituzioni e formazioni sociali intermedie, ivi compresi gli ordini professionali, i sindacati dei lavoratori, i giudici penali e del lavoro (i quali - come mostra anche l'impressionante articolo di ieri di Gian Antonio Stella - proprio sul terreno dell'assenteismo abusivo solitamente dimenticano il rigore applicato in altri campi). Riattivare il gioco a somma positiva è possibile soltanto con un'iniziativa a 360 gradi, che coinvolga tutti questi soggetti e faccia leva al tempo stesso sulla campagna di opinione e sugli incentivi giusti, dando a tutte le parti sociali interessate la percezione che si sta voltando pagina. Pensiamo, per esempio, a un governo che - mediante un accordo con i sindacati, gli imprenditori, l'Inps e possibilmente anche gli Ordini dei medici - lanci l'obbiettivo del recupero, nell'arco del prossimo anno, di quei 6,8 milioni di giornate di astensione dal lavoro sicuramente evitabili; e magari - perché no? - negli anni successivi l'obbiettivo di allineare il nostro tasso di assenze per malattia a quello dei Paesi europei più virtuosi. Come? Richiamando tutti, i medici per primi, a un maggior rigore e senso di responsabilità; attivando quella rilevazione telematica di tutte le certificazioni e le prescrizioni terapeutiche (già prevista fin dalla Finanziaria 2005, articolo 1, comma 149Ë?, ma ancora inattuata per ritardi del ministero della Salute) che consentirebbe un controllo molto efficace sull'operato dei medici e su alcune forme di assenteismo abusivo; richiamando i dirigenti pubblici alla necessità di un riallineamento dei tassi di assenza nel loro settore a quelli delle aziende private; ma anche adottando un'opportuna riduzione della retribuzione per i primi tre giorni di malattia, eventualmente compensata dalla possibilità di autocertificazione per quei giorni, ma, soprattutto, da un aumento generale delle retribuzioni corrispondente al risparmio conseguito dalle aziende, in modo che tutti i lavoratori percepiscano immediatamente il vantaggio della riforma. L'obiezione di rito, a questo punto, è che i veri problemi del mondo del lavoro sono "ben altri": il lavoro nero, le "morti bianche", e anche le retribuzioni troppo basse. Ma se andiamo alla radice del fenomeno del lavoro nero e di quello connesso degli infortuni nei cantieri troviamo ancora l'illegalità diffusa, il difetto generale di cultura delle regole che affligge il nostro Paese: qui la battaglia, in ultima analisi, è ancora la stessa. Quanto alle retribuzioni troppo basse, perché non incominciamo col restituire a chi lavora quel miliardo indebitamente distribuito ogni anno a chi sta a casa senza vera necessità?.


+ Virgilio notizie.it 16-4-2007 Tronchetti Provera, Cardia e confederali nel mirino del comico 16-04-2007

 

10:45 Articoli a tema | Tutte le news di Economia Rozzano (Milano), 16 apr. (Apcom) - A meno di un'ora dall'inizio dell'assemblea degli azionisti di Telecom Italia il comico Beppe Grillo anticipa i bersagli della propria arringa in un comizio volante al presidio dei sindacati all'ingresso degli azionisti: l'ex presidente Marco Tronchetti Provera, il presidente della Consob Lamberto Cardia, l'aspirante azionista di controllo messicano Carlos Slim e gli stessi sindacati presenti all'ingresso dell'auditorium. "Guido Rossi - ha detto Grillo - se ne è andato dicendo che il capitalismo italiano è come la Borsa di Chicago. Sto cercando Al Capone, ma ha la salute cagionevole", ha detto. Il comico si è detto dispiaciuto di non poter rappresentare i piccoli azionisti in quanto impossibilitato a farlo dalla legge Draghi, che a suo dire rende difficile la raccolta delle deleghe. "Cardia mi dice - ha affermato Grillo riferendosi al presidente della Consob - che creo turbativa. Gli ho risposto con una lettera nella quale gli chiedo come mai non abbiano avuto la stessa attenzione su Parmalat e Bpi". Secondo il comico, che ha simbolicamente consegnato una copia del bilancio di Telecom Italia ai sindacati, il documento contabile è "un trattato di psichiatria dal qualche si deduce che l'unica cosa certa è che i piccoli azionisti hanno investito dieci e ora hanno cinque". "Il governo 'auspica' - ha detto ironizzando sul ruolo a suo giudizio poco incisivo dell'esecutivo - molti cercano di svendere una cosa che hanno depredato e un comico parla da ragioniere-azionista. Non voglio essere il paladino di nessuno, ma farò un discorso preciso per evitare problemi". Grillo ha poi lasciato il presidio dei sindacati all'ingresso dell'assemblea aggiungendo che se dovesse avere la meglio la cordata 'Tex-Mex' i dipendenti del gruppo di telecomunicazioni subirebbero un taglio di 30mila unità. "Dovevate essere qui in 80mila - ha detto riferendosi ai sindacalisti - ma ormai i sindacati vogliono quotarsi in Borsa". Asa/Sar.

 


+ ASCA 16-4-2007''Chiedero' dove sono finiti i 45 miliardi di euro espropriati ai piccoli azionisti e perche' i piccoli azionisti non possono avere una rappresentanza in assemblea''.

 

(ASCA) - Rozzano, 16 apr -  Beppe Grillo, azionista di Telecom, e oggi presente a Rozzano sintetizza cosi' quali saranno le linee guida del suo intervento in assemblea dei soci. Il comico genovese ha spiegato di aver piu' volte fatto pressioni per avere piu' chiarezza sullo stato del gruppo di tlc, ''ma la Consob - ha lamentato - mi ha mandato tre lettere dicendo che potevo creare turbativa. Ormai - ha ironizzato il comico - con Cardia ho un rapporto affettivo''. Dito puntato anche sul bilancio Telecom, a giudizio di Grillo ''roba da neuropsichiatria. Ormai - ha insistito - si sono venduti tutto''. Quanto alla possibilita' di un intervento da parte di Carlos Slim, il messicano a capo del gruppo American Movil, Grillo ha commentato: ''Figuratevi se uno degli uomini piu' ricchi del mondo si compra un cadavere simile. Comunque - ha puntualizzato - con il 13% controllerebbe la societa'''. E rivolto ai lavoratori delle tlc presenti di fronte all'ingresso a manifestare, Grillo ha aggiunto: ''Dovevate venire in 80.000 a manifestare perche' se arriva il messicano vi manda a casa in 30.000''. Infine, un affondo nei confronti di Marco Tronchetti Provera: ''Non si e' visto neanche questa volta. E' la seconda volta che mi sfugge. La prima era in un convegno a Siena dove doveva parlare di etica dell'informazione con Andreotti''. fcz/mac/sr.


+ Il Giornale di Vicenza 16-4-2007 DRAGHI "Combattere la povertà nel mondo"

 

DRAGHI "Combattere la povertà nel mondo" &nbsp Washington. Donne ed energia per combattere la povertà. La ricetta è del governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, secondo il quale gli obiettivi del Millenium Development Goal, il protocollo fissato dall'Onu per dimezzare la povertà mondiale entro il 2015, "non saranno raggiunti senza un più coerente ordine nella struttura degli aiuti globali". "Non centreremo gli obiettivi se alle donne non saranno date la stessa libertà e le stesse opportunità degli uomini", ha spiegato Draghi intervenendo al Development Committee della Banca Mondiale, sottolineando che "cruciale" è anche l'accesso alle fonti energetiche perché "senza energia i Paesi e le persone non possono raggiungere il loro potenziale di sviluppo e ridurre la povertà". L'Italia "sta attualmente rivedendo i suoi sistemi di aiuto puntando sul rafforzamento delle sinergie fra i canali di cooperazione bilaterali e multilaterali", ha aggiunto, mettendo in evidenza come che la Banca Mondiale, "nel nuovo panorama globale dello sviluppo", ha un ruolo "cruciale di coordinamento degli sforzi per rivedere l'architettura degli aiuti e renderli più efficaci". Secondo il Governatore, la proliferazione degli attori sulla scena "per quanto benvenuta, richiede sforzi molto più forti per armonizzare le nostre azioni e raggiungere il Millenium Goal". Secondo la Banca Mondiale, il numero dei poveri è sceso sotto quota un miliardo: la quota delle persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno è scesa al 18,4% nel 2004, ultimi dati disponibili. A fare da contraltare all'intervento sulla povertà di Draghi, è stato quello sugli hedge fund organizzato dalla Banca di Francia ed al quale il governatore ha partecipato in qualità di presidente del Financial Stability Forum, l'organismo al quale il G7 ha incaricato la stesura di un rapporto sui fondi speculativi. Il rapporto, ha osservato Draghi, dovrebbe arrivare entro la fine dell'anno, mentre a maggio ci sarà un report. L'industria degli hedge fund ha vissuto e sta vivendo "uno straordinario sviluppo" ed è quindi ovvi che "le autorità nazionali si chiedano quali siano le implicazioni per la stabilità finanziaria internazionale e per la tutela degli investitori". Negli ultimi anni è stato intensificato il monitoraggi, ha constato Draghi, sul rapporto fra gli hedge fund e le loro controparti (cinque o sei grandi banche), e soprattutto l'esposizione di queste ultime verso i fondi. &nbsp.


Il Giorno 16-4-2007 ECCO UNA BUONA MATERIA PER DIMOSTRARE CHE LE PROMESSE DI RIDURRE I COSTI DELLA POLITICA NON SONO UN BLUFF

 

Se il governo fa sul serio tagli i fondi ai giornali di partito IL MERCATO deve valere per tutti, non solo per i tassisti. Ha quindi fatto benissimo il nostro direttore Giancarlo Mazzuca a riportare in evidenza il tema del finanziamento pubblico ai giornali di partito. Tanto per cominciare si tratta di due categorie: quelli che danno voce ad un movimento davvero esistente e quelli che invece si servono della norma utilizzando sigle fantasma. Come tutti sanno, a cominciare da chi assegna i soldi. In tutto assorbono 550 milioni di euro, una cifra di tutto rispetto. Durante l'ultima finanziaria si era paventata una pur minima riduzione di questo importo così sproporzionato. E' successo il finimondo e il governo ha fatto marcia indietro, preferendo prevedere i ticket per le medicine e le visite mediche. NEL DODECALOGO con cui Prodi ha rabberciato l'ultima crisi, ha opportunamente previsto la riduzione dei costi dello Stato. Sabato scorso il Ministro Santagata ha indicato le linee di fondo di un disegno di legge da emanare a maggio sul contenimento dei costi dellapolitica. Da quanto si legge, con la consueta saggezza invece di dare l'esempio dall'alto, si preferisce partire dal basso, dagli enti locali, che invece sono l'istituzione maggiormente controllata ed utile per i cittadini. A prescindere che invece di un disegno di legge, andrebbe emanato un decreto legge, per avere effetti immediati, invece di infognare la proposta nei rami del Parlamento che già immaginiamo con quale entusiasmo si occuperanno di questi temi che rischiano di lambire un qualche pur minimo privilegio che è stato generosamente elargito ai propri membri. E quale migliore occasione di questo provvedimento sui costi dellapolitica per abolire i finanziamenti pubblici all'editoria di partito? Con i circa 200 milioni di euro che ci costano i gruppi politici di Camera e Senato, i loro giornali se li possono comodamente pagare, senza gravare ulteriormente sulle casse dell'erario. Inoltre, va da se che questi finanziamenti non vadano più assegnati a chi non ne ha titolo. C'è poi un'altra straordinaria ragione per evitare di foraggiare questi giornali, quasi tutti semiclandestini, che fanno capo ai partiti. Ed è la circostanza che in tutti i telegiornali, in tutte le trasmissioni (dalle più leggere alle più impegnate), su tutti gli argomenti (dalla letteratura alla calvizie), quotidianamente vediamo spuntare politici a tutto spiano che ci forniscono il loro pensiero. Inoltre, i quotidiani non di partito tutti i giorni che il Signore manda in terra hanno come piatto centrale del loro menù i politici in tutte le salse. Tutto si può dire, ma non certo che in Italia gli onorevoli rappresentanti del popolo siano oscurati. APPUNTO per questo la stampa di partito non può assolutamente essere assistita dai soldi dei cittadini. I contribuenti già pagano profumatamente parlamentari, consiglieri regionali e gruppi politici. E sarebbe ora di cominciare a dare segnali di serietà. Uno dei primi sarebbe proprio l'abolizione del finanziamento all'editoria di partito. Se non si farà nulla in questa direzione, significherebbe ancora una volta continuare a menare il can per l'aia. Solo che stavolta, rispetto alle altre, c'è una lieve differenza: gli italiani se ne stanno accorgendo.

 


Il Manifesto 16-4-2007 Un'Europa da fame e senza diritti? No, grazie Silvia Barbatella

 

Ormai si sprecano i rapporti statistici che danno i salari degli italiani come i più bassi dell'Ue, insieme a quelli di greci e portoghesi. E visto che si sprecano anche le ricerche che danno le nostre industrie e i nostri prodotti come i meno competitivi sul mercato europeo e internazionale, questo almeno dovrebbe dimostrare che l'economia di un paese non si salva affatto comprimendo il costo del lavoro: non si salva neppure la competitività... Ma tant'è. Secondo la nota regola per cui le condizioni peggiori a livello di diritti, salari, libertà servono da base per un peggioramento generalizzato, ecco che il disagio salariale dell'Europameridionale si estende anche a paesi non sospetti, ai "motori" della Ue: dalla Francia arriva infatti un grido d'allarme. Negli ultimi anni in Francia, lo Smic - ovvero il salario minimo intercategoriale sotto cui nessun contratto collettivo può scendere per legge - si è attestato sulla cifra di 1.254,28 euro lordi mensili, che al netto delle imposte fanno 984 euro netti in busta paga. E sempre di più sono le lavoratrici e i lavoratori i cui salari sono schiacciati senza prospettive d'aumento su questa cifra che, ormai, non basta più nemmeno a sopravvivere. È da oltre un mese che in Francia sono in corso scioperi a oltranza di gruppi di lavoratrici e lavoratori per aumenti salariali consistenti e per l'assunzione a tempo indeterminato dei precari e delle precarie. A Aulny-sous-Bois, dipartimento di Seine-Saint-Denis nell'hinterland parigino, 400 operai dello stabilimento Psa Peugeot-Citroën sono in sciopero dal 28 febbraio con la richiesta di un aumento minimo di 300 euro mensili uguale per tutte/i (contro la concessione di soli 26 euro lordi mensili al rinnovo del contratto!), l'aumento del salario lordo d'ingresso a 1.525 euro mensili netti, il prepensionamento a 55 anni di chi lavora in catena di montaggio e l'assunzione con contratto a tempo indeterminato delle lavoratrici e dei lavoratori interinali già presenti in azienda. L'impresa pubblicitaria Clear Channel, gruppo multinazionale statunitense che ha in appalto la campagna presidenziale francese 2007, a sua volta vede lo sciopero del personale addetto all'affissione dei manifesti, che il 5 aprile ha manifestato davanti alla stazione Saint-Lazare di Parigi al grido di "Aumentate il salario, siamo stufi di andare in rosso!" e di "Niente tregua elettorale!". La vertenza non è stata costruita in funzione della scadenza elettorale, è nata naturalmente quando a fine contrattazione, sul modello della peggiore procedura di concertazione all'italiana (anche questa è contagiosa?), la controparte ha proposto ai sindacati la sottoscrizione di un aumento irrisorio o la firma di un verbale di mancato raggiungimento di accordo. Contemporaneamente, 173 dipendenti di Trans-Service-International, impresa incaricata della pulizia dei treni di notte in transito dalla stazione parigina di Austerlitz, stanno scioperando da circa la metà di marzo mentre la loro direzione aziendale li ha trascinati in giudizio; e negli ultimi giorni è stato avviato un altro sciopero nel dipartimento Haut-de-Seine, a La Garenne-Colombes, presso un supermercato della catena Monoprix, che ha visto il coinvolgimento della metà di un organico di circa 120 persone. I conflitti, insomma, si estendono e l'insufficienza dei salari è la base comune di tutti. Non a caso anche le candidate e i candidati alle presidenziali hanno dovuto fare i conti con le lotte in corso e cinque candidate e candidati della sinistra, fra cui Ségolène Royal, si sono recati allo stabilimento Psa Peugeot-Citroën per esprimere la loro solidarietà con gli scioperanti. Vedremo se questa solidarietà avrà corso anche dopo l'eventuale elezione della candidata socialista. Resta il fatto che l'Europa che si sta costruendo diventa ogni giorno di più una terra di cittadinanza ridotta, di salari bassi e di ingiustizia sociale: le lotte che in queste settimane stanno diffondendosi a macchie di leopardo in Francia sono il segnale che per lavoratrici e lavoratori le condizioni di vita si stanno facendo sempre più insostenibili, ma sono anche uno spiraglio di luce che lascia intravedere un'alternativa: un'Europa di diritti, di occupazioni in condizioni decenti e a salari dignitosi, di cittadinanza per chi ci vive e ci lavora. L'Europa per cui anche noi lottiamo, esprimendo la nostra solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori francesi. * Ufficio internazionale SdL intercategoriale.

 


La Stampa 16-4-2007 DEMOCRATICO NON VUOL DIRE CONFUSO Riccardo Barenghi

 

Tra una settimana il dado sarà tratto, i congressi dei due principali partiti del centrosinistra avranno deciso che il loro futuro politico sarà uno solo. Tra qualche mese nascerà la Costituente del Partito democratico dopo di che, l'anno prossimo, il Partito stesso celebrerà il suo congresso di fondazione. La decisione è importante, qualcuno dice epocale, in ogni caso è certo che si tratta di un fatto che cambierà lo scenario politico del nostro Paese. E non solo per i protagonisti della nuova avventura, i militanti, gli iscritti, gli elettori, ma anche per i loro attuali alleati, per quelli che decideranno di separarsi, per chi sta più a sinistra e perfino per gli avversari del centrodestra, che magari saranno sollecitati a dar vita a una sorta di Partito unico. È ovvio che la strada della nuova forza politica non sarà semplice, i problemi e gli incidenti di percorso non mancheranno, anzi già non mancano. È e sarà un cammino travagliato, pieno di ostacoli, di polemiche, di scissioni, di lotte di potere, di scontri su chi sarà il leader. Dopo di che è molto probabile che il progetto andrà in porto, con quali risultati è difficile dirlo oggi, ma certamente sarà un Partito che potrà aspirare a raccogliere almeno il 30% degli elettori, anche se i sondaggi di oggi sono molto meno generosi e lo accreditano tra il 23 e il 25. La base di partenza comunque c'è, il compito dei vari dirigenti dei Ds e della Margherita sarà quello di rendere sempre più credibile e appetibile la loro nuova creatura. Dandole una fisionomia politica, tematica, ideologica (brutta parola ma efficace), di valori, di obiettivi che oggi sono ancora piuttosto vaghi. Una vaghezza che non è una dimenticanza, bensì una precisa strategia volta a raccogliere più forze possibili, più consenso, più voti. Ma è una strategia sbagliata, proprio perché rende il progetto fumoso, poco chiaro, indeterminato nei suoi confini. I quali dovrebbero essere dichiarati urbi et orbi invece di continuare a ripetere, come fanno più o meno tutti i leader in campo, che il Partito democratico è aperto a tutti, che c'è posto per tutti, che tutti devono entrarci perché quello è il grande contenitore, la Casa di tutti i riformisti italiani, come ha ripetuto lo stesso Prodi l'altro ieri. Ma in Italia tutti ormai sono riformisti, di rivoluzionari se ne vedono ben pochi in giro: anche la cosiddetta sinistra radicale non pensa più alla presa del Palazzo d'Inverno. Dunque si tratta di farci sapere, anzi di far sapere al Paese quale sarà il riformismo del Partito democratico. Sulla politica economica, sulla politica estera, su quella sociale, sulle questioni eticamente sensibili. Lasciando perdere i Pantheon dei padri fondatori, che lasciano il tempo che trovano, e stabilendo appunto dei confini, a destra e a sinistra, e anche rispetto alla tanto evocata e agognata società civile, che non è un magma indistinto ma si divide anch'essa per valori e opinioni politiche. Insomma, invece di continuare a rivolgere generici appelli affinché tutti entrino nella grande Casa, socialisti e democratici, laici e cattolici, rossi, rosa e bianchi, sarebbe un'operazione di onestà intellettuale e di coraggio se i vari Prodi, Fassino, D'Alema, Veltroni, Rutelli, Marini dicessero una cosa più semplice: siamo questi qui, vogliamo fare queste cose qui e le vogliamo fare in questo modo. E chi condivide è benvenuto, gli altri è meglio se restano fuori. Poi discutano con tutti, ovviamente, ma sulla base di un progetto definito, chiaro, alla fine anche chiuso entro i suoi limiti, senza la paura di perdere pezzi per strada. Perché tenere insieme tutto e il contrario di tutto non ha mai funzionato, in politica. Anche la Dc, che pure èstato il partito più onnivoro della nostra storia, i suoi confini li aveva ben precisi. E così i suoi elettori, che proprio per questo la facevano vincere.

 


Il Riformista 16-4-2007Partito democratico e questione socialista. Paolo Franchi


Chissà se è il caso di dire: finalmente. Ma in ogni caso ci siamo. Questo fine settimana Quercia e Margherita celebreranno i loro ultimi congressi, e poi prenderà il via la fase costituente del Partito democratico. Un solo augurio - sincero, sincerissimo - ci sentiamo di esprimere non solo ai diretti interessati ma a tutto il centrosinistra e in primo luogo a tutti i riformisti: l'augurio che, archiviati i congressi, si archivi pure lo scemenzaio di queste settimane e di questi giorni, e si cominci, sempre che non sia ormai troppo tardi, a fare sul serio. Onestamente non sapremmo dire se il nuovo partito troverà la risposta giusta da dare al ragazzo (leggiamo su Repubblica) che a Piero Fassino ha chiesto come si regoleranno i democrats di fronte al fatto che da qualche anno d'inverno non c'è più il freddo di una volta: a pensarci bene, ci verrebbe da dire di no. Sarebbe già qualcosa, comunque, se si smettesse di immettere ed espellere a giorni alterni nobili antenati, che oltretutto sono impossibilitati a pronunciarsi in materia, dall'ipotetico Pantheon del Pd, e di tirare il sasso e nascondere la mano sulle leadership passate, presenti e future, per concentrarsi piuttosto su quello che un tempo veniva chiamato il «che fare». Prendere atto che Ds e Margherita sono palesemente a fine corsa, e sbrigarsi a mettere insieme le loro due debolezze nella speranza che, sommandole, venga fuori qualcosa di non troppo dissimile da una forza, non basta a dar vita a un nuovo partito (anzi, a un partito nuovo) a vocazione maggioritaria. Che però non nasce neppure facendo affidamento sulle virtù salvifiche del popolo delle primarie, attualmente in sonno ma sempre pronte a manifestarsi di nuovo purché qualcuno (chi?) riesca a spezzare, o almeno ad allentare, la cappa delle oligarchie partitocratiche. 
Vedremo. Vedremo con spirito critico, non aprioristicamente ostile, intendiamo dire. Con rispetto. E con disincanto. Lo stesso spirito, lo stesso rispetto, e pure, perché no, lo stesso disincanto con cui guardiamo ai processi nuovi che la stessa nascita del Pd (o meglio il modo davvero non esaltante in cui il Pd sta cominciando a prendere forma) ha messo in movimento a sinistra. A Fiuggi, per cominciare, è successo qualcosa di importante, qualcosa di letteralmente impensabile appena fino a pochi mesi fa, qualcosa di più significativo della ricomposizione di alcuni pezzi e pezzetti della diaspora socialista. Anche qui si è inaugurata una stagione costituente. Se dovessimo prendere alla lettera le parole di Enrico Boselli, e pensare che in fondo al percorso ci sia la resurrezione di un partito denominato Partito socialista italiano, sezione italiana (perdonate il linguaggio d'epoca) del Partito del Socialismo europeo e dell'Internazionale, diremmo subito che nella ridente cittadina termale si è dato (legittimo) sfogo all'orgoglio, ma si è fatta pure della demagogia, e soprattutto si è perso del tempo. Ma a noi pare che dal congresso dello Sdi sia uscita soprattutto l'indicazione, molto meno nostalgica, di scommettere sull'esistenza e sul futuro di una sinistra “larga”, che nel Partito democratico, o almeno in questo Partito democratico che sta per nascere, non si riconosce. Offrendo almeno a una parte di questa sinistra l'ancoraggio al socialismo democratico e liberale, in Italia e in Europa, come prospettiva e come collante, senza perdere di vista, ma a distanza, quanto va capitando in Rifondazione e nella sinistra radicale Che si tratti di un cammino difficile, e zeppo di incognite, è fuor di dubbio. Ma la questione socialista, adesso, è sul tappeto. E non si può liberarsene facendo spallucce.
Può darsi che la separazione sia definitiva e irreversibile, e può darsi pure (anche se ci sembra difficile) di no. In tutti e due i casi, e non lo diciamo per un buonismo che non ci appartiene, è importante che sia il più possibile consensuale. Non ci sono traditori, non ci sono venduti, non ci sono scissionisti, non ci sono secessionisti. C'è gente che ha molto in comune, e però avverte che è giunto il momento di prendere strade diverse.

 


La Repubblica 16-4-2007 LINEA DI CONFINE MARIO PIRANI

 

Per più di mezzo secolo la Banca d'Italia fu l'eccezione positiva della pubblica amministrazione, un modello unico di competenza, serietà, indipendenza. Le "considerazioni" che una volta l'anno, il 31 maggio, il Governatore pronunciava nell'areopago di via Nazionale erano attese, ascoltate, distillate in attente analisi come nessun discorso politico o messaggio presidenziale. Poi anche in quelle mura apparvero inattese crepe e qualche rovinoso smottamento. Ora gli addetti al restauro ? il governatore, Mario Draghi, e il direttore generale, Fabrizio Saccomanni, uno degli ultimi testimoni di primo piano di quella che chiamerei l'età di Pericle, si sono messi all'opera con perizia e ottime intenzioni. Più per nostalgia che per esigenza di lavoro dopo anni ho rimesso piede in quei saloni dove i damaschi di seta gialla fanno da sfondo ai computer. Per innumerevoli stagioni vi ero quasi di casa per farmi spiegare, con l'impegno sempre osservato della assoluta riservatezza, gli arcani della politica monetaria. Carli, Baffi, Ciampi, Ossola, Dini, Padoa-Schioppa, Ciocca e anche altri, allora giovani collaboratori, come Ignazio Visco e Bini Smaghi mi chiarivano con generosità di tempo argomenti ed eventi che avrei cercato di raccontare con parole mie ai lettori. Questa volta, però, la mia sosta era quasi quella di un anziano turista che ripercorre le stanze di una dimora storica visitata in gioventù, accorgendosi da molti dettagli che le cose sono mutate. Ma, riflettendoci su, mi sono reso conto che il cambiamento è nelle cose ed anzi che forse l'errore più serio di Antonio Fazio non vada individuato soltanto nelle incaute intrinsichezze con un Fiorani, ma nel rifiuto psicologico ? e per converso ? politico, di accettare davvero l'avvento dell'euro. Così una banca centrale che si era distinta da tutte le altre per il suo impegnatissimo europeismo, vissuto anche come felice vincolo esterno per avviare il risanamento delle finanze pubbliche, si trovò trasformata in ridotta difensiva di una "italianità" asfittica e perdente. Di qui una perdita di ruolo, un impoverimento culturale, una degenerazione della "moral suasion" trasformata in una forma d'improprio interventismo, quasi a compensare quello che veniva considerato come uno "scippo" della politica monetaria ad opera della Banca centrale europea. Oggi i nuovi "restauratori" non stanno certo operando per riportare la Banca sugli antichi binari ma proprio per metterla a norma con una situazione oggettiva profondamente trasformata. Eppure le resistenze non mancano e i nostalgici si mostrano agguerriti. Le "nostalgie", peraltro, non sono ispirate all'antica nobiltà dell'istituzione ma sollevate a difesa delle vecchie strutture, diramazioni e, di conseguenza, organici quasi si trattasse ancora di governare la lira, regolarne flussi e quantità, esercitare capillari controlli sulle gestioni bancarie, con un esercizio della vigilanza periferica da epoca pretelematica. Per di più in un'Italia precedente alle Regioni e suddivisa solo in Province. Di qui l'ostilità dei sindacati, campioni assoluti della conservazione, al progetto di riassetto organizzativo dell'Istituto imperniato sulla chiusura di 59 sedi provinciali e sulla creazione di 21 filiali nei capoluoghi regionali (una nella provincia autonoma di Bolzano), più 18 succursali specializzate, laddove la domanda di servizi istituzionali e privati è maggiore oppure si concentrano i compiti di vigilanza, le attività connesse al contante, i rapporti con la Tesoreria dello Stato. La revisione organizzativa riguarda anche l'amministrazione centrale della Banca, dove vengono privilegiate e meglio coordinate le aree della ricerca economica. Sono esclusi licenziamenti ma è prevista in tre-quattro anni, grazie ai pensionamenti in fieri, una diminuzione dell'organico da 9500 a 7500 addetti. Insomma una riforma in linea con quella generale della Pubblica amministrazione, con il passaggio al federalismo regionale e, soprattutto, con la nascita dell'euro e della Banca centrale europea. Eppure assistiamo alla solita chiamata alle armi contro le "ristrutturazioni selvagge", alla mobilitazione dei sindacati e dei politici "amici" di trasversale appartenenza, alle alzate d'ingegno come quella dell'Assemblea siciliana che rivendica i suoi poteri autonomi anche nei confronti della Banca d'Italia. Ma la più stupefacente iniziativa è quella presa da alcuni prefetti che si sono fatti megafono delle proteste delle Province "offese" con corredo di volantini e odg di sdegnata condanna contro la Banca d'Italia. Aveva proprio ragione Luigi Einaudi che voleva abolirli.

 


La Repubblica 16-4-2007 Cambia la tariffa e l'aumento è servito Tutte le manovre che Wind, Tim, Tre e Vodafone stanno realizzando per rifarsi dopo l'addio al caro-ricarica. di ALESSANDRO LONGO

 

Rincarati i portali Internet. Addio vecchie offerte, meno bonus: così i big recuperano i profitti perduti
SONO scomparsi i costi di ricarica, ma ora i consumatori di telefonia mobile sono confusi: lo scenario delle tariffe telefoniche, come un campo in seguito a un temporale, è mutato di colpo dopo il decreto Bersani. Gli operatori hanno cambiato alcune tariffe, altre le hanno cancellate e ne hanno introdotte nuove. Agli utenti che intendono cambiare operatore o attivare una nuova sim tocca quindi adesso districarsi in una selva di tariffe resa irriconoscibile dalle ultime novità. Il succo della storia è che "gli operatori recupereranno parte dei costi di ricarica perduti, attuando varie manovre", spiega Luca Berardi, analista esperto di telecomunicazioni presso il gruppo di ricerca Idc. "In linea di massima, consigliamo agli utenti di conservare le vecchie tariffe, perché le nuove sono in media più care", aggiunge Marco Pierani, responsabile settore hi-tech per l'associazione dei consumatori Altroconsumo. Le novità infatti non vanno a toccare i vecchi contratti. Con un'eccezione: Wind. 

Wind.
 Non solo ha eliminato le vecchie tariffe, a tappeto, e le ha sostituite con altre che sono smaccatamente più care; ma è stato anche il solo operatore a imporre le novità pure ai vecchi utenti: a quelli del piano Wind 10 e a quelli di Sempre Light. Da maggio saranno migrati ai piani (più cari) Wind 12 e Wind Senza Scatto New. Hanno 30 giorni per decidere: accettare o scegliere un altro piano (o cambiare operatore). Quanto fatto da Wind è previsto dalle norme, ma comunque adesso l'Autorità Garante delle Comunicazioni sta indagando per vedere se è stato tutto regolare. In più, dal 16 aprile cambiano i costi per navigare sul cellulare (triplicano, per il traffico fuori dal portale mobile di Wind). Va detto però che nonostante i rincari "Wind resta l'operatore low cost italiano, in linea di massima", dice Marco Bulfon, responsabile inchieste di Altroconsumo. "Abbiamo fatto confronti tariffare in base a tre profili d'uso- aggiunge: con circa 15 euro di spesa al mese, la tariffa più economica è Tim Club; ma per una fascia più alta, 40 euro al mese, risulta vincitore Wind 5 New. È la più economica una tariffa Wind anche nel caso di chi manda molti Sms: Senza Scatto New con Opzione Wind 6 Sms (circa 35 euro al mese)". 
Tim. La tariffa Tim ad oggi più apprezzata dalle associazioni consumatori è appunto Tim Club, lanciata però prima del decreto Bersani. Costa 19 cent al minuto (9 cent verso tre numeri a scelta, Tim o di rete fissa), senza scatto. Le nuove tariffe sono le Tutto Compreso, contraddistinte da un canone (30, 60 o 90 euro al mese) che include il cellulare e una certa quantità di traffico. In Italia, è una formula ancora poco diffusa. Per esempio, in Tutto Compreso 30 ci sono 250 minuti di chiamate verso tutti i numeri nazionali. Le Tutto Compreso nella versione per abbonati hanno la particolarità di essere prive di tassa di concessione governativa (5,16 euro al mese). Tim però ha aumentato i prezzi per accedere al portale mobile: lo scatto è passato da 20 a 28 cent. Vale la pena ricordare quanto ha detto Telecom Italia, presentando a marzo il nuovo piano industriale: l'impatto del decreto Bersani sul mercato in teoria è 1,400 miliardi di euro nel 2007; nella pratica- stima Telecom- sarà di 800-900 milioni, grazie ad alcune mosse degli operatori. Per esempio: già hanno ridotto la commissione offerta ai tabaccai, per le ricariche. Un altro modo è invogliare gli utenti a fare più traffico: è lo scopo delle tariffe con canone. E delle "ricariche personalizzate", lanciate da Tim ad aprile. Sono tagli di ricarica più flessibili (anche da 8, 9, 13 euro per esempio). 
Vodafone. Rivoluzione nei piani tariffari: dei vecchi (pre-Bersani) sopravvivono solo due su cinque. I tre nuovi sono You&Vodafone, Zero Limits e (appena lanciato) Vodafone Tutti. La settimana scorsa è sparita Happy Ricarica, che secondo Altroconsumo era la tariffa Vodafone più economica. Vodafone Tutti concede una tariffa scontata (12 cent al minuto, con scatto di 16 cent) a chi fa almeno 15 euro di ricarica al mese. You&Vodafone ha uno scatto di 19 cent e costa 1, 7 o 30 cent al minuto a seconda del numero chiamato. ZeroLimits include in 6 euro al mese mille minuti di chiamate verso numeri Vodafone, per le quali si paga solo il primo minuto; più 100 Sms e 100 Mms verso Vodafone. Il prezzo al minuto è 19 cent; 19 cent di scatto alla risposta. 
3 Italia. Al contrario, 3 è l'operatore che ha fatto meno modifiche. Non ha cambiato le tariffe. Ha eliminato però le ricariche Power (che, ai tempi pre-Bersani, davano bonus di traffico) e ha aumentato, da 6 a 9 euro, il costo per cambiare il piano tariffario. 
(16 aprile 2007)


La Stampa 16-4-2007 Cnr a secco, la ricerca è perduta. I fondi se ne vanno in stipendi e affitti, i tagli pesano sui laboratori. MARCO SODANO e RAPHAEL ZANOTTI

 

Poeti, santi e navigatori. Di scienziati, invece, sempre meno. Non si può piangere sulla ricerca perduta e allo stesso tempo assetarla: il denaro disponibile è sempre meno, i criteri per spenderlo più misteriosi e intanto gli istituti più prestigiosi faticano a pagare il riscaldamento e la bolletta della luce. Al Consiglio nazionale delle ricerche, forse il nome che ha dato più lustro alla ricerca italiana, tira aria di sbaraccamento dal 2002. Prima la riforma di Letizia Moratti e l’introduzione del criterio «manageriale» nella gestione, poi le leggi Finanziarie lo stanno disgregando. E così la ricerca è sempre più legata ai privati che, in cambio di qualche soldo, ottengono di poter indirizzare la ricerca, usano le strutture del Cnr, la conoscenza dei ricercatori e alla fine si prendono il brevetto.

I manager al potere
L’effetto della riforma Moratti, diligentemente applicata dal discusso presidente del Cnr Fabio Pistella, è stato quello di gonfiare la burocrazia a dismisura. Se prima gli istituti si cercavano i fondi privati da soli e in autonomia, oggi fanno lo stesso ma devono rispondere a una catena gerarchica spaventosa: il Cda del Cnr delibera le linee guida, i singoli direttori di dipartimento (ne sono nati 12) «formulano le linee programmatiche». Gli istituti passano al dipartimento le proposte di attività di ricerca. Queste vengono confrontate fra ciascun dipartimento e fra gli istituti. Si concordano le commesse, quindi il consiglio dei direttori di dipartimento verifica la congruenza delle proposte e predispone una proposta coordinata. Poi la trasmette al direttore generale. A quel punto una persona normale si sarebbe arresa. Al Cnr invece vanno avanti: il direttore generale integra la proposta coordinata con le esigenze gestionali e predispone un piano preliminare poi inviato al Presidente. Quest’ultimo, acquisito il parere del Consiglio scientifico generale, mette giù il piano definito, che viene infine sottoposto al vaglio del Cda e inviato al ministro. Isaac Newton, con un sistema del genere, poteva soffocare sepolto dalle mele prima di poter proferire anche solo una parola sulla Legge di Gravità.

Rivoluzione copernicana
Grazie a questo sistema, tutto ruota intorno alla presidenza. Con effetti davvero curiosi. Se la Finanziaria 2007 ha imposto un taglio dei fondi del 5%, la presidenza Pistella ha interpretato la sforbiciata con criteri quanto meno originali. Mentre alcuni istituti si son visti ridurre il finanziamento ordinario di oltre l’80% - quelli dove ci si chiede come pagare il telefono - e chi ha avuto 340mila euro nel 2006 «necessari giusto per sopravvivere» quest’anno deve contentarsi di 70mila, le cifre stanziate per consorzi, convenzioni e relazioni esterne sono cresciute del 60%. 

I laboratori a stecchetto
Il sistema delle scatole cinesi costa, in termini di stipendi al personale, moltissimo. E i costi per il personale sono proprio quelli di cui il Cnr sembra aver meno bisogno. L’ultima relazione della Corte dei conti spiega che nel 2005 il 94,9% del fondo del ministero se n’è andato da solo per pagare gli stipendi. E la cifra è in aumento. Tra il 2003 e il 2005 il personale è diminuito del 10% (-753 unità), eppure i costi sono cresciuti del 5% (+22 milioni di euro). Colpa delle buonuscite e degli scatti automatici. La politica di spingere verso il pensionamento non paga: ogni persona che si ritira costa quell’anno all’ente come tre persone del suo stesso livello. E gli scatti economici, tra il 2002 e il 2005, hanno incrementato di un quarto i costi per il personale. Ovvio poi che, di fronte al taglio della finanziaria, il presidente Pistella faccia compilare un’elegante circolare in cui spiega: «Tutte le spese sono incomprimibili, tranne il fondo di dotazione degli istituti». Gli stipendi non si possono ridurre. Ma questo vuol dire: se si taglia, si taglia in laboratorio. E dire che già nel 2005 il valore di macchine e strumenti scientifici erano in netto calo: -35,48%. Importa poco che il numero di pubblicazioni scientifiche firmate dal Cnr sia in calo. Il contributo dell’ente alla ricerca propositiva - dice sempre la Corte dei Conti - è diminuito del 25%. 

Il terzo riordino
A queste condizioni, mentre l’atmosfera si fa sempre più pesante e l’attività di ricerca sempre più rada, ai più è chiaro che il promesso (dal ministro della Ricerca scientifica Fabio Mussi) «riordino degli enti di ricerca» si farà solo a condizione di trovare una cura da cavallo. Il fatto che il Cnr proceda dritto per la sua strada non tragga in inganno: il declino è ben presente agli occhi di tutti, di chi protesta e di chi tace. E nel frattempo s’è apparecchiata l’ultima tavola buona prima della revisione governativa: un bel concorsone.

Scienziati in 10 secondi
In Italia funziona così: per anni c’è il blocco delle assunzioni. Poi ci si accorge che l’età media avanza (49 anni) e allora si appronta una sanatoria. L’ultima, al Cnr, è partita il 9 giugno 2004 per 475 posti. Doveva servire per far progredire i cosiddetti «anomali permanenti», ricercatori che per più di 12 anni erano rimasti al palo. Alla fine, come spesso succede, è stato aperto a tutti. Il 53,7% della comunità scientifica del Cnr ha subito una sonora bocciatura (tra cui anche l’intero gruppo di ricerca del Nobel Rita Levi Montalcini). Vuol dire che fino a ora gli scienziati che lavoravano ci hanno preso in giro? 

Nient’affatto. «Colpa dei criteri - spiega l’Usi-Rdb Ricerca - sindacato che ha raccolto centinaia di ricorsi e che ha pubblicato un libro bianco sugli orrori del concorsone di cui si sta interessando anche la magistratura -. Per ottenere i punteggi di anzianità era necessario superare quello per titoli, ma calcolando il tempo dedicato alle commissioni alla verifica di pubblicazioni scientifiche, brevetti, rapporti tecnici e incarichi, si scopre che ogni commissione ha dedicato a ciascuno una decina di secondi. E dire che si tratta di studi spesso innovativi in campo internazionale, mica dei test per la patente». La domanda dunque è: quali criteri sono stati utilizzati? La disamina concede scorci spassosissimi: c’è la commissione che, per par condicio, assegna a ogni lavoro lo stesso punteggio; c’è il candidato che si vede valutata persino la dicitura «elenco pubblicazioni»; c’è quello che salta due livelli perché risulta vincitore ed è appena entrato di ruolo in quello inferiore; c’è la prima autrice di una ricerca che ottiene 2 punti per il suo lavoro e la coautrice che, per la stessa ricerca, ne ottiene 3,8; e c’è il candidato che «si giudica da sé». Vive in simbiosi con uno dei commissari: insieme hanno collaborato a 41 pubblicazioni su 43 esibite, 17 congressi internazionali su 19 e 48 congressi nazionali su 64. La commissione, alla fine, scriverà che è stato valutato l’apporto del candidato «tenendo conto della continuità della produzione scientifica e della notorietà del candidato nel settore di appartenenza». Di sicuro era noto al commissario.

 


Marketpress.info 16.4.2007 Dopo il parere adottato dal Gruppo di lavoro delle Autorità europee per la protezione dei dati lo scorso novembre, relativamente all'operato di Swift....

(la società, con sede in Belgio, di cui si servono da decenni le banche ed i soggetti operanti nel settore finanziario di tutti i Paesi europei per i trasferimenti internazionali di valuta, anche in Paesi al di fuori dell'Ue come gli Stati Uniti), i Garanti hanno continuato a seguire gli sviluppi del caso. In particolare, il Gruppo di lavoro ha contribuito ad un seminario pubblico che il Parlamento europeo ha organizzato nel pomeriggio del 26 marzo, per fare il punto della situazione complessiva e valutare iniziative future. Durante il seminario sono stati affrontati tutti i temi attualmente sul tappeto rispetto ai flussi di dati fra Ue ed Usa: oltre a Swift, il trasferimento dei dati Pnr (i dati dei passeggeri che le compagnie aeree sono tenute a comunicare alle autorità Usa prima della partenza di voli diretti o in transito verso gli Stati Uniti) e l'accordo di Safe Harbor (che consente di trasferire dati personali dall'Ue agli Usa per specifiche finalità). L'obiettivo era disporre di un quadro informativo completo per individuare possibili soluzioni condivise, anche sulla base dei contributi forniti dalle Autorità di protezione dati. Gli interventi hanno visto, fra gli altri, quelli di Stefano Rodotà e di Yves Poulet. Per quanto riguarda il "caso" Swift, segnaliamo inoltre che, all'inizio di marzo, il Gruppo di lavoro ha inviato una lettera al Vicepresidente della Commissione europea, Franco Frattini, al Presidente del Parlamento Europeo ed al Presidente del Consiglio dell'Unione Europea. La lettera è intesa anche a fornire elementi di valutazione al Vicepresidente Frattini nel quadro dei negoziati condotti da quest'ultimo con le autorità Usa per conto della Commissione relativamente ad una possibile soluzione paneuropea. Tale soluzione, hanno sottolineato i Garanti, non potrà semplicemente limitarsi a "legalizzare" l'esistente, ma dovrà individuare tutte le necessarie garanzie, affinché lo scambio di informazioni sia conforme alla disciplina in tema di protezione dei dati. Ad ogni modo, il Gruppo manifesta alcune perplessità in merito ai risultati conseguiti nei mesi successivi all'adozione del parere sopra descritto. Per quanto concerne le banche, ad esempio, si constata che queste non hanno ancora provveduto ad informare la clientela in merito al trasferimento dati verso gli Usa; né Swift sembra avere adottato un programma preciso di misure di medio-lungo termine tese a favorire il rispetto delle prescrizioni indicate dal Gruppo di lavoro e dall'Autorità belga per la protezione dei dati (competente territorialmente rispetto alle attività di Swift). La questione sembra complicarsi ulteriormente alla luce del ruolo che Swift sarà chiamato a svolgere nell'ambito del nuovo sistema unico europeo dei pagamenti (Sepa) - in particolare perché l'utilizzo di Swift anche in tale ambito potrebbe comportare, in prospettiva, la possibilità per le autorità Usa di accedere ad informazioni su trasferimenti interbancari effettuati all'interno del territorio Ue o del territorio dei singoli Stati Membri. Naturalmente i Garanti intendono contribuire ai negoziati in corso e supportare la Commissione nell'individuazione delle opportune soluzioni. Oltre al seminario pomeridiano, il Gruppo di lavoro ha affrontato le questioni, anche tecniche, connesse specificamente ai dati Pnr attraverso un seminario organizzato nella mattinata del 26 marzo, sempre presso il Parlamento europeo. Sono stati invitati anche rappresentanti delle associazioni di categoria (compagnie aeree), rappresentanti dei ministeri competenti, dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo. Al seminario ha partecipato l'on. Sandro Gozi, presidente del Comitato parlamentare di controllo sull'applicazione dell'Accordo di Schengen e della Convenzione Europol e in materia di immigrazione, il quale ha sottolineato la necessità di un maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali nel processo decisionale che riguarda l'accordo Pnr. Il Gruppo di lavoro ha pubblicato un comunicato stampa il cui testo è disponibile sul sito del Garante (www. Garanteprivacy. It). <<BACK.

 


Corriere economia 16-4-2007 Offshore Medicine false, allarme Ue a cura di Ivo Caizzi

 

L' Europarlamento ha lanciato l'allarme sulla preoccupante diffusione di medicine false. L'obiettivo è di arrivare a una convenzione internazionale, che consenta di introdurre pesanti sanzioni penali in grado di frenare un business in crescita orchestrato da pericolose organizzazioni criminali. Il giro di denaro risulterebbe particolarmente ingente. Attualmente le stime parlano di farmaci contraffatti pari a circa l'1% di quelli in commercio. Ma si arriverebbe addirittura al 10% del totale nei Paesi del Terzo Mondo, dove i controlli sono facili da eludere o praticamente inesistenti sia nella commercializzazione dei prodotti, sia sulle conseguenze per le popolazioni locali. Il caso Tamiflu L'anno scorso il farmaco anti-virale Tamiflu esplose commercialmente grazie all'allarme internazionale su una possibile trasmissione all'uomo dell'influenza aviaria. Numerosi governi ne hanno fatto incetta nonostante l'incertezza sulla sua effettiva efficacia. Ma ora è finito sotto l'osservazione della Commissione europea per possibili gravi effetti collaterali di tipo neurologico. I primi dubbi sono emersi negli Stati Uniti e, soprattutto, in Giappone. Sono stati individuati addirittura casi di suicidio di bambini giapponesi successivi all'uso del Tamiflu come anti-influenzale. I responsabili della svizzera Roche, produttrice del farmaco, hanno negato possibili collegamenti tra queste morti e l'uso del Tamiflu. Ma le autorità giapponesi hanno bloccato la commercializzazione. Il vicepresidente della Commissione europea, il tedesco Gunter Verheugen, che è considerato molto pro-imprese, ha preferito una linea attendista. Dopo le analisi dell'Agenzia Ue per la valutazione delle medicine (Emea) è stato richiesto alla Roche di inserire tra le informazioni sugli effetti collaterali del farmaco che "convulsioni, riduzione del livello di consapevolezza, comportamento anormale, allucinazioni e delirio sono stati segnalati durante la somministrazione di Tamiflu, conducendo in rari casi ad ferimenti accidentali" e che "i pazienti, specialmente bambini e adolescenti, dovrebbero essere attentamente monitorati e i loro medici immediatamente consultati se mostrano segni di comportamento insolito". L'Emea continua comunque a tenere sotto controllo l'evoluzione del caso. Fede & fisco Si sta sviluppando sul versante economico la guerra scatenata a livello Ue dal partito radicale contro il Vaticano di Papa Ratzinger. L'eurodeputato radicale Marco Cappato ha fatto sapere che il commissario per la Concorrenza, l'olandese Neelie Kroes, ha accolto una specifica denuncia, presentata insieme al collega comunista Willy Meyer, e che intende chiedere chiarimenti alle autorità spagnole sulle esenzioni fiscali concesse alla Chiesa cattolica. Sotto osservazione c'è l'imposta municipale spagnola Icio (simile all'italiana Ici). Sta emergendo che le esenzioni non sarebbero limitate alle attività strettamente religiose, come riteneva la Commissione, ma estese a settori dove si entra in concorrenza con imprese private. Qualora queste concessioni venissero giudicate distorsive del libero mercato il contenzioso potrebbe svilupparsi ben oltre la Spagna. I radicali annunciano di aver già iniziato un'analoga iniziativa per le attività della Chiesa cattolica in Italia, che attuerebbero una concorrenza sleale nei confronti dei normali operatori commerciali. Altre azioni potrebbero partire nei Paesi dove esistono alberghi, scuole, ospedali o società di servizi riconducibili ad organismi religiosi, che utilizzano il particolare status per godere di esenzioni fiscali. icaizzi@corriere.it.


 

Da Antitrust 14-4-2007  COMUNICATO STAMPA

TLC: ANTITRUST, NEL SETTORE TROPPA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE. IN DUE ANNI MULTE PER 1,6 MILIONI DI EURO.

È UN FENOMENO GRAVE CHE DISORIENTA I CONSUMATORI.

GLI OPERATORI DEVONO PREDISPORRE MESSAGGI CHIARI E COMPLETI

Troppe pubblicità ingannevoli nel settore della telefonia fissa e mobile. In due anni, dall’entrata in vigore della legge Giulietti, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha comminato sanzioni per 1,6 milioni di euro, quasi il 25% del totale delle multe decise.

È il bilancio che emerge dall’analisi sulle decisioni di pubblicità ingannevole relative a beni e servizi di telefonia fissa, mobile, integrata fissa/mobile, di accesso e navigazione in Internet e integrati voce/dati o voce/dati/televisione. Per l’Autorità si tratta di un fenomeno che risulta particolarmente grave, vista l’estrema varietà ed evoluzione delle offerte commerciali che generano disorientamento nel consumatore. L’Autorità, che continuerà a vigilare con particolare attenzione sul settore, ritiene essenziale che gli operatori predispongano messaggi che siano completi e chiari, anche alla luce dell’analisi degli interventi effettuati.

Sotto osservazione, in particolare, gli spot televisivi, che sono risultati carenti quanto a completezza e chiarezza informativa, con l’utilizzo di scritte scorrevoli o in sovrimpressione insufficienti a specificare la portata reale delle offerte.

Anche a tutela dei consumatori l’analisi dell’Autorità ha individuato, sulla base dei 15 anni di applicazione della legge sulla pubblicità ingannevole, le maggiori lacune informative che generano l’ingannevolezza.

I COSTI ‘MIMETIZZATI’

Spesso la pubblicità omette di indicare l’importo dello scatto alla risposta, i costi di attivazione o l’esistenza di canoni mensili dei costi del noleggio degli apparati necessari all’utilizzazione del servizio. Alcune modalità di tariffazione sono legate a scatti anticipati o agli effettivi secondi di utilizzo del servizio senza che la pubblicità lo chiarisca. Ugualmente si sono riscontrate omissioni di informazioni quando vengono applicati costi allo scadere del periodo di validità dell’opzione tariffaria reclamizzata o vengono omesse le condizioni alle quali è subordinata la possibilità, chiamando o ricevendo telefonate, di ricaricare il proprio credito telefonico. Quando la pubblicità enfatizza la possibilità di utilizzare il servizio a quella tariffa spesso non indica che non tutti i numeri possono essere chiamati al costo reclamizzato. In altri casi è stato omesso di indicare che, per avere quella tariffa, bisogna comunque raggiungere un determinato monte traffico in uscita e/o in entrata. Alcune pubblicità non chiariscono che la tariffa vale solo fino al raggiungimento di un certo numero di chiamate mentre oltre si applicano tariffe meno vantaggiose.

SE LA TECNOLOGIA NON C’È

Spesso le offerte commerciali non chiariscono la necessità di verificare la copertura del segnale trasmissivo del servizio offerto, come nel caso dei servizi UMTS o per la visione della tv sul proprio cellulare. Mancano spesso le informazioni relative alle effettive velocità di connessione e navigazione in Internet, alle cause che possono incidere sulla qualità del servizio, o alla necessità di verificare l’idoneità degli apparati dell’utente a sopportare il servizio offerto.

LE OFFERTE ‘PER SEMPRE’ E GLI OBBLIGHI NASCOSTI

 Lo slogan ‘per sempre’ è ingannevole quando in realtà è previsto un termine entro il quale il servizio, a quel prezzo, va utilizzato. A volte non viene indicato il periodo di validità dell’offerta e le condizioni alle quali l’offerta stessa è legata.

La pubblicità è ingannevole anche quando non chiarisce che per poter effettivamente disporre di cellulari alle condizioni reclamizzate c’è l’obbligo di aderire a determinati piani tariffari e per un determinato periodo, o non spiega che ci sono limiti alle modalità di pagamento (solo con carta di credito o domiciliazione bancaria). A volte è stato omesso di indicare l’esistenza di una penale in caso di recesso anticipato.

Roma, 14 aprile 2007